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sabato 16 marzo 2019

LA RAPPRESENTAZIONE DI UN SOGNO


I sogni sono sempre stati per me un'inesauribile miniera d'immaginazione, un terreno fertile per la fantasia e mi hanno mostrato idee che ho molto spesso utilizzato nelle cose che ho scritto. Raramente però, da tutti i tentativi intrapresi, è fuoriuscito un testo per me soddisfacente, e se questo può apparire come un insuccesso, ha invece lasciato in me, sempre, il desiderio di raccontare.

Il brano che segue potrebbe costituire l'inizio di un romanzo, ma anche di per sé è un esempio di questi miei tentativi, non del tutto riusciti. Ma allo stesso tempo, fra tutti, à quello che per certi aspetti mostra in maniera esaustiva la mia intenzione di "mettere in scena" un sogno, di rappresentarlo. E lo fa con un linguaggio specifico, in cui ho cercato di trasformare la scrittura in una sorta di allucinazione onirica. La seconda parte, invece, ha un registro del tutto differente e serve esattamente a fare da contrasto. Oltre che a costituire l'innesco di una storia a seguire.

L'ho riletto stasera dopo anni, e nonostante non realizzi in pieno quel mio annoso desiderio di raccontare ed in qualche modo far rivivere uno dei miei sogni, credo non sia privo di una qualche efficacia sull'immaginazione.

Ha le dimensioni di un breve racconto.


 









Passa le mani davanti a sé e deve farsi forza per non credere di stare impazzendo. Osserva quella scia luminescente che accompagna i movimenti delle sue mani come la superficie di una bolla di sapone ed in lui continua a lievitare uno stupore d’incredulità e panico crescenti.

Ha corso a perdifiato fin lì, sentendo il cuore che scoppiava, i polmoni riarsi, fuggendo come solo si fugge da un imminente pericolo di vita. E quando ha visto quella bella spianata verde subito oltre la sommità della collina, col prato mosso dal vento, con quella luce tenera ed accogliente che tanto contrastava con la minaccia dalla quale ha iniziato a fuggire non ricorda più neanche lui quanto tempo prima, scappando da un incubo di palazzi e corridoi e stanze e scale e poi strade intasate d’automobili, parcheggi abbandonati, distese d’immondizia, ha sentito che lì c’era la salvezza. S’è slanciato con tutte le forze che le gambe ancora conservano giù per l’inizio di quel pendio e lì s’è manifestato l’incredibile: questo qualcosa che non si può spiegare e che però l’ha fermato, rimbalzandolo indietro come se si fosse scagliato su di un muro di gomma.

Gli occhi gli dicono ancora ora che oltre la sommità digradante di quella collina c’è una vasta spianata verde costeggiata d’alberi, l’udito gli restituisce il canto degli uccelli che proviene da lì e il murmureggiare delle acque che da qualche parte scorrono fra i tronchi di quel bosco, l’olfatto gliene fa avvertire nitido l’odore di foglie e corteccia, quella frescura tipica. Contro ogni evidenza, però, la realtà assurda è che dopo pochi passi dal suo slancio ha cozzato contro qualcosa d’invisibile ed è rimbalzato indietro, per altro senza dolore. Sul momento ha creduto d’inciampare e senza guardarsi indietro s’è di nuovo slanciato in avanti, in preda a quella paura che morde e non ci fa sentire altro che il suo morso. Ed una seconda volta è stato respinto indietro. S’è voltato, più spaventato dal fatto che queste due cadute avessero fatto divorare al mostro tutta la distanza che era riuscito ad accumulare fuggendo, ma di quello non c’è più traccia, ed allora l’epifania di qualcosa d’ancora più inspiegabile gli si è accesa in testa. S’è rialzato ed è lentamente avanzato fin quando non ha visto il suo naso e le mani sprofondare un poco nell’aria davanti a lui, s’è ritratto con orrore ed ha visto per la prima volta quella scia iridescente, come d’acqua saponata.

Ora è in piedi davanti a questo limite, spinge avanti le mani, vede affondare la punta delle dita in un’invisibilità baluginante, le scuote da una parte all’altra, e mentre con gli occhi vede il vento muovere i fili d’erba qualche metro avanti, le sue braccia non riescono ad andare oltre questo limite. Si alza, si abbassa, fa qualche passo di lato, non c’è nulla da fare, non si passa. In qualsiasi modo tenti, non riesce in nessuna maniera ad avanzare. Prova ad arrampicarsi su questo muro d’invisibilità, ma non appena fa forza sui piedi per tirarsi su, ecco che si ritrova di nuovo a terra, come un battito di ciglia ed anche meno, senza riuscire a percepire cosa accada veramente. Sembra come in qualche vecchio film di fantascienza, ma questa spiegazione sbilenca ed ironica non fa che segnalare di nuovo un dato incontrovertibile: se questa è la realtà, qualcosa nella sua testa non funziona più. Se invece la sua mente funziona, questa non è la realtà, per lo meno non quella che conosce. Si siede sopraffatto.

Erano in quella stanza e la sua minuta fidanzata cinese gli diceva qualcosa, lui stava guardando dalla finestra giù di sotto, di sbieco verso quell’enorme spiazzo che un tempo doveva essere stato un parcheggio ed oggi era una distesa sconfinata di cemento dove crescevano qua e là, tra montagne di ferraglia e legname accatastati alla rinfusa, ciuffi d’erba grigiastra. Mentre il flusso delle parole di lei, dolci ed allo stesso tempo inarrestabili, si’ngolfava senza soluzione di continuità nella baia del suo orecchio, come una corrente che non trovi sbocco – la sentiva che sotto la lacca delle unghie, i capelli stirati che sembravano neri e lucidi come quarzi di grafite, il trucco impeccabile e gli occhi fermi e decisi, sotto quella corazza estetica il cuore le grondava lacrime – arrivò uno di quegli enormi autotreni, veri e propri mostri d’acciaio. I rimorchi che trainavano erano a volte contrari ad ogni legge della fisica: alti e stretti, sversavano con un movimento allucinato il loro immancabile carico di detriti – mobili, sanitari, automobili, una congerie di oggetti che alludevano ogni volta con una malinconia stinta alla vita di un tempo. Il mezzo stava proprio in quel momento facendo una di quelle manovre sul limitare esterno della spianata: fermo, aveva iniziato ad inclinare quell’impossibile contenitore che si portava dietro con un movimento che in una situazione normale avrebbe fatto rovesciare su di un fianco l’enorme trasporto. Ma lì non accadeva nulla, l’assurdo rimorchio si era inclinato con un clinamen del tutto coerente, lì, in quel mondo straniato. A quel punto però lei gli aveva poggiato una mano su di una spalla: un richiamo, un appello, una vera e propria implorazione, a ben guardare nell’accorta e sorvegliata prossemica di una donna del suo rango. Lui si era voltato, ancora ora ricorda il movimento del collo come l’aver preso una direzione irrevocabile, e le aveva rivolto un sorriso smorto. Aveva alzato di tre quarti il piccolo mazzo di nodi di seta che gli era stato donato come simbolo della sua unione, forte e delicata appunto, alla famiglia che le dava in sposa la ragazza, e con un’espressione dalla quale traspariva un disgusto antico, il senso secolare di un’insoddisfazione, di una smania, di una pretesa senza oggetto che aveva sfibrato in secoli di guerre la sua razza bianca come la morte, le aveva detto: «Tutto qui?» agitando a mezz’aria quel minuto aggrovigliarsi di nodi di seta, dove su di una striscia nera, colore simbolo dell’amore che tutto accoglie, brillava appena un minuscolo diamante. «Tutto qui?» ripeté lui, che stava per sposare la nipote del più potente signore delle merci di quel piccolo quartiere di quella sconfinata megalopoli che univa in una conurbazione unica tutta la costa della Cina, o almeno così sembrava dall’ultimo censimento, avvenuto diverse generazioni prima. Non esisteva più, in effetti, un passato chiaro, una successione razionale di settimane e mesi e anni per nessuno di loro emersi a quei momenti da un presente senza capo né coda, ma soprattutto senza un concreto scorrere del tempo che fosse arrivato ad impantanarsi lì, in quel preciso scorrere nel quale loro vivevano, quel presente senza fine percorso da un bradisismo onirico.

Lei aveva silenziosamente ritratto dalla sua spalla la mano con una delicatezza nella quale si concentrava una forza smisurata rispetto al suo aspetto minuto, alla sua figura avvolta in quell’abito tradizionale che la rendeva così simile ad una delicata bambola di ceramica. E a quel punto, nella spianata, molto più vicino, quasi la scena avvenisse proprio davanti la finestra dagli infissi gelidi di un metallo stazzonato d’umidità e corrosione, era arrivato un altro autotreno, questa volta di dimensioni davvero colossali. Si portava dietro una vasca di metallo nel quale giaceva una montagna indistinta di oggetti. Li riversò in una delle aree libere dello spiazzo senza limite, con una facilità che aveva del mostruoso. E mentre questa scena prendeva forma in quella geometria allucinata su cui affacciava la loro camera, nella sua mentre prendeva forma l’assurdo e l’impossibile: gettare in faccia al vecchio balordo quel mazzolino di nodi con quella pietra ridicola, così simile ai milioni e milioni di pietre sintetiche che si potevano trovare ovunque, finanche nei distributori automatici. E lo avrebbe fatto davanti a tutti. Quella pietra offensiva, le dimensioni umilianti di quel mazzo di seta rituale, tutto parlava del disprezzo verso di lui. Un affronto che per quanto fosse un bianco andava davvero troppo al di là, sconfinando in una derisione che però coinvolgeva ogni residuo di umanità, incluso l’amore che c’era stato, non rammentava più bene quando, però, fra lui e la donna che ora gli fissava le spalle sprofondata in una rassegnazione di pece. E quella donna era comunque la nipote, questo non poteva sfuggire a nessuno. Una vibrazione più potente, a quel punto, gli attraversò la mente, un’interferenza, una distorsione come quella che aveva percepito anni addietro fuoriuscire da quel cono di cartone con dietro una calamita, attaccato con poveri fili di rame ad un apparecchio antico dove girando una manopola, un tempo, si erano selezionate voci e musiche. Ne era fuoriuscito un crepitio e poi un sinuoso avvolgimento del suono, gonfio e distorto di nulla. Ed ora, mentre cercava di dare una forma a quel pensiero, di comunicarlo in qualche modo a lei che si stava asciugando di dolore, si sentiva come deformato, distorto. Nella spirale estraniante di quel suono gli era sembrato che ogni cosa scivolasse via come dallo scolo di un lavandino: quella stanza, lo spettacolo della spianata, la sua fidanzata, lui, lo spazio stesso tra gli angoli di quella stanza appena percepita e spoglia.

Senza poter capire come, si era quindi ritrovato con il mazzo di fiocchi di seta alzato a mezz’aria, in una sala agghindata a festa, i tavoli carichi di stecche di sigarette, piatti vuoti e cappelli, le finestre assenti e le luci al neon che raggelavano con un lucore vibrante e freddo, intenso ed inconsistente. Una sala piena di vecchi balordi, capibanda, delinquenti con le bocche spalancate nella giaculatoria oscena di una gioia fatta di denti marci, sudditanza e spirito gregario. E voltandosi appena un poco sulla sinistra c’era il boss, quell’anziana bestia, intenso di una fosforescenza malvagia, appartato ma al centro di ogni ragnatela di potere tessuta in quello spazio. Il nonno oltraggioso della sua fidanzata, quella graziosa creatura che aveva amato, ed ora che non rappresentava altro che un triste calco nel cuore avrebbe dovuto fare sua come sposa attraverso quella cerimonia oltraggiosa e bizzarra. Si stava rivolgendo alla folla di vegliardi, ma le sue parole erano per quel vecchiaccio da incubo. «Onoro la vostra generosità, lo splendore che manifestate – ed aveva agitato il mazzolino come fosse una cosa frusta e di poco conto – e la prodigalità di cui ci onorate …». Dentro ogni parola si agitava una fiamma, al pari di un gioco pirotecnico fatto di luci, ma che nel cuore portava fiamme e distruzione. Ed il fumo di quell’astio antico era arrivato alle narici di drago di quell’uomo, un incrocio fra una visione d’insetto feroce e la rappresentazione stereotipata di uno dei miliardi di Lao-Tze di plastica che inondavano il pianeta: il naso leggermente arcuato, i capelli fini, lo sguardo cieco, un sorrisetto senza tempo come la crudeltà umana. E mentre quelle parole danzavano il balletto d’una riconoscenza che non era altro che la forma allucinata di un'offesa bella e buona, di un attacco frontale e senza appello, la sofferenza che la ragazza aveva provato era evaporata del tutto, lasciando solo taglienti cristalli d’odio – quel sentimento netto e dalle forme inalterate. E di nuovo quel vibrare fondo, quell’alterazione ulteriore che aveva offuscato le coordinate esatte della realtà così come i nostri sensi ce la restituiscono, o costruiscono. C’era stato uno sfilacciamento, quasi che le facce, le forme ed i suoni si fossero scollati dal fondo in un tripudio di fili di colla e d’illusione. E di colpo s’era voltato, più dentro di sé, però, o almeno così gli era parso, che fuori.
Era uscito da quella sala come in trance, con alle spalle le voci bercianti e felici di tutti quegli uomini che acclamavano la generosità del loro capo, di quel vecchio sanguinario: il nonno della sua fidanzata. Lo scorrere dei secondi era sembrato arenarsi in una sequenza ardua, faticosa, in cui la lancetta dell’orologio non riusciva più a sospingersi avanti. Lei era rimasta lì in piedi accanto al profilo tagliente dell’anziano capofamiglia, a quei capelli bianchi e fini sotto i quali riluceva un cranio lucido e cosparso di nei chiari, con lo sguardo assente e le mani conserte in grembo, immobile. In quel carillon di festa surreale che rallentava la sua musica meccanica, lui invece aveva attraversato i corridoi adornati a festa, con le coccarde colorate, gli striscioni, i festoni, quel trionfo kitsch di colori e forme, per sbattersi dentro il primo ascensore che lo aveva restituito al ventre gelido e di cemento di quegli enormi edifici intorno ai quali proliferava senza soluzione di continuità una desolazione stridente, angosciante. Un cielo d’un grigio uniforme spegneva la linea dell’orizzonte, aprendo le pareti della vista ad un ruzzolare di cartacce, polvere ed insidiose nuvole di smog che lambivano gli spigoli degli edifici con carezze acide gravide di tumori. Il tono monotono della discesa gli avvolgeva il capo in un asciugamano caldo, gli ovattava la percezione: l’ascensore impiegò un tempo che sembrò dilatarsi a dismisura non solo dentro l’altezza dell’edificio attraversata da quella cavità di metallo, condotte e congegni idraulici, ma fin dentro i suoi pensieri, quasi precipitasse in un altro tempo, oltre che nello spazio. Alle sue spalle la gioia friggeva ancora servile attorno al cuore marcio del patriarca e della sua nipotina di ceramica e carne, negli occhi della quale prendevano già forma calde lacrime di dolore, il distillato avvelenato dell’amore: un incubo d’odio senza forma. Impossibile calcolare, in quel teatro onirico che ormai sembrava aver preso il posto della sua vita, il tempo esatto che quella comitiva di vecchi delinquenti pieni di unghie del mignolo ritorte, stecchini incastrati fra i denti e tinture di capelli, avrebbe impiegato per realizzare che quell’uomo venuto da fuori se l’era data a gambe subito dopo aver pronunciato parole di rispetto, certo, di riverenza, anche. Ma così strane da sembrare quasi un’eco distorta di ben altri pensieri. Eppure avevano applaudito, avevano strillato, avevano dato fiato a tutto il loro repertorio di auguri sguaiati e benedizioni da criminali. E non era però sfuggito loro il viso translucido della fidanzata, lo sguardo in tralice, il pallore luminoso che sembravano emanare le sue guance.

Poco prima che l’ascensore, in quella sua discesa senza fine, raggiungesse il piano terra e le porte si aprissero, lui percepì chiaro, come lo scatto di una serratura, che nel cervello del vecchio era scattato il meccanismo della comprensione. Ed a metterlo in moto erano state le lacrime della nipote che nel silenzio più totale, nell’immobilità più attonita che aveva ghermito la sala come un rapace inaspettato, erano colate diritte senza sbafi dal ciglio degli occhi giù per le gote, stillando fino in terra un dolore che in bocca al vecchio prese immediatamente il sapore, la forma il colore ed il suono della vendetta più bestiale: «Acchiappate quel bastardo e portatelo qui! Subito!» Al suono tagliente e chiocco delle sue parole i corpi dei vegliardi erano sembrati sgusciare veloci e sinuosi come serpenti fra i tavoli, ciascuno diretto dove sapeva, a dirigere con quell’unico scopo la sua particolare sezione di incubi e torture, omicidi e stupri, affari inconfessabili e semplice assoluta violenza. Un brulicare di giacche color crema, occhiali scuri e scarpe di vernice s’era animato tutto attorno costellato dallo scarrellare di decine di pistole, dal baluginare repentino di lame e pugni d’acciaio, dall’agitazione feroce e determinata che coglie la muta quando si lancia dietro alla preda, per inseguirla e stanarla.

Con capriole all’indietro che avevano inghiottito qualsiasi passato lo stesse braccando, la scena alle sue spalle era precipitata fuori dalla sua fuga, oltre ogni raggiungibile immaginazione, in un bestiale calpestio impotente. Tutto l’orrore che aveva proiettato quell’ombra gracchiante nel retrobottega della sua coscienza, quello stanzino stantio dove brulicano gli scarafaggi, era stato assorbito dalla spugnosa realtà che pareva assorbire in un lento ansimare silenzioso ogni parvenza di oggettività. Sfilate di vetrine sfasciate, serrande mezze alzate, carcasse di autobus ferme sul ciglio della strada, torme di baraccati che vivevano accampati dentro i palazzi come dentro a grotte spoglie, senza elettricità, senza acqua corrente, senza riscaldamento, in quel colloso grigiore freddo che si espandeva di continuo, e lui correva, disperato portatore, con quella sua disperazione, di una delle rare sensazioni ancora in grado di essere definite con chiarezza. Dietro di lui i tentacoli del vecchio si erano modificati. La furia e la violenza, portate sulla punta delle scarpe dei suoi scagnozzi, avevano finito per raggrumarsi come una sporcizia sanguinolenta, una poltiglia di carne e muscoli. E se la loro ricerca, così come la corsa di lui, aveva finito per specchiarsi su quella superficie ingrigita che era il mondo circostante – avevano interrogato sdentati dementi dediti ad inalare colle secche, accattoni di cinque anni, balbuzienti impiegatucci tremebondi che correvano nei loro loculi, avevano torchiato e spremuto quell’inane umanità che sopravviveva a se stessa senza cavarne che alito fetido e terrore – l’ansimare rabbioso dei loro cuori di bestie si era condensato come un male umido, una brina d’infamia. Scolando e gorgogliando in quella distorsione che percorre ogni cosa, ogni suono, ogni immagine come in una veglia allucinata, la minaccia concreta di una pallottola che gli avrebbe aperto il cranio come un melograno, d’un pestaggio che l’avrebbe ridotto ad uno straccio tumefatto d’ossa rotte, s’era trasformata, aveva scavalcato l’orizzonte del tangibile andando ad abortirsi in una dimensione più oscura. Dopo una certa durata, di respiro in affanno, gli scagnozzi del vecchio avevano ceduto all’evidenza della cecità di qualsiasi caccia avessero insistito a portare avanti in quella delirante opacità, in quel brulichìo di rifrazioni, di tempo asmatico, d’un ingolfarsi dello spazio in una vischiosità ed una diffrazione senza soluzione di continuità. Ma le stille del loro sangue marcio avevano secréto un globo d’orrore, una palla irregolare di malvagità. E dove quelli avevano dovuto lasciare, essi stessi in tutta la loro umana ferocia impotenti verso quell’incubo offuscato fatto realtà, quella invece aveva non solo capito, ma annusato, stanato, individuato ed identificato il fuggisco. Perché le apparteneva come ogni carnefice appartiene alla sua vittima, come ogni incubo appartiene al suo sognatore con un’intimità stretta e profonda, inaccessibile alla lucida follia della ragione. Quella forma di vita oscena aveva occhi che non vedevano, ma traguardavano, e pur senza mostrare una forma, ne assumeva una ad ogni occorenza ed attraversava qualsiasi cosa senza alcuna umana preoccupazione, senza problemi, dubbi, pensieri, dritta come un siluro onirico sparato dal centro oscuro della psiche, laddove nasciamo assieme al nostro demone e da ancora più giù, dove siamo generati come mostri. E così, senza un trascorrere sensato, aveva immediatamente puntato la traiettoria spaziale di lui, lo aveva appuntato nello spazio come s’infilza con uno spillo una farfalla. Lui che fuggiva senza speranza non poteva saperlo, ma ad un tratto la sua corsa si era fatta pastosa, la grana dei suoi pensieri più grossolana, i movimenti s’erano come arenati dentro un’invisibile melassa al rallentatore. Ed intorno a lui l’usuale allucinazione aveva assunto forme ad ogni istante più improbabili. Aveva svoltato in un vicolo fra due di quegli enormi grattacieli fatiscenti per ritrovarsi d’improvviso aggrappato al corrimano arrugginito di una scala male illuminata da lampade fioche, affannato a salire scalini sbreccati ed unti cosparsi di cartacce e lattine schiacciate. Ed al tonfo normale del cuore aveva reagito voltandosi, senza poter vedere nulla, ma percependo distintamente l’entità incombente che aveva iniziato ad ingoiare come parte di un legame la distanza fra di loro. Aveva aperto una porta, attraversato un lurido appartamento dove una donna avvolta in cenci stava allattando al seno asciutto e cadente un baco ammuffito, e saltando sul bordo di una vasca da bagno arrugginita era volato fuori da una finestra, con un’agilità pari solo all’assoluta inutilità che ormai aveva pervaso tutte le sue mosse, i movimenti ad ogni istante più lenti ed allo stesso tempo più acrobatici, pieni di tutta la forza che poteva imprimere loro ed allo stesso tempo come vuoti, cavi d’ogni efficacia.

Qualsiasi suono gli giungesse alle orecchie era in qualche modo sincopato, gonfio d’eco e distorto. E qualsiasi traballante rapporto tra questo universo sonoro infernale ed i suoi gesti, le sue movenze e l’interazione fra le cose aveva perso completamente di sensatezza, in un arbitrio auditivo micidiale e sfrenato. Era a questo punto che qualsiasi pur leggera reminescenza di quello che fino a qualche minuto prima era stato un recente passato era andata totalmente in frantumi, con un’esplosione interna al suo cervello come quella di un enorme globo di cristallo che precipiti dall’alto. In ogni frammento di memoria, quel collante che fa sembrare plausibile qualsiasi congerie di cosiddette realtà ci offrano i sensi, le immagini che gli erano rimaste appiccicate dentro come una patina oleosa erano saltate via taglienti, simili a schegge di selce. Il taglio degli occhi della sua fidanzata, la distesa interminabile di edifici e l’inestinguibile nube cancerosa che fagocitava il paesaggio visto quella volta dal 235 piano, con la curvatura terrestre come un’ultima carezza su quello scempio ormai senza tempo né cura, la musica di un carillon in un taxi, le esplosioni davanti la canna del suo fucile mitragliatore nell’oscurità di un parcheggio sotterraneo di diversi chilomentri quadri dove erano entrati per liquidare torme di subumani, la schiuma giallastra che il mare insisteva a sbattere sui moli di cemento armato come la chioma d’un cadavere… tutto era schizzato sulle pareti del cranio trapassandolo ed uscendo. Gli era evaporata d’un tratto qualsisi consapevolezza di avere avuto una vita. In quel vuoto interno s’era installata solo una mancanza che palpitava di puro terrore. A quel punto solo ed eslcusivamente un ronzio costante gli aveva trapanato i timpani e sotto quello, come un segnale prossimo a spegnersi, il tonfo animale del suo cuore. Ma era tutto un viaggio lungo, stridente. Ogni forza che poteva essere tirata fuori dalle più intime fibre carnali del suo corpo esauriva la sua carica esprimendo il massimo dell’agilità e della potenza. Era un animale che fuggiva come solo un animale può fuggire, con l’unico obiettivo di riuscirci. Ma in quel cavo che gli era deflagrato dentro il cranio, a dispetto d’ogni irrazionalità, d’ogni incubo possibile nel quale quanto lo circondava si andava trasformando, rimaneva una spina, una lama di consapevolezza che gli diceva che era perduto e non ce l’avrebbe mai potuta fare, perché in qualche modo non poteva salvarsi. Poteva sfuggire, scappare, ma salvarsi no. L’entità lo sapeva ed ora come un’ala, ora come una zampa, una sfera muscolosa di sangue e denti, ora come un’ombra, un passaggio intravisto, una presenza inquietante, più precisamente come tutto quanto di orribile gli apparteneva, lo aveva, lo raggiungeva, lo braccava in una prossimità mai definitiva, ad una sempre minore distanza che però non si colmava. Il parossismo di quell’avvicinamento interminabile era sorgente di un panico bianco ed assoluto. Di lì in poi una successione di luoghi incongrua, una sequenza perturbante nella quale aveva corso come all’interno di una mente devastata, oltre ogni irragionevole e malata fantasia. Sotto i suoi piedi aveva calpestato strade che si allungavano all’orizzonte perforando perfino le barriere al di sotto delle autostrade secolari erette su piloni di cui si intuiva appena, di là dalla nebbia di smog, la fine. E poi le gambe avevano falciato lo spazio come forbici, mentre scartando come un coniglio s’era infilato direttamente nel tunnel di una delle tante metropolitane abbandonate che scavavano il sottosuolo come vene vuote, infestate di torme di topi, di rifiuti, di accampamenti subumani, per poi slanciarsi di nuovo fuori, via, sempre correndo, correndo lungo canali di scolo cementificati in cui scorrevano rigagnoli verdastri dall’odore d’acido. E via via, per quanto sembrasse impossibile anche in quel momento ormai fermo, anche in quel mondo assurdo, gli edifici si erano fatti radi, l’orizzonte si era liberato, ad una successione di edifici diroccati, d’ululati di cani randagi e di nastri d’asfalto che sfociavano su sterrati appena segnati, avevano cominciato a subentrare cespugli polverosi, qualche duna di sabbia spruzzata di erbacce, perfino radi alberelli rachitici. L’aria si era come lentamente denudata. Spurgato, in quella corsa disumana, d’ogni stilla di pensiero, la sua inseguitrice intima in qualche modo lo aveva ormai già divorato senza che il suo corpo ne fosse stato sfiorato, succhiandogli via ogni parvenza d’umanità, lasciandolo in quell’incubo di animalità braccata. Il suo incubo intimo non lo aveva perso un momento, ingurgitando dentro il male dal quale era nato ogni sua scintilla di speranza, straziandone con le zanne la stessa sensazione di poter avere ancora una vita qualsiasi, fosse pure un’eternità d’oscurità e soffocamento. Una volta che lo aveva spinto fuori da se stesso attraverso quell’itinerario allucinato e folle, allora aveva finito per appartenergli del tutto e senza che lui se ne rendesse conto lo aveva lasciato scappare, questa volta dal nulla. Ed il nulla aveva inghiottito benevolo ogni cosa. C’era stata come una tempesta di polline, un vero e proprio tornado di soffioni che aveva offuscato tutto provenendo non si sa bene da dove, bensì da ogni parte, confondendo il basso con l’alto, ciò che era davanti con ciò che era dietro ed ogni lato con ogni altro, smorzando la sua sensazione di correre in quella di procedere a caso, non si sa bene in quale direzione. Poi attorno alla sua fuga si era disteso il banale paesaggio di una campagna anonima. Alberi, erba, siepi, scollinamenti. Ed i colori, cone resuscitati da quella malattia della retina che dillà aveva reso ogni cosa una sfumatura di grigio e nero, erano di nuovo sgorgati da ogni cosa nella loro intensità naturale. Ma lui aveva continuato a correre, perché quel giusto terrore che lo aveva preso lo doveva spingere fino al limite ultimo, sulla superficie del proprio specchio ed oltre.


SECONDA PARTE

Quando apre gli occhi, quasi come se la sera prima non li avesse chiusi, non pensa più nulla. Si scopre, si alza, rimane a sedere nudo sul bordo del letto. Si schiarisce la gola, afferra il pacchetto di sigarette sul comodino, se ne accende una ed aspira forte. Un gesto ormai usuale in quei giorni. La pelle del corpo è umida di sudore. La punta della sigaretta emette un bagliore rossastro d’incendio. Fuori c’è il silenzio della domenica mattina. Nella penombra della stanza attraversata dai raggi del sole il fumo azzurrino si diffonde lento. Aspira una boccata via l’altra. Socchiude gli occhi, sbadiglia. Non rifà il letto da molti giorni e le pieghe delle lenzuola somigliano sempre di più a quelle del suo viso. Quei tagli profondi che da un momento all’altro, nella sala dell’obitorio, si sono aperti sul suo viso come voragini. Si trova in quello che con un eufemismo sciapo la cultura contemporanea definisce “un momento particolare”, o con una concessione appena più accennata alla realtà, “un momento doloroso”. Con la sigaretta fra le labbra si alza e nudo com’è va in cucina per prepararsi il caffè. L’unico rumore udibile è quello della pelle dei suoi piedi sul pavimento. La luce filtra nella semioscurità di casa attraverso le persiane chiuse. Le pareti, il corridoio, le stanze: sembrano le cifre di un abbandono, una nave spiaggiata, il rebus risolto di una fine. I libri sparpagliati ovunque come una specie di vegetazione selvatica ed infestante. Quando arriva in cucina l’unico rumore che arriva dall’esterno è l’ansimare laborioso del camione dell’immondizia. Lui intanto afferra la macchinetta per il caffè. La sequenza dei gesti che compone quel rito mattutino è come un geroglifico: lo sa riprodurre, ma non ne conosce più il significato. Quando accende il gas rimane lì in piedi. La sigaretta che continua a fumare, il rumore dei cassonetti che vengono sversati, il caldo che da fuori ghermisce le pareti dell’appartamento. Sul tavolino, aperto e col posacenere poggiato sulle pagine a tenere il segno, Una solitudine troppo rumorosa. Nel lavabo il piatto e la padella ancora da lavare. La moka inizia a gorgogliare, uno sbuffo di fumo sale dal beccuccio, carico d’aroma. Con due dita afferra il mozzicone e lo getta nel lavandino. Una goccia di sudore gli cola dai capelli sulla fronte. Spegne il gas. Le immagini del sogno gli fluttuano nitide nella mente rasata d’ogni pensiero. Afferra una delle due tazzine dallo scolapiatti. Rasare i pensieri è stato un lavoro duro, come cancellare dai muri della mente gli affreschi di un’epoca, tutte le immagini del teatro della memoria, le scenografie dei momenti passati. È stata una cruda necessità. Si versa il caffè, rimane con la tazzina a mezz’aria, annusando quel profumo che era stato domestico ed ora è stato declassato ad abitudine. Beve in piedi chiudendo gli occhi. Anche il sapore del caffè va tenuto a bada, perché tutto ciò che gli sollecita i sensi diviene automaicamente ricordo. In quei momenti l’ingorgo delle cose che avrebbe voluto dirle, tutto ciò che normalmente si rimanda ad un momento più appropriato, sequestrati dal falansterio della vita quotidiana, gli si secca sulle labbra come una crosta di sale. E lui fantastica di non dover più parlare, di potersi sottrarre a quella produzione di suoni che gli è divenuta aliena, quasi che tutto ciò che avrebbe voluto dirle e tutto ciò che potrebbe ancora dire non abbia più la forza di staccarglisi da dentro, di esprimersi, di venire articolato, masticato, espulso, liberato. Spinge la lingua sul palato, ingolla l’ultimo sorso di caffè quasi con rabbia. Le domeniche sono i giorni peggiori. Specialmente la mattina. Da qualche parte squilla il telefono. Sa già che deve rispondere, perché cadere in quei buchi di silenzio è pericoloso e la percezione del rischio e delle sue conseguenze lo sospinge, quasi una spinta alle spalle. Così poggia la tazzina ed ancora confuso dietro quel rimuginìo intimo s’avventura alla ricerca dell’apparecchio. Chi lo chiama sa. Chi lo chiama lascia squillare, ma non è insistenza, non è invadenza. Quando trova il telefono risponde senza neanche dire pronto. Ti ho svegliato? No. Come va? Meglio. Ti serve qualcosa? No, grazie. …Che fai oggi? Non lo so. Vuoi che passo, magari porto da mangiare qualcosa. Forse esco. Fai bene, non rinchiuderti in casa. Ed a questo punto le sue energie per portare avanti la conversazione si arenano. Normalmente possediamo una quantità quasi sempre eccedente di informazioni da scambiarci, di pleonasmi condivisi, ed in questo consiste spesso la gran parte di una conversazione, il piacere di sentirsi, appunto. Il silenzio invade invece questo scambio di battute. D’accordo, se hai bisogno di qualcosa, chiama. Certo. Ciao. Ciao. Ecco, è finita, anche questa è fatta. Il compito è stato assolto. Rimette il telefono dov’era, poi, quasi avesse dimenticato qualcosa, si affretta in camera da letto, preleva il pacchetto di sigarette, ripassa in cucina e prende il posacenere usato come segnalibro. Le pagine si richiudono su stesse, ma non del tutto. Va a sedersi sulla poltrona nel salone, prende il telecomando ed accende la televisione. Non ha mai guardato così tanta televisione in vita sua come in questi ultimi tempi. Aiuta moltissimo. Per tacitare la mente c’è chi si rivolge alle droghe, chi all’alcol od alle religioni. Lui accende il televisore e lascia che il profluvio di immagini, chiacchiere, musiche, pubblicità, serie televisive, notiziari gli invadano la scatola cranica, gli piallino diligentemente la percezione della realtà, scavino un fossato fra i suoi sensi ed il mondo che lo circonda. Come strumento per stordirsi è perfetto.

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