LA
RAPPRESENTAZIONE DI UN SOGNO
I sogni sono sempre stati per me un'inesauribile miniera d'immaginazione, un terreno fertile per la fantasia e mi hanno mostrato idee che ho molto spesso utilizzato nelle cose che ho scritto. Raramente però, da tutti i tentativi intrapresi, è fuoriuscito un testo per me soddisfacente, e se questo può apparire come un insuccesso, ha invece lasciato in me, sempre, il desiderio di raccontare.
Il brano che segue potrebbe costituire l'inizio di un romanzo, ma anche di per sé è un esempio di questi miei tentativi, non del tutto riusciti. Ma allo stesso tempo, fra tutti, à quello che per certi aspetti mostra in maniera esaustiva la mia intenzione di "mettere in scena" un sogno, di rappresentarlo. E lo fa con un linguaggio specifico, in cui ho cercato di trasformare la scrittura in una sorta di allucinazione onirica. La seconda parte, invece, ha un registro del tutto differente e serve esattamente a fare da contrasto. Oltre che a costituire l'innesco di una storia a seguire.
L'ho riletto stasera dopo anni, e nonostante non realizzi in pieno quel mio annoso desiderio di raccontare ed in qualche modo far rivivere uno dei miei sogni, credo non sia privo di una qualche efficacia sull'immaginazione.
Ha le dimensioni di un breve racconto.
Passa le mani davanti a
sé e deve farsi forza per non credere di stare impazzendo. Osserva
quella scia luminescente che accompagna i movimenti delle sue mani
come la superficie di una bolla di sapone ed in lui continua a
lievitare uno stupore d’incredulità e panico crescenti.
Ha corso a perdifiato fin
lì, sentendo il cuore che scoppiava, i polmoni riarsi, fuggendo come
solo si fugge da un imminente pericolo di vita. E quando ha visto
quella bella spianata verde subito oltre la sommità della collina,
col prato mosso dal vento, con quella luce tenera ed accogliente che
tanto contrastava con la minaccia dalla quale ha iniziato a fuggire
non ricorda più neanche lui quanto tempo prima, scappando da un
incubo di palazzi e corridoi e stanze e scale e poi strade intasate
d’automobili, parcheggi abbandonati, distese d’immondizia, ha
sentito che lì c’era la salvezza. S’è slanciato con tutte le
forze che le gambe ancora conservano giù per l’inizio di quel
pendio e lì s’è manifestato l’incredibile: questo qualcosa che
non si può spiegare e che però l’ha fermato, rimbalzandolo
indietro come se si fosse scagliato su di un muro di gomma.
Gli occhi gli dicono
ancora ora che oltre la sommità digradante di quella collina c’è
una vasta spianata verde costeggiata d’alberi, l’udito gli
restituisce il canto degli uccelli che proviene da lì e il
murmureggiare delle acque che da qualche parte scorrono fra i tronchi
di quel bosco, l’olfatto gliene fa avvertire nitido l’odore di
foglie e corteccia, quella frescura tipica. Contro ogni evidenza,
però, la realtà assurda è che dopo pochi passi dal suo slancio ha
cozzato contro qualcosa d’invisibile ed è rimbalzato indietro, per
altro senza dolore. Sul momento ha creduto d’inciampare e senza
guardarsi indietro s’è di nuovo slanciato in avanti, in preda a
quella paura che morde e non ci fa sentire altro che il suo morso. Ed
una seconda volta è stato respinto indietro. S’è voltato, più
spaventato dal fatto che queste due cadute avessero fatto divorare al
mostro tutta la distanza che era riuscito ad accumulare fuggendo, ma
di quello non c’è più traccia, ed allora l’epifania di qualcosa
d’ancora più inspiegabile gli si è accesa in testa. S’è
rialzato ed è lentamente avanzato fin quando non ha visto il suo
naso e le mani sprofondare un poco nell’aria davanti a lui, s’è
ritratto con orrore ed ha visto per la prima volta quella scia
iridescente, come d’acqua saponata.
Ora è in piedi davanti a
questo limite, spinge avanti le mani, vede affondare la punta delle
dita in un’invisibilità baluginante, le scuote da una parte
all’altra, e mentre con gli occhi vede il vento muovere i fili
d’erba qualche metro avanti, le sue braccia non riescono ad andare
oltre questo limite. Si alza, si abbassa, fa qualche passo di lato,
non c’è nulla da fare, non si passa. In qualsiasi modo tenti, non
riesce in nessuna maniera ad avanzare. Prova ad arrampicarsi su
questo muro d’invisibilità, ma non appena fa forza sui piedi per
tirarsi su, ecco che si ritrova di nuovo a terra, come un battito di
ciglia ed anche meno, senza riuscire a percepire cosa accada
veramente. Sembra come in qualche vecchio film di fantascienza, ma
questa spiegazione sbilenca ed ironica non fa che segnalare di nuovo
un dato incontrovertibile: se questa è la realtà, qualcosa nella
sua testa non funziona più. Se invece la sua mente funziona, questa
non è la realtà, per lo meno non quella che conosce. Si siede
sopraffatto.
Erano in quella stanza e
la sua minuta fidanzata cinese gli diceva qualcosa, lui stava
guardando dalla finestra giù di sotto, di sbieco verso quell’enorme
spiazzo che un tempo doveva essere stato un parcheggio ed oggi era
una distesa sconfinata di cemento dove crescevano qua e là, tra
montagne di ferraglia e legname accatastati alla rinfusa, ciuffi
d’erba grigiastra. Mentre il flusso delle parole di lei, dolci ed
allo stesso tempo inarrestabili, si’ngolfava senza soluzione di
continuità nella baia del suo orecchio, come una corrente che non
trovi sbocco – la sentiva che sotto la lacca delle unghie, i
capelli stirati che sembravano neri e lucidi come quarzi di grafite,
il trucco impeccabile e gli occhi fermi e decisi, sotto quella
corazza estetica il cuore le grondava lacrime – arrivò uno di
quegli enormi autotreni, veri e propri mostri d’acciaio. I rimorchi
che trainavano erano a volte contrari ad ogni legge della fisica:
alti e stretti, sversavano con un movimento allucinato il loro
immancabile carico di detriti – mobili, sanitari, automobili, una
congerie di oggetti che alludevano ogni volta con una malinconia
stinta alla vita di un tempo. Il mezzo stava proprio in quel momento
facendo una di quelle manovre sul limitare esterno della spianata:
fermo, aveva iniziato ad inclinare quell’impossibile contenitore
che si portava dietro con un movimento che in una situazione normale
avrebbe fatto rovesciare su di un fianco l’enorme trasporto. Ma lì
non accadeva nulla, l’assurdo rimorchio si era inclinato con un
clinamen del tutto coerente, lì, in quel mondo straniato. A quel
punto però lei gli aveva poggiato una mano su di una spalla: un
richiamo, un appello, una vera e propria implorazione, a ben guardare
nell’accorta e sorvegliata prossemica di una donna del suo rango.
Lui si era voltato, ancora ora ricorda il movimento del collo come
l’aver preso una direzione irrevocabile, e le aveva rivolto un
sorriso smorto. Aveva alzato di tre quarti il piccolo mazzo di nodi
di seta che gli era stato donato come simbolo della sua unione, forte
e delicata appunto, alla famiglia che le dava in sposa la ragazza, e
con un’espressione dalla quale traspariva un disgusto antico, il
senso secolare di un’insoddisfazione, di una smania, di una pretesa
senza oggetto che aveva sfibrato in secoli di guerre la sua razza
bianca come la morte, le aveva detto: «Tutto qui?» agitando a
mezz’aria quel minuto aggrovigliarsi di nodi di seta, dove su di
una striscia nera, colore simbolo dell’amore che tutto accoglie,
brillava appena un minuscolo diamante. «Tutto qui?» ripeté lui,
che stava per sposare la nipote del più potente signore delle merci
di quel piccolo quartiere di quella sconfinata megalopoli che univa
in una conurbazione unica tutta la costa della Cina, o almeno così
sembrava dall’ultimo censimento, avvenuto diverse generazioni
prima. Non esisteva più, in effetti, un passato chiaro, una
successione razionale di settimane e mesi e anni per nessuno di loro
emersi a quei momenti da un presente senza capo né coda, ma
soprattutto senza un concreto scorrere del tempo che fosse arrivato
ad impantanarsi lì, in quel preciso scorrere nel quale loro
vivevano, quel presente senza fine percorso da un bradisismo onirico.
Lei aveva silenziosamente
ritratto dalla sua spalla la mano con una delicatezza nella quale si
concentrava una forza smisurata rispetto al suo aspetto minuto, alla
sua figura avvolta in quell’abito tradizionale che la rendeva così
simile ad una delicata bambola di ceramica. E a quel punto, nella
spianata, molto più vicino, quasi la scena avvenisse proprio davanti
la finestra dagli infissi gelidi di un metallo stazzonato d’umidità
e corrosione, era arrivato un altro autotreno, questa volta di
dimensioni davvero colossali. Si portava dietro una vasca di metallo
nel quale giaceva una montagna indistinta di oggetti. Li riversò in
una delle aree libere dello spiazzo senza limite, con una facilità
che aveva del mostruoso. E mentre questa scena prendeva forma in
quella geometria allucinata su cui affacciava la loro camera, nella
sua mentre prendeva forma l’assurdo e l’impossibile: gettare in
faccia al vecchio balordo quel mazzolino di nodi con quella pietra
ridicola, così simile ai milioni e milioni di pietre sintetiche che
si potevano trovare ovunque, finanche nei distributori automatici. E
lo avrebbe fatto davanti a tutti. Quella pietra offensiva, le
dimensioni umilianti di quel mazzo di seta rituale, tutto parlava del
disprezzo verso di lui. Un affronto che per quanto fosse un bianco
andava davvero troppo al di là, sconfinando in una derisione che
però coinvolgeva ogni residuo di umanità, incluso l’amore che
c’era stato, non rammentava più bene quando, però, fra lui e la
donna che ora gli fissava le spalle sprofondata in una rassegnazione
di pece. E quella donna era comunque la nipote, questo non poteva
sfuggire a nessuno. Una vibrazione più potente, a quel punto, gli
attraversò la mente, un’interferenza, una distorsione come quella
che aveva percepito anni addietro fuoriuscire da quel cono di cartone
con dietro una calamita, attaccato con poveri fili di rame ad un
apparecchio antico dove girando una manopola, un tempo, si erano
selezionate voci e musiche. Ne era fuoriuscito un crepitio e poi un
sinuoso avvolgimento del suono, gonfio e distorto di nulla. Ed ora,
mentre cercava di dare una forma a quel pensiero, di comunicarlo in
qualche modo a lei che si stava asciugando di dolore, si sentiva come
deformato, distorto. Nella spirale estraniante di quel suono gli era
sembrato che ogni cosa scivolasse via come dallo scolo di un
lavandino: quella stanza, lo spettacolo della spianata, la sua
fidanzata, lui, lo spazio stesso tra gli angoli di quella stanza
appena percepita e spoglia.
Senza poter capire come,
si era quindi ritrovato con il mazzo di fiocchi di seta alzato a
mezz’aria, in una sala agghindata a festa, i tavoli carichi di
stecche di sigarette, piatti vuoti e cappelli, le finestre assenti e
le luci al neon che raggelavano con un lucore vibrante e freddo,
intenso ed inconsistente. Una sala piena di vecchi balordi,
capibanda, delinquenti con le bocche spalancate nella giaculatoria
oscena di una gioia fatta di denti marci, sudditanza e spirito
gregario. E voltandosi appena un poco sulla sinistra c’era il boss,
quell’anziana bestia, intenso di una fosforescenza malvagia,
appartato ma al centro di ogni ragnatela di potere tessuta in quello
spazio. Il nonno oltraggioso della sua fidanzata, quella graziosa
creatura che aveva amato, ed ora che non rappresentava altro che un
triste calco nel cuore avrebbe dovuto fare sua come sposa attraverso
quella cerimonia oltraggiosa e bizzarra. Si stava rivolgendo alla
folla di vegliardi, ma le sue parole erano per quel vecchiaccio da
incubo. «Onoro la vostra generosità, lo splendore che manifestate –
ed aveva agitato il mazzolino come fosse una cosa frusta e di poco
conto – e la prodigalità di cui ci onorate …». Dentro ogni
parola si agitava una fiamma, al pari di un gioco pirotecnico fatto
di luci, ma che nel cuore portava fiamme e distruzione. Ed il fumo di
quell’astio antico era arrivato alle narici di drago di quell’uomo,
un incrocio fra una visione d’insetto feroce e la rappresentazione
stereotipata di uno dei miliardi di Lao-Tze di plastica che
inondavano il pianeta: il naso leggermente arcuato, i capelli fini,
lo sguardo cieco, un sorrisetto senza tempo come la crudeltà umana.
E mentre quelle parole danzavano il balletto d’una riconoscenza che
non era altro che la forma allucinata di un'offesa bella e buona, di
un attacco frontale e senza appello, la sofferenza che la ragazza
aveva provato era evaporata del tutto, lasciando solo taglienti
cristalli d’odio – quel sentimento netto e dalle forme
inalterate. E di nuovo quel vibrare fondo, quell’alterazione
ulteriore che aveva offuscato le coordinate esatte della realtà così
come i nostri sensi ce la restituiscono, o costruiscono. C’era
stato uno sfilacciamento, quasi che le facce, le forme ed i suoni si
fossero scollati dal fondo in un tripudio di fili di colla e
d’illusione. E di colpo s’era voltato, più dentro di sé, però,
o almeno così gli era parso, che fuori.
Era uscito da quella sala
come in trance, con alle spalle le voci bercianti e felici di tutti
quegli uomini che acclamavano la generosità del loro capo, di quel
vecchio sanguinario: il nonno della sua fidanzata. Lo scorrere dei
secondi era sembrato arenarsi in una sequenza ardua, faticosa, in cui
la lancetta dell’orologio non riusciva più a sospingersi avanti.
Lei era rimasta lì in piedi accanto al profilo tagliente
dell’anziano capofamiglia, a quei capelli bianchi e fini sotto i
quali riluceva un cranio lucido e cosparso di nei chiari, con lo
sguardo assente e le mani conserte in grembo, immobile. In quel
carillon di festa surreale che rallentava la sua musica meccanica,
lui invece aveva attraversato i corridoi adornati a festa, con le
coccarde colorate, gli striscioni, i festoni, quel trionfo kitsch di
colori e forme, per sbattersi dentro il primo ascensore che lo aveva
restituito al ventre gelido e di cemento di quegli enormi edifici
intorno ai quali proliferava senza soluzione di continuità una
desolazione stridente, angosciante. Un cielo d’un grigio uniforme
spegneva la linea dell’orizzonte, aprendo le pareti della vista ad
un ruzzolare di cartacce, polvere ed insidiose nuvole di smog che
lambivano gli spigoli degli edifici con carezze acide gravide di
tumori. Il tono monotono della discesa gli avvolgeva il capo in un
asciugamano caldo, gli ovattava la percezione: l’ascensore impiegò
un tempo che sembrò dilatarsi a dismisura non solo dentro l’altezza
dell’edificio attraversata da quella cavità di metallo, condotte e
congegni idraulici, ma fin dentro i suoi pensieri, quasi precipitasse
in un altro tempo, oltre che nello spazio. Alle sue spalle la gioia
friggeva ancora servile attorno al cuore marcio del patriarca e della
sua nipotina di ceramica e carne, negli occhi della quale prendevano
già forma calde lacrime di dolore, il distillato avvelenato
dell’amore: un incubo d’odio senza forma. Impossibile calcolare,
in quel teatro onirico che ormai sembrava aver preso il posto della
sua vita, il tempo esatto che quella comitiva di vecchi delinquenti
pieni di unghie del mignolo ritorte, stecchini incastrati fra i denti
e tinture di capelli, avrebbe impiegato per realizzare che quell’uomo
venuto da fuori se l’era data a gambe subito dopo aver pronunciato
parole di rispetto, certo, di riverenza, anche. Ma così strane da
sembrare quasi un’eco distorta di ben altri pensieri. Eppure
avevano applaudito, avevano strillato, avevano dato fiato a tutto il
loro repertorio di auguri sguaiati e benedizioni da criminali. E non
era però sfuggito loro il viso translucido della fidanzata, lo
sguardo in tralice, il pallore luminoso che sembravano emanare le sue
guance.
Poco prima che
l’ascensore, in quella sua discesa senza fine, raggiungesse il
piano terra e le porte si aprissero, lui percepì chiaro, come lo
scatto di una serratura, che nel cervello del vecchio era scattato il
meccanismo della comprensione. Ed a metterlo in moto erano state le
lacrime della nipote che nel silenzio più totale, nell’immobilità
più attonita che aveva ghermito la sala come un rapace inaspettato,
erano colate diritte senza sbafi dal ciglio degli occhi giù per le
gote, stillando fino in terra un dolore che in bocca al vecchio prese
immediatamente il sapore, la forma il colore ed il suono della
vendetta più bestiale: «Acchiappate quel bastardo e portatelo qui!
Subito!» Al suono tagliente e chiocco delle sue parole i corpi dei
vegliardi erano sembrati sgusciare veloci e sinuosi come serpenti fra
i tavoli, ciascuno diretto dove sapeva, a dirigere con quell’unico
scopo la sua particolare sezione di incubi e torture, omicidi e
stupri, affari inconfessabili e semplice assoluta violenza. Un
brulicare di giacche color crema, occhiali scuri e scarpe di vernice
s’era animato tutto attorno costellato dallo scarrellare di decine
di pistole, dal baluginare repentino di lame e pugni d’acciaio,
dall’agitazione feroce e determinata che coglie la muta quando si
lancia dietro alla preda, per inseguirla e stanarla.
Con capriole all’indietro
che avevano inghiottito qualsiasi passato lo stesse braccando, la
scena alle sue spalle era precipitata fuori dalla sua fuga, oltre
ogni raggiungibile immaginazione, in un bestiale calpestio impotente.
Tutto l’orrore che aveva proiettato quell’ombra gracchiante nel
retrobottega della sua coscienza, quello stanzino stantio dove
brulicano gli scarafaggi, era stato assorbito dalla spugnosa realtà
che pareva assorbire in un lento ansimare silenzioso ogni parvenza di
oggettività. Sfilate di vetrine sfasciate, serrande mezze alzate,
carcasse di autobus ferme sul ciglio della strada, torme di baraccati
che vivevano accampati dentro i palazzi come dentro a grotte spoglie,
senza elettricità, senza acqua corrente, senza riscaldamento, in
quel colloso grigiore freddo che si espandeva di continuo, e lui
correva, disperato portatore, con quella sua disperazione, di una
delle rare sensazioni ancora in grado di essere definite con
chiarezza. Dietro di lui i tentacoli del vecchio si erano modificati.
La furia e la violenza, portate sulla punta delle scarpe dei suoi
scagnozzi, avevano finito per raggrumarsi come una sporcizia
sanguinolenta, una poltiglia di carne e muscoli. E se la loro
ricerca, così come la corsa di lui, aveva finito per specchiarsi su
quella superficie ingrigita che era il mondo circostante – avevano
interrogato sdentati dementi dediti ad inalare colle secche,
accattoni di cinque anni, balbuzienti impiegatucci tremebondi che
correvano nei loro loculi, avevano torchiato e spremuto quell’inane
umanità che sopravviveva a se stessa senza cavarne che alito fetido
e terrore – l’ansimare rabbioso dei loro cuori di bestie si era
condensato come un male umido, una brina d’infamia. Scolando e
gorgogliando in quella distorsione che percorre ogni cosa, ogni
suono, ogni immagine come in una veglia allucinata, la minaccia
concreta di una pallottola che gli avrebbe aperto il cranio come un
melograno, d’un pestaggio che l’avrebbe ridotto ad uno straccio
tumefatto d’ossa rotte, s’era trasformata, aveva scavalcato
l’orizzonte del tangibile andando ad abortirsi in una dimensione
più oscura. Dopo una certa durata, di respiro in affanno, gli
scagnozzi del vecchio avevano ceduto all’evidenza della cecità di
qualsiasi caccia avessero insistito a portare avanti in quella
delirante opacità, in quel brulichìo di rifrazioni, di tempo
asmatico, d’un ingolfarsi dello spazio in una vischiosità ed una
diffrazione senza soluzione di continuità. Ma le stille del loro
sangue marcio avevano secréto un globo d’orrore, una palla
irregolare di malvagità. E dove quelli avevano dovuto lasciare, essi
stessi in tutta la loro umana ferocia impotenti verso quell’incubo
offuscato fatto realtà, quella invece aveva non solo capito, ma
annusato, stanato, individuato ed identificato il fuggisco. Perché
le apparteneva come ogni carnefice appartiene alla sua vittima, come
ogni incubo appartiene al suo sognatore con un’intimità stretta e
profonda, inaccessibile alla lucida follia della ragione. Quella
forma di vita oscena aveva occhi che non vedevano, ma traguardavano,
e pur senza mostrare una forma, ne assumeva una ad ogni occorenza ed
attraversava qualsiasi cosa senza alcuna umana preoccupazione, senza
problemi, dubbi, pensieri, dritta come un siluro onirico sparato dal
centro oscuro della psiche, laddove nasciamo assieme al nostro demone
e da ancora più giù, dove siamo generati come mostri. E così,
senza un trascorrere sensato, aveva immediatamente puntato la
traiettoria spaziale di lui, lo aveva appuntato nello spazio come
s’infilza con uno spillo una farfalla. Lui che fuggiva senza
speranza non poteva saperlo, ma ad un tratto la sua corsa si era
fatta pastosa, la grana dei suoi pensieri più grossolana, i
movimenti s’erano come arenati dentro un’invisibile melassa al
rallentatore. Ed intorno a lui l’usuale allucinazione aveva assunto
forme ad ogni istante più improbabili. Aveva svoltato in un vicolo
fra due di quegli enormi grattacieli fatiscenti per ritrovarsi
d’improvviso aggrappato al corrimano arrugginito di una scala male
illuminata da lampade fioche, affannato a salire scalini sbreccati ed
unti cosparsi di cartacce e lattine schiacciate. Ed al tonfo normale
del cuore aveva reagito voltandosi, senza poter vedere nulla, ma
percependo distintamente l’entità incombente che aveva iniziato ad
ingoiare come parte di un legame la distanza fra di loro. Aveva
aperto una porta, attraversato un lurido appartamento dove una donna
avvolta in cenci stava allattando al seno asciutto e cadente un baco
ammuffito, e saltando sul bordo di una vasca da bagno arrugginita era
volato fuori da una finestra, con un’agilità pari solo
all’assoluta inutilità che ormai aveva pervaso tutte le sue mosse,
i movimenti ad ogni istante più lenti ed allo stesso tempo più
acrobatici, pieni di tutta la forza che poteva imprimere loro ed allo
stesso tempo come vuoti, cavi d’ogni efficacia.
Qualsiasi suono gli
giungesse alle orecchie era in qualche modo sincopato, gonfio d’eco
e distorto. E qualsiasi traballante rapporto tra questo universo
sonoro infernale ed i suoi gesti, le sue movenze e l’interazione
fra le cose aveva perso completamente di sensatezza, in un arbitrio
auditivo micidiale e sfrenato. Era a questo punto che qualsiasi pur
leggera reminescenza di quello che fino a qualche minuto prima era
stato un recente passato era andata totalmente in frantumi, con
un’esplosione interna al suo cervello come quella di un enorme
globo di cristallo che precipiti dall’alto. In ogni frammento di
memoria, quel collante che fa sembrare plausibile qualsiasi congerie
di cosiddette realtà ci offrano i sensi, le immagini che gli erano
rimaste appiccicate dentro come una patina oleosa erano saltate via
taglienti, simili a schegge di selce. Il taglio degli occhi della sua
fidanzata, la distesa interminabile di edifici e l’inestinguibile
nube cancerosa che fagocitava il paesaggio visto quella volta dal 235
piano, con la curvatura terrestre come un’ultima carezza su quello
scempio ormai senza tempo né cura, la musica di un carillon in un
taxi, le esplosioni davanti la canna del suo fucile mitragliatore
nell’oscurità di un parcheggio sotterraneo di diversi chilomentri
quadri dove erano entrati per liquidare torme di subumani, la schiuma
giallastra che il mare insisteva a sbattere sui moli di cemento
armato come la chioma d’un cadavere… tutto era schizzato sulle
pareti del cranio trapassandolo ed uscendo. Gli era evaporata d’un
tratto qualsisi consapevolezza di avere avuto una vita. In quel vuoto
interno s’era installata solo una mancanza che palpitava di puro
terrore. A quel punto solo ed eslcusivamente un ronzio costante gli
aveva trapanato i timpani e sotto quello, come un segnale prossimo a
spegnersi, il tonfo animale del suo cuore. Ma era tutto un viaggio
lungo, stridente. Ogni forza che poteva essere tirata fuori dalle più
intime fibre carnali del suo corpo esauriva la sua carica esprimendo
il massimo dell’agilità e della potenza. Era un animale che
fuggiva come solo un animale può fuggire, con l’unico obiettivo di
riuscirci. Ma in quel cavo che gli era deflagrato dentro il cranio, a
dispetto d’ogni irrazionalità, d’ogni incubo possibile nel quale
quanto lo circondava si andava trasformando, rimaneva una spina, una
lama di consapevolezza che gli diceva che era perduto e non ce
l’avrebbe mai potuta fare, perché in qualche modo non poteva
salvarsi. Poteva sfuggire, scappare, ma salvarsi no. L’entità lo
sapeva ed ora come un’ala, ora come una zampa, una sfera muscolosa
di sangue e denti, ora come un’ombra, un passaggio intravisto, una
presenza inquietante, più precisamente come tutto quanto di orribile
gli apparteneva, lo aveva, lo raggiungeva, lo braccava in una
prossimità mai definitiva, ad una sempre minore distanza che però
non si colmava. Il parossismo di quell’avvicinamento interminabile
era sorgente di un panico bianco ed assoluto. Di lì in poi una
successione di luoghi incongrua, una sequenza perturbante nella quale
aveva corso come all’interno di una mente devastata, oltre ogni
irragionevole e malata fantasia. Sotto i suoi piedi aveva calpestato
strade che si allungavano all’orizzonte perforando perfino le
barriere al di sotto delle autostrade secolari erette su piloni di
cui si intuiva appena, di là dalla nebbia di smog, la fine. E poi le
gambe avevano falciato lo spazio come forbici, mentre scartando come
un coniglio s’era infilato direttamente nel tunnel di una delle
tante metropolitane abbandonate che scavavano il sottosuolo come vene
vuote, infestate di torme di topi, di rifiuti, di accampamenti
subumani, per poi slanciarsi di nuovo fuori, via, sempre correndo,
correndo lungo canali di scolo cementificati in cui scorrevano
rigagnoli verdastri dall’odore d’acido. E via via, per quanto
sembrasse impossibile anche in quel momento ormai fermo, anche in
quel mondo assurdo, gli edifici si erano fatti radi, l’orizzonte si
era liberato, ad una successione di edifici diroccati, d’ululati di
cani randagi e di nastri d’asfalto che sfociavano su sterrati
appena segnati, avevano cominciato a subentrare cespugli polverosi,
qualche duna di sabbia spruzzata di erbacce, perfino radi alberelli
rachitici. L’aria si era come lentamente denudata. Spurgato, in
quella corsa disumana, d’ogni stilla di pensiero, la sua
inseguitrice intima in qualche modo lo aveva ormai già divorato
senza che il suo corpo ne fosse stato sfiorato, succhiandogli via
ogni parvenza d’umanità, lasciandolo in quell’incubo di
animalità braccata. Il suo incubo intimo non lo aveva perso un
momento, ingurgitando dentro il male dal quale era nato ogni sua
scintilla di speranza, straziandone con le zanne la stessa sensazione
di poter avere ancora una vita qualsiasi, fosse pure un’eternità
d’oscurità e soffocamento. Una volta che lo aveva spinto fuori da
se stesso attraverso quell’itinerario allucinato e folle, allora
aveva finito per appartenergli del tutto e senza che lui se ne
rendesse conto lo aveva lasciato scappare, questa volta dal nulla. Ed
il nulla aveva inghiottito benevolo ogni cosa. C’era stata come una
tempesta di polline, un vero e proprio tornado di soffioni che aveva
offuscato tutto provenendo non si sa bene da dove, bensì da ogni
parte, confondendo il basso con l’alto, ciò che era davanti con
ciò che era dietro ed ogni lato con ogni altro, smorzando la sua
sensazione di correre in quella di procedere a caso, non si sa bene
in quale direzione. Poi attorno alla sua fuga si era disteso il
banale paesaggio di una campagna anonima. Alberi, erba, siepi,
scollinamenti. Ed i colori, cone resuscitati da quella malattia della
retina che dillà aveva reso ogni cosa una sfumatura di grigio e
nero, erano di nuovo sgorgati da ogni cosa nella loro intensità
naturale. Ma lui aveva continuato a correre, perché quel giusto
terrore che lo aveva preso lo doveva spingere fino al limite ultimo,
sulla superficie del proprio specchio ed oltre.
SECONDA PARTE
Quando apre gli occhi,
quasi come se la sera prima non li avesse chiusi, non pensa più
nulla. Si scopre, si alza, rimane a sedere nudo sul bordo del letto.
Si schiarisce la gola, afferra il pacchetto di sigarette sul
comodino, se ne accende una ed aspira forte. Un gesto ormai usuale in
quei giorni. La pelle del corpo è umida di sudore. La punta della
sigaretta emette un bagliore rossastro d’incendio. Fuori c’è il
silenzio della domenica mattina. Nella penombra della stanza
attraversata dai raggi del sole il fumo azzurrino si diffonde lento.
Aspira una boccata via l’altra. Socchiude gli occhi, sbadiglia. Non
rifà il letto da molti giorni e le pieghe delle lenzuola somigliano
sempre di più a quelle del suo viso. Quei tagli profondi che da un
momento all’altro, nella sala dell’obitorio, si sono aperti sul
suo viso come voragini. Si trova in quello che con un eufemismo
sciapo la cultura contemporanea definisce “un momento particolare”,
o con una concessione appena più accennata alla realtà, “un
momento doloroso”. Con la sigaretta fra le labbra si alza e nudo
com’è va in cucina per prepararsi il caffè. L’unico rumore
udibile è quello della pelle dei suoi piedi sul pavimento. La luce
filtra nella semioscurità di casa attraverso le persiane chiuse. Le
pareti, il corridoio, le stanze: sembrano le cifre di un abbandono,
una nave spiaggiata, il rebus risolto di una fine. I libri
sparpagliati ovunque come una specie di vegetazione selvatica ed
infestante. Quando arriva in cucina l’unico rumore che arriva
dall’esterno è l’ansimare laborioso del camione dell’immondizia.
Lui intanto afferra la macchinetta per il caffè. La sequenza dei
gesti che compone quel rito mattutino è come un geroglifico: lo sa
riprodurre, ma non ne conosce più il significato. Quando accende il
gas rimane lì in piedi. La sigaretta che continua a fumare, il
rumore dei cassonetti che vengono sversati, il caldo che da fuori
ghermisce le pareti dell’appartamento. Sul tavolino, aperto e col
posacenere poggiato sulle pagine a tenere il segno, Una solitudine
troppo rumorosa. Nel lavabo il piatto e la padella ancora da
lavare. La moka inizia a gorgogliare, uno sbuffo di fumo sale dal
beccuccio, carico d’aroma. Con due dita afferra il mozzicone e lo
getta nel lavandino. Una goccia di sudore gli cola dai capelli sulla
fronte. Spegne il gas. Le immagini del sogno gli fluttuano nitide
nella mente rasata d’ogni pensiero. Afferra una delle due tazzine
dallo scolapiatti. Rasare i pensieri è stato un lavoro duro, come
cancellare dai muri della mente gli affreschi di un’epoca, tutte le
immagini del teatro della memoria, le scenografie dei momenti
passati. È stata una cruda necessità. Si versa il caffè, rimane
con la tazzina a mezz’aria, annusando quel profumo che era stato
domestico ed ora è stato declassato ad abitudine. Beve in piedi
chiudendo gli occhi. Anche il sapore del caffè va tenuto a bada,
perché tutto ciò che gli sollecita i sensi diviene automaicamente
ricordo. In quei momenti l’ingorgo delle cose che avrebbe voluto
dirle, tutto ciò che normalmente si rimanda ad un momento più
appropriato, sequestrati dal falansterio della vita quotidiana, gli
si secca sulle labbra come una crosta di sale. E lui fantastica di
non dover più parlare, di potersi sottrarre a quella produzione di
suoni che gli è divenuta aliena, quasi che tutto ciò che avrebbe
voluto dirle e tutto ciò che potrebbe ancora dire non abbia più la
forza di staccarglisi da dentro, di esprimersi, di venire articolato,
masticato, espulso, liberato. Spinge la lingua sul palato, ingolla
l’ultimo sorso di caffè quasi con rabbia. Le domeniche sono i
giorni peggiori. Specialmente la mattina. Da qualche parte squilla il
telefono. Sa già che deve rispondere, perché cadere in quei buchi
di silenzio è pericoloso e la percezione del rischio e delle sue
conseguenze lo sospinge, quasi una spinta alle spalle. Così poggia
la tazzina ed ancora confuso dietro quel rimuginìo intimo
s’avventura alla ricerca dell’apparecchio. Chi lo chiama sa. Chi
lo chiama lascia squillare, ma non è insistenza, non è invadenza.
Quando trova il telefono risponde senza neanche dire pronto. Ti ho
svegliato? No. Come va? Meglio. Ti serve qualcosa? No, grazie. …Che
fai oggi? Non lo so. Vuoi che passo, magari porto da mangiare
qualcosa. Forse esco. Fai bene, non rinchiuderti in casa. Ed a questo
punto le sue energie per portare avanti la conversazione si arenano.
Normalmente possediamo una quantità quasi sempre eccedente di
informazioni da scambiarci, di pleonasmi condivisi, ed in questo
consiste spesso la gran parte di una conversazione, il piacere di
sentirsi, appunto. Il silenzio invade invece questo scambio di
battute. D’accordo, se hai bisogno di qualcosa, chiama. Certo.
Ciao. Ciao. Ecco, è finita, anche questa è fatta. Il compito è
stato assolto. Rimette il telefono dov’era, poi, quasi avesse
dimenticato qualcosa, si affretta in camera da letto, preleva il
pacchetto di sigarette, ripassa in cucina e prende il posacenere
usato come segnalibro. Le pagine si richiudono su stesse, ma non del
tutto. Va a sedersi sulla poltrona nel salone, prende il telecomando
ed accende la televisione. Non ha mai guardato così tanta
televisione in vita sua come in questi ultimi tempi. Aiuta
moltissimo. Per tacitare la mente c’è chi si rivolge alle droghe,
chi all’alcol od alle religioni. Lui accende il televisore e lascia
che il profluvio di immagini, chiacchiere, musiche, pubblicità,
serie televisive, notiziari gli invadano la scatola cranica, gli
piallino diligentemente la percezione della realtà, scavino un
fossato fra i suoi sensi ed il mondo che lo circonda. Come strumento
per stordirsi è perfetto.
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