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venerdì 9 giugno 2023

FIGLI DEL LORO TEMPO


Ormai da diverse settimane la Manifestolibri ha mandato in stampa e nelle librerie - se non lo trovate, chiedetelo! - il libro al quale ho lavorato con più passione negli ultimi anni: Figli del loro tempo. Al cuore del capitalismo islamista. Un libro uscito con almeno un anno e mezzo di ritardo, aggiornato, riscritto, corretto. Una volta lo si sarebbe detto intriso di sudate carte. Preferisco pensare che volente o nolente questo libro si è ritrovato a simboleggiare e a portarsi appresso i cambiamenti e i turning point che negli ultimi tre anni hanno puntellato la mia esistenza, tutti decisamente radicali. Forse per questo lo sento con un affetto che nessun altro mio testo di saggistica mi ha mai suscitato prima. 

È però giunto il momento di lasciare che vada per il mondo con le sue gambe. Che sappia suscitare interesse, curiosità, dissenso, irritazione se volete. In altre parole che vi dica qualcosa, vi parli. Ovviamente non è un romanzo, non è una storia che vi cattura e vi porta altrove. No. È un breve saggio, su un argomento costantemente lontano dalle luci della ribalta e dell'attualità. E l'ho scritto solo per il puro piacere di conoscere.

Il 24 maggio, il giorno prima della presentazione organizzata dall'Università di Cagliari grazie alla Prorettrice alla Comunicazione Prof.ssa Elisabetta Gola e al Prof. Emiliano Ilardi (avrebbero fatto da competenti e disponibilissimi relatoti il Prof. Paolo Luigi Branca della Cattolica di Milano, la Prof.ssa Virginia Zambrano dell'Università di Salerno, oltre alla Prof.ssa Patrizia Manduchi e al Prof. Nicola Melis dell'ateneo cagliaritano), sul mio profilo Facebook postavo queste parole: «Il libro che verrà presentato domani è una delle cose che ho scritto a cui tengo di più. Detta così suona ed è ovviamente banale, ma generalmente, passata la fase della forgia, dell'incudine e del martello, per così dire, mentre sono immerso fino al collo nella scrittura e vado di scalpello e sgorbia, non appena ho terminato, subito ciò che ho scritto inizia a distanziarsi, ad allontanarsi da me, o io da quello. Lo lascio dietro di me come una sorta di segnavia.

Figli del loro tempo no. Forse perché l'ho scritto in uno dei periodi di più grande cambiamento della mia vita - senza entrare nel dettaglio del personale vissuto - perché tra la sua scrittura e la sua pubblicazione è passato un tempo di forzate dilazioni e incidenti durante i quali ho dovuto tenere in allenamento il desiderio nutrendolo di speranza. Quasi due anni nei quali però gli sono rimasto fedele, l'ho risistemato, aggiornato, rifinito, ripulito.

In qualche modo è un libro che non ho lasciato andare per molto tempo, finché mi è rimasto dentro, mi ci sono affezionato.

Lo racconto a prescindere dal valore scientifico dell'opera in sé, né come maldestro tentativo di estorcere simpatia. 

Lo racconto perché facciamo alcune cose che a un certo punto, ce ne rendiamo conto ma non sappiamo esattamente come, assumono un'importanza superiore a quella che avevamo creduto potessero avere, e senza volerlo gli affidiamo, con la fiducia della passione, i nostri desideri e le nostre speranze, perché sentiamo che almeno dentro di noi hanno saputo dare loro una giusta riuscita.

Ecco, per questo libro è stato ed è così.


mercoledì 31 maggio 2023

QUATTRO PASSI NELLA LETTURA


«La differenza è enorme, ma... adesso, mentre sono qui seduto a parlare, differisco da voi solo per la consapevolezza di non essere come voi. Questo è uno dei miei livelli... e, per inciso, piuttosto fastidioso»


Ogni tanto mi prendo una pausa. Una pausa dai lavori in giardino, nel casale, nel bosco, con la legna, con gli animali - due cani e due gatti. E anche una pausa dallo studio, ovviamente.

In queste pause spesso leggo qualche romanzo. Non ho mai smesso di farlo, neanche nei periodi più bui o sconclusionati della mia vita. Se in una cosa sono stato costante, questa è leggere. Di tutto e senza metodo, come ho sempre fatto fin da quando, si può dire, ho imparato a leggere.

E così, dalla lista dei libri da leggere che periodicamente stilo - una necessità che mi si è imposta da quando non posso più tenerli in casa e mi trovo costretto a cederli a mano a mano alla locale sgangherata biblioteca, che si ritroverà a possedere la quasi totalità dei libri della mia famiglia - scelgo più o meno a caso un titolo. La storiella che sto per raccontarvi riguarda uno di questi libri, aggiunto a questa lista anche se non faceva parte, fino a qualche mese fa, della mia personale biblioteca in via di sgretolamento.

Ora. Per ragioni personali mi trovo costretto, periodicamente, a recarmi ad Alessandria - mezz'ora di macchina ad andare e mezz'ora a tornare. Tra quando arrivo e quando ho terminato i miei impegni, ho un buco di circa due ore. Inizialmente me ne andavo a spasso per la città, nel tentativo di perdermi (ma per chi come me è nato e cresciuto a Roma, perdersi ad Alessandria ha dell'impossibile), poi un giorno sono entrato in un bar d'angolo, piccolo, affollato di tavolini, con il bancone stretto fra vetrine piene di tranci di pizza, brioche e, proprio difronte, un'intera parete di scaffali carichi di libri. Il classico book-crossing che per anni ho detestato, da bravo feticista del libro, provvedendo solo a saccheggiarne i titoli che mi interessavano, ogni volta che ne incontravo uno.

Fra i titoli, tanta robaccia, ma anche diverse cose interessanti - vecchie edizioni Mondadori da 350 lire con le lettere clandestine dal fronte della Grande Guerra, libri per ragazzi di quando ero ragazzo io, con la copertina rigida, fra cui Michele Strogoff di Verne, un immarcescibile K. J. Jerome col suo Tre uomini in barca, le lettere di Seneca con testo latino a fornte, qualche best seller da non disdegnare.

Visto che con l'età non si diventa più saggi, né tanto meno più intelligenti, ma solo più pazienti, soprattutto con i propri difetti, ho iniziato a portare anche io i miei libri - di base, però, lo confesso, quelli che proprio non avrei mai riletto e che conservavo solo come si conserva il fango nel carro armato degli scarponi. Ho preso anche alcuni libri, non molti a dire il vero, ma solo quelli che mi sembravano più interessanti. Fra questi, l'edizione che vedete nell'immagine. Una copertina che da sola evoca un ammasso di ricordi che nella loro eterogeneità diventano tutti, però, immediatamente riconoscibili grazie a quell'impostazione grafica così iconica.

Le edizioni Urania vogliono dire una stagione incredibilmente ricca di titoli di fantascienza, iniziata nel 1952 e nella quale sono stati pubblicati per la prima volta in Italia autori del calibro di Isaac Asimov, Philip Dick, J. G. Ballard. Ma questa è accademia. Quello che mi ha subito attirato sono stati gli autori del romanzo pubblicato in quella collana - che come molti altri, probabilmente, sarà anche stato fatto oggetto, per farlo rientrare nelle dimensioni standard, di tagli più o meno ampi. Questi sono i fratelli Arkadij e Boris Strugatski da San Pietroburgo (anche se quando vi nacquero si chiamava Leningrado), che hanno scritto Picnic sul ciglio della strada (il titolo originale in russo è Пикник на обочине), una pietra miliare della fantascienza sovietica. A titolo informativo: è il romanzo dal quale un altro genio russo, il regista Andrej Tarkovskij, avrebbe tratto nel 1979 quel capolavoro di film che è Stalker (Сталкер), con la meravigliosa colonna sonora di Eduard Artemyev.

Sulla qualità e, come genere, sulla precocità con cui la fantascienza sovietica affrontò temi che sarebbero diventati centrali nella letteratura distopica, si potrebbero scrivere diversi saggi. Mi limito a citare solo due romanzi: Noi (Мы, finito di scrivere nel 1921 e pubblicato solo nel 1924) di Evgenij Zamjatin - che anticipa di un quarto di secolo 1984 di George Orwell - oppure Le uova fatali (Роковые яйца, uscito nel 1925) di Michail Bulgakov - sì, proprio quello de Il maestro e Margherita. Se però volessimo allargare la questione, bisognerebbe andare a studiare la produzione di racconti e romanzi di fantascienza di due autori che del genere, in Russia, sono due classici: Aleksandr Kazancev, ma soprattutto Aleksandr Beljaev, autore di decine di romanzi di fantascienza, morto di fame sotto l'occupazione nazista.

Ma insomma, mentre sorseggio il mio cappuccino scuro con cannella, prendo dallo scaffale questo romanzo, per la precisione Passi nel tempo. L'edizione è del 1988, e andare a leggere la sezione con le recensioni dei film di fantascienza dell'epoca (i film recensiti sono però del 1973 e indicati come «appena usciti»), la posta, il coupon che andava spedito, il profilo dei due autori che invece corrisponde per la cronologia indicata delle loro opere all'anno di edizione, e le Fantanews (insieme di indicazioni di prossime uscite editoriali, coccodrilli, segnalazioni varie, ecc. relative alla fantascienza) è un'esperienza davvero interessante, non solo per la presenza di questo particolare paratesto - raccolto in una sezione intitolata Varietà che segue la fine del romanzo -, ma soprattutto per il mondo concettuale, sociale, estetico e politico cui fanno riferimento i testi.

Il testo scorre nelle pagine su due colonne, come fosse un lunghissimo articolo, e mi sono domandato, mentre leggevo, che effetto potesse fare all'epoca quella particolare composizione tipografica sul lettore. A dispetto del fatto che venne probabilmente scelta perché questi volumi erano venduti nelle edicole e non in libreria - dunque, ma è una mia ipotesi, aveva un suo peso la similitudine con i quotidiani nella composizione tipografica della pagina (qualcosa che oggi potrebbe rientrare in un corso di archeologia della stampa moderna, una sorta di studio "filologico" delle tecnologie di impaginazione) - dopo un pò che leggevo, ho ricordato che spesso anche i manoscritti erano in effetti composti, o meglio, vergati, proprio in due colonne. Dunque una soluzione, nella composizione del testo nella pagina, propria anche del regime chirografico pre-Gutemberg, anche se con tutta probabilità quella soluzione era dovuta sia alla maggiore semplicità nel tracciare righe di testo, sia per risparmiare spazio. Ma non divaghiamo.

In sostanza schiaffo il libro nello zaino e me lo porto a casa. L'altro ieri mi siedo sereno in giardino e me lo divoro in una mattinata di sole e silenzio. Il romanzo si svolge come collage di memorandum, rapporti d'indagine, ricostruzioni di incontri e diario dell'ormai anziano Max Kammerer, ex capo del Dipartimento Eventi Insoliti (EI) della Commissione di Controllo COMCON-2, in un imprecisato futuro remoto. Il vecchio Kammerer sente la necessità di ricostruire le vicende che portarono alla Grande Rivelazione, e di cui lui fu uno dei protagonisti principali. Il genere umano ha colonizzato l'intero sistema solare, più un discreto numero di altri pianeti esterni, entrando in contatto con forme di vita aliene intelligenti, vere e proprie civiltà. Fra queste e il genere umano regna la pace, anche se si intuisce l'opera "civilizzatrice" di alcuni - i cosiddetti Progressori - di cui ha fatto parte il più preparato e tenace collaboratore di Max Kammerer, Toivo Glumov. Nei Progressori mi è parso che si intravedesse una metafora del PCUS (per i più giovani che non conoscono la storia di quegli anni, il PCUS era il Partito Comunista dell'Unione Sovietica, in russo КПСС Коммунистическая партия Советского Союза) e della sua opera di internazionalizzazione del comunismo. La quantità di riferimenti alla vita sociale e politica dell'URSS dell'epoca - come il proliferare di Commissioni, Sezioni, Distaccamenti, Organizzazioni e tutta un'articolata burocrazia ai limiti del kafkiano, anche se spesso con una sua pregnanza (nel libro, per dire, esiste un Istituto delle Stravaganze) - a noi lettori italiani spesso sfugge, a meno di una solida preparazione storico-letteraria relativa all'URSS.

La narrazione, inoltre, non ha le atmosfere sospese, i tempi trasognati e le atmosfere spesso indefinite tipiche della stragrande maggioranza dei romanzi dei due autori russi. La storia, dopotutto, segue un andamento comprensibile, i toni sono spesso asciutti, non c'è una sensazione di impalpabilità del reale così tipicamente strugatskiana. Allo stesso tempo, però, il testo non ha quelle componenti spettacolari tipiche della sci-fiction di matrice statunitense, ma conserva e mette in scena il tono peculiare di una certa fantascienza sovietica, attraversata da rappresentazioni sociali, prima che tecnologiche e da messe in scena di temi ed eventi che mettono in crisi lo statuto delle conoscenze su cosa sia "l'umanità", sulle forme di organizzazione sociale, sui modi di conoscere, sulla reale forma del tempo, del desiderio, ecc. Il fatto tecnologico, infatti, anche in questo romanzo rimane sullo sfondo, fa da paesaggio, funziona come ambientazione nel quale la storia assume tratti specifici. Spesso questo ambiente, pur delineando in maniera impressionistica tecnologie iper-avanguardistiche - nel romanzo compare la cabina T-ZERO, in sostanza un teletrasporto - non rinuncia a dettagli che rimandano a un controllo burocratico esasperante e onnipresente, descritto spesso attraverso dettagli dissonanti (gli schermi futuristici che però hanno stampanti da cui fuoriescono fogli come quelli dei moduli continui a strappo, con i bordi forati...). Per godersi la storia occorre dunque non soffermarsi sulla singola descrizione - come quella, veramente impressionante per un romanzo, relativa alla pratica medica, del tutto inventata, della fukamizzazione (in onore di due sorelle scienziate giapponesi, Natalya e Hosiko Fukami...), una sorta di vaccinazione ipotalamica dell'embrione, effettuata durante la gravidanza per rendere i nascituri più resistenti alla vita nello spazio - ma lasciarsi trasportare dal testo. Per certi versi è la storia di un'investigazione estremamente complessa e difficile, dal risultato assolutamente imprevedibile, almeno per me, e che viola tutti gli standard di quella che è una storia di indagine. Il protagonsita e il co-protagonista, infatti, cercano con grande acume i cosiddetti "Vagabondi", esseri senza un preciso aspetto esteriore che viaggiano nel tempo per influenzare civiltà ritenute meno evolute, o come si chiamano fra loro i Ludens, sia con un richiamo al latino "coloro che giocano", ma soprattutto per assonanza con il russo "persone" , cioè люди (liudi).

L'unica cosa che a volte mi ha dato l'impressione di incompletezza - non conosco l'eventuale edizione "intera" del romanzo e suppongo che spesso questa sensazione sia dovuta anche ai tagli operati dalla redazione di Urania - è la serie di riferimenti dei quali non si capisce l'aggancio, per così dire. Oltre ai tagli al testo, però, ho scoperto in seguito che questi riferimenti sono fatti rispetto ad altre opere dei fratelli Strugatski. Questo romanzo, infatti, conclude una trilogia dedicata al personaggio Maksim Kammerer (il perché nel libro è indicato come Max lo spiego fra poco), composta, in ordine cronologico, da L'isola abitata (in russo Обитаемый остров, uscito in URSS nel 1968 e integralmente nel 1969) e da Lo scarabeo nel formicaio (Жук в муравейнике, pubblicato nel 1980 e vincitore nel 1981 del premio Aelita, istituito dall'allora Unione degli Scrittori della Federazione Russa per gli scrittori di fantascienza).

La sensazione di incompleterzza derivava dunque dal fatto che Passi nel tempo è il finale di una trilogia? Magari fosse solo così! Per spiegarla torno a Max, o meglio, a Maksim Kammerer. La presenza di una versione abbreviata e anglicizzata del nome del protagonista si spiega col fatto che la traduzione del romanzo su cui si basa l'edizione italiana che ho letto, non venne svolta sull'originale in russo, ma su un'altra traduzione, precisamente in inglese. E in inglese il romanzo degli Strugatski era stato tradotto con The Time Wanderers (ulteriormente deformato in Passi nel tempo), ma il titolo originale russo, decisamente più bello e che rende in modo radicalmente più icastico anche la filosofia della storia, era Le onde placano il vento (Волны гасят ветер) - titolo col quale Urania ha infine pubblicato la versione integrale del romanzo il primo marzo di quest'anno.

Ma ancora un altro elemento fa sì che alcuni riferimenti, in particolare ai Progressisti, mi sembrassero poco chiari. Il romanzo fa infatti parte dell'universo narrativo di Universo di Mezzogiorno, che comprende diversi romanzi.

Ecco, dalla scoperta di un piccolo libro su uno scaffale in un bar è sgorgato tutto questo che ho cercato di raccontare e condividere. Principalmente perché quanto ho letto mi è piaciuto. Non ho mai fatto mistero di adorare la letteratura russa, anche quando assume le forme di un preciso genere, perché sa tratteggiare l'animo umano in un modo che non ho incontrato in nessun'altra letteratura, per la costruzione di storie con trame che spesso violano ogni regola di buonsenso e verosimiglianza - si pensi a Cevengur di Andrej Platonov, o per andare sul classico a Le anime morte di Nikolaj Gogol - senza quasi mai scadere nel fastidio che mi ha sempre provocato lo sperimentalismo fine a se stesso.

Ma alla fine di questo testo che spero avrete avuto la pazienza di leggere, mi rendo conto di un'altra cosa. Una cosa che c'entra forse poco o niente con lo specifico romanzo che ho letto, ma parla di un oggetto. L'oggetto libro. Tutta l'esperienza che ho descritto e che è intercorsa fra me e questo oggetto, non può essere circoscritta alla sola lettura, né prima, né durante, né dopo. Su di essa gravita la curiosità personale, legata al tempo di inattività che si rapprende sull'oggetto in questione, alle ragioni del dovermi spostare, al piacere per la componente tattile - a proposito, la carta delle pagine di questo libro possie quella ruvidezza e porosità che probabilmente scomparirà dall'orizzonte delle sensazioni che ogni lettore, fra che so, cento anni, potrà correlare alla lettura stessa - alle sollecitazioni che da quell'oggetto sono fuoriuscite come fuochi d'artificio per la curiosità, che è la bambina felice della mia intelligenza. Ma l'esperienza è stata anche quella di collegarmi, attraverso quell'oggetto, al gesto di chi lo ha depositato là in quel bar, alla foce di chissà quale percorso di vita, ecc. ecc.

Insomma: di quale testo, che possiamo leggere a schermo o su un lettore digitale, come anche io faccio spesso, si può fare e dare un'esperienza così spessa, duratura, profonda, pastosa e allo stesso tempo aperta? L'oggetto libro contiene e spesso mantiene in se, attraverso la materia di cui è composto, lo scorrere del tempo, le tracce eventuali dei lettori, come un palinsesto esistenziale. In questo senso, come tecnologia, il libro è ancora oggi il più stabile strumento di trasmissione del sapere, non tanto per quantità di dati o potenziale di diffusione - qualcosa rispetto al quale non potrà mai competere con la rete - ma per concentrazione, permanenza, capacità di incistarsi nel vissuto. E lo dico mentre con molta malinconia, ma anche con sprazzi di serenità verso un futuro nel quale e del quale sarò veramente alieno, nel viaggio della vita mi sto lentamente liberando di quel migliaio di libri che mi sono sempre riuscito a portare appresso, come fa la lumaca col suo guscio.

Ma s'è fatto tardi, e non voglio approfittare oltre della vostra pazienza.




lunedì 16 gennaio 2023

L'UMANITÀ COME MEZZO O STRUMENTO DELLA TECNOLOGIA


«... una direzione verso la quale nessuno volgeva lo sguardo»


Questo fine settimana sono stato da solo. Mia moglie in viaggio di lavoro, non mi restava che finire di tagliare la legna nel bosco, sistemare la legnaia, accudire gli animali, cucinare per mia suocera a cena, e poi ho avuto tutto il tempo di questo mondo.

E quando ho tempo, io adoro leggere romanzi. È il mio altrove, il tempo del viaggio per la mente. Così in una sola serata, lunga abbastanza da sfociare nella notte, ho terminato un romanzo che forse non molti conoscono e che da anni mi sbirciava di sottecchi, facendomi sentire in colpa per non sfogliarne le pagine. Perché è certo, anche se ormai leggo principalmente attraverso un lettore di e-book, che lo sfogliare la pagina fisica, e non mi soffermo su quei dettagli da bibliofilo che somigliano ormai, in questo mondo che si pretende immateriale, alla parafilia di un feticista, ha tutto un altro sapore.

È stata una di quelle letture ingorde che mi ha riportato alla mia età fresca e verde, quando leggevo i libri in estenuanti corpo a corpo che somigliavano, per intensità e foga e ingordigia, ai baci di quegli anni. Una pagina tirava via l'altra, con passione e la piacevolissima sensazione di non averne mai abbastanza.

Il romanzo in questione è La voce del Padrone, di Stanisław Lem, un romanziare polacco fra i migliori scrittori di fantascienza fin ora vissuti. Ma attenzione, qui non si trata di astronavi, mostri alieni, viaggi intergalattici e tutto l'armamentario tipico di certa science finction, no. La spettacolarità fiabesca e spesso un po' sciatta di gran parte di quel genere non gli appartiene. Semmai i suoi romanzi sono per certi versi, anzi, spesso integralmente, romanzi filosofici - non alzate il sopracciglio in segno di prevedibile noia! - e illustrano le possibilità della letteratura di rappresentare in maniera logica gli sviluppi della scienza, senza lasciarsi sedurre dalle sirene del "fantastico tecnologico".

Lem ha compiuto studi filosofici e medici, è stato meccanico e poi biologo e cibernetico, oltre ad aver avuto i suoi grossi problemi con la critica stalinista. Ecco, scordavo di situarlo nel tempo. Morto nel 2006 a Cracovia, era nato nel 1921 a Leopoli (in polacco, perché all'epoca la città era polacca, si scrive Lwów, oggi si chiama L'vov - in cirillico Львів - e si trova nell'Ucraina occidentale). La sua fama di scrittore in Polonia era enorme, tanto che nel 1977 venne proposto al Nobel per la letteratura.

Oggi, purtroppo, spesso lo si conosce esclusivamente perché Andrej Tarkovskij trasse da un suo romanzo, Solaris, l'omonimo, giustamente celebrato film, con memorabile colonna sonora di Edward Artemiev (Solaris - Original Soundtrack). Una nuova messa in scena del romanzo è stata fatta anche da Steven Soderbergh nel 2002. Ma insomma, avete capito che a parte questo romanzo, chi conosce le opere di Stanisław Lem?

La sua scelta di utilizzare il genere fantascientifico era dettata più che altro dalla possibilità di svolgere in quel modo certi ragionamenti, analizzare certe situazioni, ragionare sulle idee, più che dall'entusiastica e - oggi lo possiamo dire - stucchevole celebrazione della tecnologia in sé. In questo senso si pensi che nel 1976 venne radiato dalla SFWA (Science Fiction Writers of America - Associazione americana degli scrittori di fantascienza) per aver dichiarato senza mezzi termini che «la fantascienza è un caso senza speranza, con eccezioni», stigmatizzandone la natura esclusivamente commerciale, spettacolare, di massificazione.

In realtà, però, pare che la sua cacciata avvenne in seguito a una lettera scritta all'FBI niente meno che da Philip Dick, nella quale Stanisław Lem era segnalato come "spia comunista". Ad onor del vero va detto che Lem non era mai stato iscritto al Partito Comunista, ma soprattutto che all'epoca in cui scrisse la lettera, Dick - che da Lem era considerato «un visionario tra i ciarlatani» - era in preda a visioni e allucinazioni dovute all'uso ed abuso di anfetamine, tiopental sodico e altre sostanze psicotrope.

Ma non voglio stare qui a fare un ritratto a tutto tondo di questo particolarissimo scrittore ingiustamente messo in secondo piano, semmai vi invito a leggervi una bella disamina su di lui nello scritto di Alberto Mittone che potete reperire qui: Grandezza di Stanislaw Lem. Quello che mi interessa è condividere con voi una parte di questo romanzo, diciamo il capitolo 16, che mi ha veramente fatto riflettere. Specialmente se penso che è stato scritto oltre mezzo secolo fa.

La scelta di parlare solo di questo capitolo non vuol dire, ovviamente, che non vi consigli con tutto il cuore di leggere l'intero romanzo - uscito in Polonia nel 1968 e tradotto in Italia, bontà nostra, nel 2010, per i tipi della Bollati Boringhieri. Ve lo consiglio perché è un esempio cristallino di cosa voglia dire scrivere senza cedere di un millimetro al patetismo che affligge larghissima parte della letteratura contemporanea, e per patetismo intendo quell'ossessiva, ripetitiva, onnipresente riduzione di ogni finzione letteraria (perché la letteratura è finzione e menzogna, ironia e simulazione, oltre che esclusiva testimonianza) alle sensazioni, alle emozioni e all'universo affettivo, in una sorta di melodramma all'ennesima potenza. Qualcosa di insopportabilmente sdolcinato, anche, se non soprattutto, se quest'affettività è declinata come crudeltà, come passionalità, e via discorrendo.

Dunque La voce del Padrone è un romanzo che affascina la mente, perché nella stringata semplicità della trama, affronta questioni decisamente centrali nella riflessione sul rapporto fra uomo e tecnologia, fra cultura e scienza, fra desiderio e limiti concettuali. E lo fa con un'asciuttezza intellettuale così ben calibrata da permettergli di essersi saputo sottrarre, come romanzo, alla sua interpretazione, per altro riduttiva, di prodotto della Guerra Fredda.

Posso solo dirvi di leggerlo e contare sulla fiducia che potete avere in me come lettore. Torno dunque al capitolo che mi ha impressionato per la sua attualità, per la capacità di coniugare riflessione scientifica e contestualizzazione antropologica. In sostanza perché Lem mostra in queste pagine, in maniera esemplare, come la letteratura possa essere anche e soprattutto pensiero. Da apprendista stregone della sociologia dei media, nel caso specifico, non credo di aver mai letto, in una forma così densa di significati, una descrizione altrettanto calzante dell'evoluzione tecnologica negli ultimi due secoli. Soprattutto del suo essere specchio desolante della divaricazione interna al genere umano, la stessa che da un lato progetta spedizioni su Marte e dall'altro conta a milioni i morti di fame e malattie.

Soprattutto è degna di nota la capacità di individuare la subordinazione della dimensione libidica dell'uomo, il piacere variamente declinato, alla sua determinazione tecnologica (un percorso iniziato con la seconda rivoluzione industriale, aggiungerei), ma anche la trasformazione tecnologica a cui sottoporre il momento riproduttivo - la mai sopita e oggi riemergente pulsione eugenetica - e soprattutto la sostanziale cecità rispetto ai fini della tecnologia stessa, la cui spettacolare mutazione sfugge a tutti.

Le pagine di questo capitolo descrivono con precisione e al massimo grado di pregnanza le direttrici dello sviluppo tecnologico (che non vuol dire per niente solo e esclusivamente "apparati tecnici") che oggi, in larga parte, vediamo realizzate - pensiamo alla chirurgia estetica come forma di "moda" tecnologica, così come all'estetizzazione della dimensione cyborg che tanto ha appassionato la postmodernità e che riecheggia nei discorsi sul postumano.

Per contestualizzare in modo completo le pagine del capitolo 16, che posterò a chiusura di questo mio testo, riporto inoltre quello che Lem scrive in un precedente capitolo - l'11 -, dove affronta per altro il rapporto con la tecnologia come qualcosa di vissuto in modo "inconsapevole". Perché tutte le considerazioni che svolge nelle pagine che tanto mi hanno colpito, alla luce di questo fatto, cioè l'incosapevolezza dell'esperienza con la tecnologia, acquisiscono una dimensione per certi versi inquietante. La tecnologia, infatti, non è più strumento dell'umanità, ma è quest'ultima che ne è divenuta mezzo. Un mezzo per fini sostanzialmente ignoti.

«Come nei secoli passati, la politica ha considerato il globo, ivi compreso lo spazio sublunare, come una scacchiera per le proprie contese, senza accorgersi che intanto la scacchiera subdolamente si modificava cessando di rappresentare una base e uno stabile punto d’appoggio, e diventando invece una zattera trascinata dal gioco di correnti invisibili che la guidavano in una direzione verso la quale nessuno volgeva lo sguardo.

Chiedo scusa per la metafora. La verità è che da quando Herman Kahn ha fatto una scienza della professione di Cassandra, i futurologi si sono moltiplicati come funghi; tuttavia nessuno di loro ha mai detto chiaro e tondo che ci siamo arresi ai voleri dello sviluppo tecnologico. Ma i ruoli si sono invertiti ed è stata l’umanità a diventare, per la tecnologia, un mezzo o uno strumento per raggiungere uno scopo sostanzialmente ignoto. La ricerca di un’arma definitiva ha trasformato gli scienziati in ricercatori di una pietra filosofale che differisce dall’ideale alchemico in un solo punto, ossia per l’assoluta certezza della sua esistenza. Il lettore di studi di futurologia si trova davanti a grafici e tabelle stampati su carta patinata che lo informano su quando appariranno i reattori idroelici e su quando si comincerà a sfruttare commercialmente la capacità telepatica del cervello. Tali future scoperte vengono previste per mezzo di sondaggi collettivi condotti presso gli specialisti del settore: situazione tanto più pericolosa di quella precedente in quanto crea un’illusione di conoscenza proprio là dove un tempo, per generale ammissione, regnava la più totale ignoranza.»


Stigmatizzare queste parole come quelle di chi fa polemica contro la tecnologia, significherebbe ignorare che Lem stesso era un cibernetico, e che in ogni caso è oggi palese come la direzione dello sviluppo tecnologico sia sfuggita di mano a qualsiasi tipo di controllo non dico etico, ma almeno politico, e sia invece funzione proprio di quella "messa in produzione" della componente libidica, del soddisfacimento puramente sensoriale. Esattamente «la ragione al servizio delle pulsioni», come scrive Lem: un caleidoscopio di tecniche per incistarsi dentro un bozzolo solipsistico di piaceri, «una piacevolissima forma di suicidio intellettuale», appunto.

Allo stesso tempo anche l'altra tendenza, quella che l'autore definisce "ascetica", mostra oggi una vitalità notevole. È la strada dell'integrazione corpo-macchina, la via del cyborg, che si manifesta soprattutto per le implicazioni relative all'integrazione di parti tecnologiche nel corpo (arti, organi, fasci tendinei e terminazioni nervose, apparati), e per le frontiere, che iniziamo a esplorare, degli impianti neurali, ma anche e soprattutto per il potenziale di «disintegrare l'omogeneità biologica, finora intatta, della specie». Il postumano, in sostanza.

Ad ogni modo riporto ora, per esteso, le pagine alle quali ho fin qui fatto riferimento e che confidando nella vostra pazienza, ma soprattutto nella vostra curiosità, spero leggerete:

«Ma in una società giunta a una fase di sviluppo simile alla nostra si manifestano tendenze a lungo termine e contrastanti tra loro, di cui è impossibile prevedere gli effetti remoti. Da un lato, le tecnologie già costituite esercitano una pressione sulla cultura esistente, inducendo in un certo senso la gente ad adattarsi e sottomettersi alle strumentalizzazioni in atto. È possibile quindi vedere sia i segni di una competizione tra l’uomo dotato d’intelletto e la macchina, sia varie forme di simbiosi tra l’uno e l’altra; mentre la psicologia e l’ingegneria fisioanatomica scoprono gli «anelli deboli», i parametri scadenti dell’organismo umano, dando il via alla tendenza che porta a pianificare gli opportuni «miglioramenti». È da una tendenza di questo genere che scaturisce l’idea di produrre dei «cyborg», individui parzialmente artificiali, destinati ai lavori nello spazio e all’esplorazione di pianeti con ambienti drasticamente diversi da quelli sulla Terra; come pure l’idea di collegare direttamente il cervello umano alle banche dati delle memorie artificiali, o di costruire delle macchine in cui si operi un’associazione, non si sa ancora quanto stretta, tra uomo e strumento, sul piano meccanico o intellettuale.

Tutto questo fascio di pressioni tecniche minaccia di disintegrare l’omogeneità biologica, finora intatta, della specie. Non solo l’unica cultura propria alla totalità umana, ma perfino l’unica e universale forma corporea dell’uomo potrebbe, per effetto di tali trasformazioni, diventare la reliquia di un morto passato. L’uomo trasformerebbe in effetti la propria società nella variante psicozoica di un formicaio.

D’altro canto, la sfera delle tecnologie strumentali potrebbe venire subordinata alla cultura in quanto insieme di costumi sociali. Si potrebbe, per esempio, giungere a un prolungamento biotecnologico degli influssi che determinano la moda. Per il momento, le tecniche della moda si arrestano alla superficie della pelle umana. In realtà vorrebbero farci credere che il loro influsso si spinga più lontano perché, a seconda dei periodi, ci vengono imposte come modelli privilegiati differenti varianti del fisico umano. Basti ricordare la differenza tra l’ideale di bellezza di Rubens e la donna d’oggi. Un ignaro osservatore delle questioni terrestri potrebbe avere l’impressione che, a seconda dei dettami di questa o quella stagione, alle donne (più visibilmente soggette ai decreti della moda) una volta si allarghino le spalle e la volta dopo i fianchi; che ora i seni si ingrossino e la volta dopo rimpiccoliscano; che le gambe si facciano ora piene, ora lunghe e sottili, e via dicendo. Ma questi «afflussi» e «riflussi» della sostanza corporea altro non sono se non un’illusione prodotta dalla selezione, nella varietà dell’insieme, dei tipi fisici che riscuotono l’approvazione del momento. Un simile stato di cose potrebbe appunto subire una correzione biotecnologica: il controllo genetico trasferirebbe in quel caso la sfera della varietà razziale nella direzione richiesta.

Paragonata alla forza delle trasformazioni cultural-poietiche, una selezione genetica riguardante caratteristiche puramente anatomiche può sembrare qualcosa di futile; ma, nello stesso tempo, può anche apparire desiderabile per motivi estetici (in quanto opportunità di universalizzare la bellezza fisica). Al momento mi riferisco all’inizio di una strada sulla quale si potrebbe apporre il cartello «la ragione al servizio delle pulsioni». E questo perché la stragrande maggioranza dei prodotti materializzati dalla ragione viene investita in lavori prettamente sibaritici. Un televisore costruito con intelligenza diffonde spazzatura intellettuale; le meravigliose tecniche di comunicazione rendono possibile che, invece di ubriacarsi nel cortile di casa sua, un cretino travestito da turista lo faccia in prossimità della basilica di San Pietro a Roma. Qualora tale tendenza dovesse produrre un’invasione dei mezzi tecnici all’interno stesso dell’uomo, sarebbe indubbiamente allo scopo di espandere al massimo la gamma delle sensazioni piacevoli e forse, addirittura, perché oltre al sesso, alla droga e alle gioie della tavola, vengano resi accessibili altri generi di stimoli e di gratificazioni finora sconosciuti.

Visto che il nostro cervello possiede un «centro del piacere», che cosa potrebbe impedirci di connettervi degli organi sensitivi sintetici che ci permettano di raggiungere orgasmi, mistici e non mistici, attraverso pratiche appositamente pianificate e inventate per scatenare estasi a vasto raggio? Un’autoevoluzione realizzata in questi termini rappresenterebbe un definitivo rinchiudersi nella cultura e nei costumi, un tagliarsi fuori dal mondo extraterreste e, in sostanza, una piacevolissima forma di suicidio intellettuale.

Tecnica e scienza, associate insieme, riusciranno senza dubbio a fornire degli apparecchi capaci di esaudire le richieste sia della prima che della seconda via di sviluppo. Il fatto che l’una e l’altra ci sembrino alquanto mostruose non pregiudica ancora niente.

I giudizi negativi circa tali trasformazioni sono infatti del tutto privi di fondamento. La direttiva secondo la quale non si deve «indulgere troppo a se stessi» può essere razionalizzata solo fin tanto che il piacere di un individuo comporti il danno di un’altra persona (oppure il danno del proprio corpo e della propria anima come, per esempio, nel caso della droga). Tale direttiva può costituire l’espressione di una semplice necessità, nel qual caso occorre sottomettervisi senza discutere; ma la linea di sviluppo della tecnologia è appunto orientata in modo da eliminare una dopo l’altra tutte le necessità, in quanto limitative di possibili comportamenti. Chiunque affermi che la civiltà dovrà sempre tenere conto di una qualche necessità sotto forma di limitazione della libertà personale, professa in sostanza l’ingenua fede che l’Universo sia stato creato tenendo presenti i «giusti doveri» degli esseri dotati di ragione. Il che è semplicemente un’estensione del biblico precetto sulla necessità di guadagnarsi il pane quotidiano con il sudore della fronte. Si tratta di un giudizio chiaramente ontologico e non etico, come ritengono talvolta questi ingenui. L’esistenza allestitaci come alloggio è stata ammobiliata in modo che non si possa, per mezzo di nessuna scoperta, raggiungere la «vertigine del successo».

Ma è impossibile fondare previsioni a lungo termine su una fede così primitiva. Sono tesi che la gente professa per paura del cambiamento (quando non lo fa per motivi «puritani» o «ascetici»). Una paura che è sempre stata alla base di tutti gli argomenti scientifici neganti a priori la possibilità di costruire delle «macchine intelligenti». Il genere umano si è sempre sentito meglio, ma mai del tutto a suo agio, in situazioni almeno in parte disperate: un condimento che non conforta il corpo, ma placa lo spirito. Anche l’appello: «Tutte le forze e le riserve sul fronte della scienza!» può venire razionalizzato solo fin tanto che le «macchine intelligenti» non sono veramente in grado di sostituire gli scienziati.

In sostanza, non siamo capaci di dire niente di sensato sul reale aspetto delle due direttive, quella espansiva, o «ascetica», e quella incistata, o edonistica. Le civiltà possono andare sia nell’una che nell’altra direzione, possono attaccare il Cosmo oppure tagliarsene fuori. [...].

Una civiltà «divaricata» sul piano tecnoeconomico come la nostra, con un’avanguardia che sguazza nel benessere e una retroguardia che muore di fame ha già, proprio per questa sua divaricazione, una linea di sviluppo chiaramente tracciata. In primo luogo perché le retroguardie rimaste arretrate cercano di uguagliare in benessere materiale le prime linee; benessere che, per il solo fatto di non essere stato ancora raggiunto, sembra giustificare la fatica di inseguirlo. In secondo luogo, perché l’avanguardia abbiente, in quanto oggetto di invidia e di competizione, vede così confermato il proprio valore: dal momento che gli altri la imitano, quello che fa dev’essere non solo buono, ma addirittura eccellente! Il processo diventa quindi circolare poiché si opera un crescendo positivo dei moventi che incrementano la spinta in avanti, ulteriormente spronata dal pungolo degli antagonismi politici.

E ancora: la circolarità si produce dal momento che è difficile trovare nuove soluzioni quando il problema considerato è già stato in qualche modo risolto. Gli Stati Uniti, per male che se ne possa dire, indubbiamente esistono con le loro autostrade, le loro piscine illuminate, i loro supermarket e tutti gli altri meravigliosi splendori. Anche se si potesse immaginare un genere completamente diverso di beatitudine e di benessere, esso sarebbe possibile soltanto in seno a una civiltà che sia al tempo stesso differenziata e, complessivamente, non povera. Ma una civiltà che abbia raggiunto un simile stato di uguaglianza e, per ciò stesso, di omogeneità, è per noi qualcosa di completamente sconosciuto. Sarebbe una civiltà giunta a soddisfare le elementari necessità biologiche di tutti i suoi membri, per cui, a quel punto, i suoi vari settori nazionali potrebbero procedere a cercare ulteriori e diverse vie verso l’avvenire, un avvenire ormai libero da problemi economici. E tuttavia, sappiamo già con certezza che quando sui pianeti passeggeranno i primi emissari della Terra, gli altri suoi figli sogneranno non spedizioni del genere, ma un tozzo di pane.»






sabato 31 dicembre 2022

 ERINNI, METROPOLI, POLITICA E TERRORE


Il testo che vi presento oggi lo scrissi ventuno anni e qualche mese fa. Quando terminai di scriverlo, mi sorpresi a rileggerlo con la sensazione di aver messo piede in un terreno di riflessione che ancora non conoscevo bene, ma che trovavo estremamente congeniale al mio modo di ragionare. Alcuni elementi emersi dalle riflessioni che mi "spuntarono" dalle dita mentre scrivevo, costituiscono ancora oggi punti di riferimento ineludibili di come penso e definiscono le linee di forza lungo le quali organizzo i materiali che rumino in testa.

Da poco c'era stato l'attentato alle Twin Tower e con i colleghi dell'epoca e amici di sempre, Fabio Tarzia e Emiliano Ilardi (tutti all'epoca nell'armata "romana" di Giovanni Ragone, con cui lasciammo un segno non indifferente presso la Facoltà di Sociologia dell'Università di Urbino), presentammo le nostre relazioni a un seminario specificatamente dedicato alla metropoli, nel quale il tema veniva declinato a partire dall'attentato che era avvenuto circa un mese prima.

Da poco c'era stato l'attentato alle Twin Tower, e con i colleghi dell'epoca e amici di sempre, Fabio Tarzia e Emiliano Ilardi (tutti all'epoca nell'armata "romana" di Giovanni Ragone, con cui lasciammo un segno non indifferente presso la Facoltà di Sociologia ad Urbino), presentammo le nostre relazioni ad un seminario specificatamente dedicato alla metropoli, nel quale il tema veniva declinato sull'attentato che era avvenuto circa un mese prima.

Io portai questa relazione, illustrandola probabilmente, come facevo all'epoca, nel modo più ingarbugliato possibile. E per fortuna era ancora una versione più ridotta. Incuriosito da quanto vedevo che ne veniva fuori, ampliai quella relazione fino a darle la versione che potete leggere più sotto. E fu con questo articolo che nel 2003 mi guadagnai una pubblicazione di tutto rispetto. Ero iscritto a un forum, mi pare si chiamasse "DonJuan on-line", o qualcosa del genere, e discutendo diedi da leggere il mio testo. E tramite uno dei membri del forum col quale avevo interagito più spesso, Antonio Casilli (oggi Professore associato di Digital Humanities presso il Telecommunication College of the Paris Institute of Technology, qui il suo blog attuale: https://www.casilli.fr), il testo finì pubblicato - con il serioso titolo Metropoli globale. Forme urbane e virulenze del capitale sul n°17, anno VII, di Cyberzone (Naufragi con spettatori?). Il pezzo, nel tempo e nei luoghi in cui è apparso a mano a mano che gli davo forma, ha assunto diversi titoli. Quello con il quale ve lo posto è il titolo con cui apparve nel forum.

Alcuni concetti che lì esprimevo, ancora indugiando all'ombra del dubbio, incerto sulle forme e le direzioni che la mutazione in atto avrebbe preso, dopo ventuno anni, in me li ho precisati - spesso con dolorosa consapevolezza - così come la mia incertezza si è attenuata, in merito soprattutto al consolidarsi di alcune tendenze ormai abbastanza evidenti e decisamente inquietanti.

In quell'attentato, da qualunque parte esso sia provenuto e qualunque preparazione esso abbia avuto, dovremmo ormai vedere non solo uno spartiacque storico, ma anche un esempio di rappresentazione mediatica, con tutto quello che questo tipo di operazioni implica in tema di ambiguità del percepito e di costruzione dell'evento. A me pare, ad oggi, che quell'evento abbia definitivamente fatto crollare qualsiasi illusione di razionalità intellettuale ed abbia reinserito nel circuito della storia sia la dimensione religiosa - nei modi e con le forme di una partita di giro fra islamismo politico e neoliberismo, due attori di uno stesso copione - sia, a distanza di un ventennio, un prepotente realismo politico.

Ad ogni modo, a ventuno anni di distanza, questo testo che vi propongo mi pare conservare molta della sua attualità. Valutate voi.



FURY OVER NEW YORK

Città, violenza e mitologie politiche


Il compito di una critica della violenza(1) si può definire come l’esposizione del suo 
rapporto col diritto e con la giustizia. Poiché una causa agente diventa violenza, 
nel senso pregnante della parola, solo quando incide in rapporti morali. La sfera 
di questi rapporti è definita dai concetti di diritto e di giustizia. Per quanto riguarda, 
anzitutto, il primo dei due, è chiaro che il rapporto fondamentale e più elementare 
di ogni ordinamento giuridico è quello di fine e mezzo; e che la violenza, per cominciare, 
può essere cercata solo nel regno dei mezzi e non in quello dei fini." 

[Walter Benjamin, Angelus Novus. Scritti filosofici]

(1) Il termine tedesco per «violenza» (Gewalt) significa anche «autorità» e «potere». 


L’angoscia che ci ha colpito per gli attentati terroristici negli Stati Uniti trova probabilmente un suo terreno di sedimentazione nella percezione, drammatica e violenta, della progressiva scomparsa della metropoli. La rappresentazione violenta della sparizione sottoforma di distruzione rappresenta l’elemento terrorizzante, l’emergere dell’irrazionale nella sua dimensione di funzione del potere. 

La sedimentazione secolare delle pratiche, dei valori e delle forme di vita urbane prima e metropolitane poi, fa parte dell’archeologia dell’immaginario di massa. L’infrazione di quest’immaginario fatto di forme rappresenta un elemento perturbante perché porta alla superficie l’aspetto funzionalista della metropoli postmoderna, il suo essere una struttura di pratiche e consumi più che un reticolo sociale, una forma di convivenza. 

Che le forme stesse della metropoli moderna stessero scomparendo, era un fatto noto da tempo. La scomparsa poteva declinarsi sul versante dell’esplosione (le megalopoli) o della dissoluzione/frammentazione (Los Angeles o il tessuto urbanistico del Nord-est nostrano). Che questa scomparsa fosse dell’ordine del controllo, però, non era prevedibile, anche se la rivolta di Los Angeles aveva comunque fatto emergere l’aspetto irrazionale e violento dell’interazione sociale sottesa alle funzioni sulle quali il tessuto urbano si plasmava.

Come ogni atto di sabotaggio semiotico, il terrorismo ha però reificato la tematica della perdita di forma della metropoli attraverso un atto informe come la violenza e la distruzione. È emersa in maniera traumatica la componente funzionale della metropoli. Così come la violenza terroristica è stata strumentale (cioè mezzo) per affermare una proposizione teologica, allo stesso modo la fragilità materiale della metropoli ha portato alla luce il suo carattere processuale, ben occultato sotto la metafora delle forme architettoniche.

Una tragedia culturale e sociale di cui poco si è parlato è proprio quella dell’emergere di un’identità della metropoli assolutamente funzionale alle logiche del capitale, in cui gli spazi del privato sono annichiliti dalla violenza. 

Una scoperta così drammatica dal punto di vista dell’eredità culturale democratica di cui l’Occidente si fa paladino, come la scomparsa della metropoli in quanto forma d’interazione sociale e struttura materiale d’incontro (anonimo e casuale quanto si vuole, ma garanzia di libertà), è avvenuta in modo del tutto imprevedibile, o come direbbe Lotman, esplosivo.

Il crollo del tempio immaginario della metropoli in quanto simbolo funzionale della teologia del capitale è stato uno shock enorme. Per provocare un tale disvelamento, occorreva solo una teologia speculare e contraria in cui tutto venisse declinato nel segno inverso ed in cui la violenza fosse utilizzata a fini immaginari attraverso un atto esso stesso spettacolare.

Al posto dell’esorcismo sociale e fantastico dell’astronave degli alieni che in Indipendence day distrugge la Casa Bianca, la reificazione di due jet di linea che si schiantano con tutti i loro innocenti passeggeri sul simbolo del potere e dell’autorità del capitale. 

La genesi della paura emerge quindi dalle logiche fantasmatiche della sublimazione filmica per farsi fatto. In questo, le dinamiche dell’immaginario segnalavano già la riduzione della metropoli a segno prima che a forma, a servomeccanismo materiale delle logiche rappresentazionali del capitale, prima che a luogo d’interazione.

Ci scopriamo orfani di un modello sociale che ci aveva accompagnato con la sua paideia sin dall’affermazione della modernità (proprio in questa meravigliosa città di Urbino trovò una delle sue enunciazioni formali più elevate nell’intreccio tra corte e città, tra forme d’interazione personali e sociali). 

Ci rimane la paura, capace di attraversare a cavallo dei media le metropoli e le loro pareti di vetro (come segnalava rispetto alle pareti domestiche Abruzzese ne La grande scimmia) e di ricondurci nel grumo irrazionale al fondo del politico e della giustizia.

In che modo una politica della paura può modificare le abitudini d'uso delle metropoli? Dopo la comune di Parigi, interi quartieri furono abbattuti per costruire vie di comunicazione veloci e larghe, che impedissero le barricate e permettessero le cariche di cavalleria per disperdere i manifestanti. Parigi vide modificata la sua struttura di base. Cosa può accadere alla simbologia architettonica dell'altezza, dopo gli attentati dell'11 settembre?

Che ruolo gioca la costruzione mediatica del terrore nell'allestimento di un immaginario sociale di controllo? Parallelamente alle istituzioni di sorveglianza e controllo tipiche della modernità (ospedali e carceri), si corre il rischio, attraverso la creazione di un ambiente mediatico che "pompa" paura nell'informazione e dunque nel sistema nervoso centrale di miliardi di persone, di estendere le dinamiche del controllo a tutto il tessuto sociale, esternalizzando le stesse dinamiche carcerarie ed ospedaliere. Oltretutto con gli stessi insuccessi in tema di rieducazione e cura, peraltro funzionali proprio al controllo (che non serve a prevenire i danni ma ad amministrarne il carico di paura). 

La distruzione del duplice tempio della globalizzazione economico-finanziaria ha travolto un immaginario ed ha scoperto, metaforicamente ma con un fondamento materiale (un incrocio di travi che ha resistito al crollo), la croce che sorregge la teologia sociale cristiana del primato della ricchezza, della trasformazione del sangue che redime in denaro che rende. 

Lo scontro in atto, infatti, è uno scontro di teologie sociali (la vita al servizio della morte santificatrice per i talebani, la morte al servizio della vita profittevole per gli americani) e per questo rischia di divenire globale: per le sue implicazioni nel sistema di credenze sociali. Tecnologia elevata da una parte e dall'altra (macro e spettacolare per gli Usa, micro e da nascondere per i talebani) si confrontano su di un fondale di argomentazioni e bisogni basilari, o presunti tali, in versione retorica (da un lato la fede e la fame, dall'altro la vendetta e la paura, per entrambi l'ipertrofia dell'identità). Su tutto si stende e si impasta la macchina ansiogena dei media, che immettono adrenalina nel sistema nervoso mediatico, cercando di provocare infarti sociali con continue scariche fatte di violenza e angoscia, patetismo e fatalismo. 

L’Europa conosce forme d’aggregazione sociale urbana che alla luce delle pratiche abitative in aree residenziali private americane, possono risultare foriere di panico. Questo panico ci invita a pensare lungo due direttrici. Una riguarda le forme urbane aperte rispetto a quelle chiuse, l'altra rispetto alla tradizione della struttura urbana come culla della democrazia. La prima ci richiede di distinguere attentamente tra strutture urbane aperte, sebbene controllate da polizie ed apparati di vigilanza tecnologici, e chiuse.

Le prime si prestano ad essere usate, sebbene parzialmente, in maniera aperta (pensate al Village di New York, al quartiere latino di Parigi, a via dei Volsci a Roma, ecc.). Pur non essendo state progettate per, vengono utilizzate per, determinando una loro forte riconoscibilità sociale (data dal rafforzamento del codice interno a quella porzione urbana) ed una loro forte identità, che funzionano anche come elementi selettivi verso l'esterno. Quest’uso delle forme urbane è influenzato dalle avanguardie del primo novecento e dall'idea che la metropoli sia plasmabile dagli usi che se ne fanno (Abruzzese).

Le seconde riproducono una tradizione antichissima di separazione urbanistica (le acropoli, le città proibite, i recinti sacri, le residenze principesche, ecc.) ma lo fanno in una struttura sociale mondanizzata, in cui l'unica teologia possibile è quella del capitale. Gli apparati di controllo sono una manifestazione del potere che amministra i riti e le credenze relative a questa teologia e proteggono/recludono (come i carceri e le cliniche) i suoi officianti, consapevoli o meno, ripagandoli con il sentimento della sicurezza, ovvero la sublimazione capitalistica della segregazione. Le teorie politiche che fondarono lo zarismo nel XVI sec. (provenienti da Bisanzio e dalla Valacchia in particolare) prevedevano anche che la persona che incarnava il potere rimanesse celata ed inaccessibile alle masse, per coltivare e rinfocolare le credenze e la sensazione della sacralità del potere. Le strutture residenziali private seguono questa impostazione, ma secondo i dettami della teologia capitalista, ovvero senza personalizzazioni (l'individualismo è solo un elemento del catechismo sociale, funzionale allo smembramento della percezione di sé come parte di un insieme più vasto, cioè della società, che è un altro moribondo della civiltà del tramonto) e con la celebrazione della proprietà come collante e veicolo d'identificazione. 

La paura è il puntello interno di questo sistema ed attinge la sua forza nelle aree dell’irrazionale sublimato dalla tecnologia.

Dire che l'Europa abbia prodotto più strutture urbane aperte è vero in parte. I primi esperimenti di segregazione urbana (sebbene di segno inverso) sono nate proprio da noi con i ghetti. Parigi è la prima città che ha subito ingenti ristrutturazioni urbanistiche per motivi di sicurezza ed ordine pubblico. Anche il muro di Berlino era la materializzazione di una struttura di controllo, così potente da distruggere il concetto stesso di spazio sociale urbano.

Riguardo alla tradizione della struttura urbana come culla della democrazia, dobbiamo seriamente considerare che proprio il controllo e la pianificazione urbanistica furono il "biglietto da visita" della nascente democrazia. Nell'antichità con l'Atene di Pericle, nella modernità con i quartieri operai di Londra. Se nel primo caso l'idea di democrazia si rifletteva sulle forme urbanistiche attraverso l'allestimento di spazi e di strutture che significassero l'idea che la città aveva di sé e dei propri valori (e la politica come la intendiamo noi occidentali è indissolubilmente legata a questa dinamica, a parte la filiazione etimologica del termine proprio da polis), nella modernità la struttura urbana è stata sempre un veicolo d'affermazione del capitale. Basti pensare appunto a Londra, alle degenerazioni come l'abusivismo o la speculazione edilizia, alla proliferazione delle attività commerciali e sociali legate al consumo, anche quello più minuto, al trasporto, alla fornitura di servizi, ecc. Basti pensare alla progressiva erosione delle forme metropolitane a favore dei consumi, appunto, ed alle funzioni del capitale.

Le città dell'Urss erano in questo più antiche, richiamavano l'idea ateniese e monumentale di città come espressione architettonica ed urbanistica di un'idea. Nel secolo appena terminato, però, le idee di pianificazione urbana, così come di pianificazione sociale, sono fallite o sono degenerate. Cosa è rimasto? Se la paura è veramente ormai il più potente collante sociale, con una valenza quasi archetipica, allora ecco che la metropoli scompare, perché scompare la sua ragione di esistere, ovvero dare una forma (per quanto modificabile e riutilizzabile) alle forme del vivere collettivo. La sua scomparsa, però, non va intesa in senso materiale (Mexico City, San Paolo, Tokyo, Il Cairo, ecc. ci dicono il contrario), ma nella riduzione dello spazio da forma a funzione. 

In questo, allora, possiamo forse intravedere la fine dell'idea di democrazia così come l'abbiamo conosciuta sino a ieri? 




Le Erinni "È Bene a volte il terrore. È bene che sul cuore degli uomini abbia il suo posto di guardia. 
Il dolore giova a saggezza. Chi mai, o città o uomo mortale, che nessun’ansia, finché vivo, abbia avuto nel cuore, potrà tuttavia venerare Giustizia?" vv. 517-525.
 
"… e di non scacciare del tutto dalla città il timore perché senza il timore nessuno dei mortali opera secondo giustizia" vv 698
[Eschilo, Eumenidi]


A fondare l’idea stessa della polis c’è l’idea della giustizia. Le categorie del politico e della giustizia rappresentano per la terra del tramonto una vera aporia. Il politico, infatti, potrebbe rappresentare una sublimazione sociale di tematiche decisamente legate alla sfera dell'irrazionale, o che affondano le loro motivazioni nel legame tra l'impotenza dell'individuo e la forza delle norme. Nella mediazione tra queste due dimensioni consiste il declinarsi di differenti soluzioni politiche. Tutto lo sforzo positivista e storico s’incentrò proprio nel rimuovere quest'aspetto, sebbene le stesse premesse che lo muovevano erano, in nuce, la teologia del capitale (basta leggersi gli autori francesi a cavallo tra '800 e '900 per avere una rappresentazione letteraria, tecnica ed immaginaria di questo fatto, penso soprattutto alla Commedia umana).

La paura, dunque, l'atteggiamento di sudditanza al potere che emana da qualcosa di irrazionale e spaventoso costituisce probabilmente uno dei fondamenti antropologici più radicati ed arcaici del politico.

Nel ciclo sugli Atridi, Eschilo esplora benissimo questo concetto, in particolare attraverso le figure delle Erinni (tramutate dopo la sentenza dell'Areopago in Eumenidi) e nelle ragioni che fondano la creazione del tribunale come luogo di compensazione del conflitto.

Sappiamo la vicenda. Oreste, al quale la madre fedifraga ha ucciso il padre per vendetta del sacrificio della figlia Ifigenia, si vendica ed uccide prima l'amante Egisto e poi la madre. La legge arcaica, quella ctonia del sangue, vuole che egli sia perseguitato dalle Erinni, disgustanti uccellacci che lo seguono maledicendolo. Oreste si rifugia prima nel tempio di Apollo, poi in quello di Atena, i due campioni delle nuove divinità olimpiche. Atena, per decidere, visto che si trova nell'imbarazzo di dover contraddire la vecchia legge, ributta nel campo degli umani la decisione e fonda, con la partecipazione dei migliori della città (gli aristocratici) l'Areopago, il tribunale.

E qui entra la mia considerazione. Primo: uno strumento di giustizia e di amministrazione politica della città, si fonda per dirimere una questione di sangue. La vecchia legge stabiliva che le vicende legate al ghenos si risolvessero, sostanzialmente, con qualcosa di simile alla faida. Le Erinni, mentre Atena sceglie i migliori, fanno una considerazione che ideologicamente già introduce la soluzione che escogiterà la dea per non far esplodere lo scontro tra la vecchia e la nuova legge, e dicono: "È bene a volte il terrore. È bene che sul cuore degli uomini abbia il suo posto di guardia. Il dolore giova a saggezza. Chi mai, o città o uomo mortale, che nessun’ansia, finché vivo, abbia avuto nel cuore, potrà tuttavia venerare Giustizia?" vv. 517-525.

La dimensione in cui giudica l'Areopago è interessante. La legittimazione ed il rispetto delle sentenze e delle leggi, oltre che del tribunale, è demandato infatti al terrore, all'apparato scenografico e rituale che il tribunale segue per giudicare, e che deve incutere il terrore nel giudicato e negli astanti.

Si tratta di una sintesi dell'ordine delle divinità olimpiche (incarnanti un principio mascolino) che sussumono la legge del sangue in un apparato di leggi ispirate alla saggezza, ma che conservano lo spirito del rispetto delle norme, ovvero il terrore.

Atena infatti, riecheggia quanto detto prima dalle Erinni ed afferma che: "… non scacciare del tutto dalla città il timore perché senza il timore nessuno dei mortali opera secondo giustizia" vv 698. Riamane però il problema di come portare a compimento questo mascheramento, ovvero di cosa fare delle Erinni. Al di là di quanto possa apparirci oggi, si tratta di un problema politico e non mitografico (i tragici si servono per lo più di materiale già esistente).

Atena, con un'operazione che ha un'attualità devastante, dopo il giudizio trova una soluzione del tutto conforme al mascheramento adottato per le leggi. Ovvero trasforma le Erinni in Eumenidi e le loro maledizioni in benedizioni. In sostanza porta a compimento, anche relativamente ai soggetti che interpretano la vecchia legge, quell'operazione di mascheramento. In sostanza chiude dentro la facies della benedizione il memento divino al terrore. Quest'operazione apollinea astrae la ragione del terrore e la sussume in un ordine razionale (maschile). Ne cela la dimensione irrazionale e la fonda, politicamente, sul potere legale.

Di qui l'argomento tabù della legittimazione delle leggi e del loro fondamento. Secondo: come si salva Oreste? Coerentemente con l'opera di sintesi e mascheramento della vecchia legge in un nuovo apparato che lo fonda, il tribunale dell'Areopago emette una sentenza in cui i voti di colpevolezza sono in numero eguale a quelli di innocenza. Sarà Atena, in qualità di presidente del tribunale, a votare per salvare Oreste. Non scordiamoci che Atena, per quanto donna, è nata per partenogenesi dalla testa di Zeus (una bella sineddoche per una teodicea). Questa precisazione serve perché l'arringa di Apollo a difesa di Oreste si gioca principalmente su di un fatto che risulterà decisivo per l'assoluzione dell'imputato, cioè la dimostrazione che il figlio non è della madre, ma del padre, in quanto il seme da cui nasce trova nella madre solo nutrimento, ma il principio generatore sarebbe maschile. Questo autorizza Oreste a vendicare l'uccisione di Agamennone, perché propriamente era lui il suo vero genitore, e non Clitemnestra, propriamente solo nutrice. Non attardiamoci, però, dopo secoli di misoginia giudaico-greco-cristiana sull'aspetto sessista, ma pensiamo con quale argomentazione si fonda la prima sentenza del più importante istituto politico di giustizia dell'antichità.

Una sentenza che dice la rimozione dell'ordine ctonio matrilineare con quello apollineo patrilineare (e non parlo di una cosa da poco, dato che questa concezione ha avuto sino al secolo appena terminato, ed ancora oggi, ricadute evidentissime proprio negli apparati giuridici).

Con quest'operazione si fonda definitivamente l'aspetto politico della giustizia, sotto un'apparenza razionale, ma con una sostanza terrorizzante. L'implicazione di questo mascheramento del terrore sotto le spoglie della legge e della politica, trova oggi metafore tragiche e luttuose nella giustizia (divina, per l'appunto, e qui la metafora è un po' più esplicita) che avrebbe guidato i terroristi suicidi contro le Twin Towers ed il Pentagono, e nell'operazione militare che inizialmente, con una coerenza troppo veritiera per non suscitare ira negli altri, gli Stati Uniti avevano battezzato "Infinita giustizia", ma che sempre coerentemente con la strumentazione politica tipica di noi abitanti della terra del tramonto, è stata ribattezzata (forse su suggerimento di Atena?) "Libertà duratura", la stessa pace ed armonia a cui mirava, appunto, l'Areopago.

Quello che oggi rende ancor più inaccessibile il cuore irrazionale che legittima e fonda la politica, è sia la teologia che lo instaura (quella del capitale), sia la veste sociale con cui questa si presenta, ovvero quella di un apparato scenotecnico di tipo iperrazionale e tecnologico. Quando Lacan sosteneva che l'inconscio è strutturato linguisticamente, ma che il significante non è conoscibile, forse diceva anche che la politica, dopotutto, trova una sua dimensione nella mitologia.







domenica 18 dicembre 2022

 UN VECCHIO ARTICOLO PER L'INSERTO CULTURALE DI LIBERAZIONE


Non ricordo se era il 2006 o il 2007. Mi ero da poco trasferito a Milano, e fra le cose che mi trascinavo appresso da Roma, c'era una mia partecipazione al volume collettaneo, stampato dalla DeriveApprodi, Possibilmente freddi. Come l'Italia esporta cultura (1964-1980). Ero uno della dozzina di Douglas Mortimer che aveva firmato quel libro sulle forme espressive con cui il nostro paese era stato capace di leggere e rappresentare una stagione di conflitti sociali fra le più intense, lunghe e sanguinose di tutto il mondo cosiddetto occidentale. Ancora oggi quel libro ha rappresentato per me un esercizio di riflessione non da poco, sebbene il mio contributo si fosse limitato alla vicenda, per altro non di poco conto nel panorama culturale italiano dei primi anni Settanta, del poliziottesco. Una forma filmica di cui si sarebbero dichiarati debitori non pochi registi di fama mondiale, uno su tutti Quentin Tarantino.

Quando ero ormai da qualche tempo a Milano, come strascico di quella collaborazione - che segnò il mio addio a Roma - sull'inserto culturale del quotidiano comunista Liberazione - non ricordo più il nome dell'inserto, probabilmente a causa dell'intensità, diciamo così, del decennio successivo a quegli anni - comparve un mio contributo sul noir come forma letteraria capace di fare i conti col passato del nostro paese.

Ovviamente mi esprimevo come sapevo fare all'epoca, ormai penzoloni su un baratro personale e esistenziale che mi avrebbe condotto assai lontano, in ogni senso. E oggi, a dirla tutta, non scriverei quel pezzo allo stesso modo. Però penso che in quell'articolo, che riporto qui di seguito, avessi colto una reale peculiarità del noir italiano, almeno di un certo periodo.

Eccolo qui di seguito, con l'assurdo titolo che gli diede la redazione.


IL NOIR NEL PAESE DEI MISTERI


La scrittura del noir italiano, di là dagli stili dei vari autori, ha una caratteristica abbastanza singolare. È una scrittura "di strada". Più di molte altre scritture letterarie, infatti, il noir italiano esprime una lingua viva e vitale, aspra, adattissima a modellare e a rendere la tensione senza mediazioni, la plasticità delle situazioni, i chiaroscuri dei caratteri e l'urgenza e la velocità dell'azione. E questa scrittura si esercita soprattutto nella ricostruzione del passato, nel tentativo di chiudere storie non chiuse, di riannodare legami e contatti perduti, spostando il presente della narrazione indietro nel tempo. Inevitabilmente questa dimensione prospettica della scrittura, associata alla sua vivacità - che non è riducibile al registro del parlato o a inserti gergali e semi-dialettali - cala le storie raccontate da noir in un contesto storico, assai spesso identificabile negli anni '70, ma non solo. Ovviamente questa caratteristica - che da Carlotto a Dazieri, da De Cataldo a Lucarelli, viene declinata su diversi registri - non è una semplice notazione stilistica, bensì richiama una peculiarità italiana del noir. Il noir italiano, infatti, senza voler generalizzare, ma con una tendenza diffusa e abbastanza estesa, è prima di tutto una scrittura che fa i conti col passato. E lo fa inserendo in contesti storici ben precisi - a volte con ricostruzioni documentate e verosimili, come nel caso del celeberrimo Romanzo criminale per la banda della Magliana - le vicende narrate. La resa migliore di questa scrittura, nella sua specificità italiana, è l'ibridazione fra poliziesco e memoria storica, fra autobiografismo e affresco generazionale. Le vicende che costituiscono il materiale narrativo, infatti, non si staccano dal contesto assumendo valore autonomo - come accade nel giallo, ad esempio, o nei noir basati sui serial killer - bensì si saldano alla ricostruzione storica e soprattutto politica. Con una presenza a volte rilevante di elementi biografici o autobiografici, a ribadire il portato di scrittura "volgare" e romanzesca. Il programma televisivo Misteri d'Italia, condotto dallo stesso Lucarelli, è in questo senso assai esemplificativo: le caratteristiche narrative del noir utilizzate per ricostruire spezzoni di storia nostrana. Tentativi simili, dalla mostra sugli eventi di nera, ai libri che ricostruiscono vicende delittuose e storie criminali, testimoniano della notevole forza espositiva e espressiva che il noir ha in questa particolarità italiana.

Come avevano già ampiamente dimostrato i film polizieschi degli anni settanta, infatti, gli scenari del conflitto sociale si tingono immediatamente di venature politiche, nella stragrande maggioranza dei casi di segno estremo. La storia puramente criminale, come quelle dell'americano Edward Bunker, fatica a non tingersi in breve di una connotazione politica. Un noir di grande successo, Arrivederci amore ciao - come molti altri reso sul grande schermo - si apre ad esempio con il protagonista in clandestinità nelle foreste sudamericane, al seguito della guerriglia marxista. Ma più che una specifica colorazione politica, il noir italiano funziona nei suoi meccanismi narrativi più efficaci proprio quando, andando a ricostruire, o comunque contestualizzando la storia che racconta, si fa politico, anima la violenza con una componente di conflitto non mediabile né necessariamente del tutto criminale. La mediazione che nel noir americano viene svolta dall'attività investigativa della polizia, o dall'angolo visuale del criminale, nel caso italiano in qualche modo viene assorbita da forme di contrapposizione tra le forze in goco - singoli o gruppi - che agiscono spesso nelle forme della politica, che con la politica più torbida tramano, flirtano, collaborano. Criminali a tutto tondo, nel noir italiano, non se ne trovano molti.

Dove va ricercata l'origine di questa specificità? La storia del successo di questa scrittura nel panorama editoriale italiano, rintracciabile nel lancio della collana Stile libero della Einaudi (1996), forse non a caso si apre con un romanzo ambientato durante la guerra civile spagnola, fra i fascisti italiani: Guernica di Lucarelli. Ma quella che potrebbe apparire solo una tendenza generalizzata, ovvero l'ambientazione al passato delle storie, evoca invece, attraverso la tipologia di scrittura del noir italiano, l'urgenza di una riflessione sulle forme in cui la nostra cultura si rappresenta il conflitto sociale.

E se la stagione che più di ogni altra nella storia nazionale recente è stata epoca di conflitto sociale portato alle estreme conseguenze, gli anni Settanta, allora bisogna notare come nessun'altra scrittura romanzesca si sia occupata di questo periodo così sanguinoso della storia nazionale e delle vite dei suoi protagonisti come fa il noir. Il linguaggio, le azioni e le motivazioni che muovono i personaggi di questi romanzi collimano con quello di strada, nella massima "volgarizzazione" romanzesca di bachtiniana memoria. La biografia raccoglie temi e spunti che solo nella forma del noir riescono a parlare di una storia recente accuratamente rimossa, criminalizzata e criminale, che mai aveva così profondamente attentato alle malferme fondamenta della repubblica. Il noir italiano è politico perché in nessun paese i confini tra criminalità, stato, politica e eversione sono stati così sfrangiati, così ambigui e minacciosi verso il cittadino. Che si scrivano oggi questi romanzi forse lo si deve non solo alla lentezza con cui le lettere metabolizzano l'immaginario, ma anche perché vengono oggi al pettine della storia nodi rimasti irrisolti da quegli anni: la legittimazione istituzionale, il fallimento delle agenzie di formazione (scuola, famiglia, partiti, chiesa), l'incapacità della politica partitica di mediare il conflitto, l'esplosione del tessuto sociale. In un contesto di crisi economica e rivolgimento sociale, torna l'esigenza di rappresentarsi il conflitto nelle sue forme più crude, quelle esautorate da un linguaggio politico autoreferenziale e isterico. Un linguaggio tanto più sterile se paragonato all'entità dei mutamenti in atto e alla gravità della situazione, potenzialmente esplosiva come hanno sottolineato il risorgere di gruppi armati politicizzati, gli omicidi di d'Antona e Biagi, l'uccisione di Carlo Giuliani durante il G8 di Genova e il proliferare di politiche di controllo sociale spacciate per sicurezza. Un’altra volta criminalità comune e politica tornano a confondersi, un’altra volta il sangue bagna le strade italiane (decine di manifestazioni no global in tutto il mondo e l’unico morto in Italia). Torna l'incubo degli anni Settanta, un capitolo della storia italiana troppo presto rimosso.