Cerca nel blog

martedì 11 ottobre 2016

MIA MADRE

Ricominciare a scrivere. Certo. È un’aspirazione, un desiderio multiforme ed ondivago che mi attraversa il cuore e la mente da sempre, come un teatro d’ombre, la corsa di un branco di cani, un sussurro nell’orecchio alla fine di una giornata. Ed è anche una misura spietata del mio carattere meschino, pigro ed inconcludente. Non venitemi a dire che non è vero. Primo perché potrei ridervi in faccia e dirvi in tutta semplicità e con la massima onestà: «Ma tu cosa sai di me?». E poi perché devo pensarla così. Se non lo facessi, se non m’inchiodassi senza indulgenza alla tremenda responsabilità di sciupare il tempo che avrei potuto impiegare a scrivere in tutta una molteplice e variegata serie di attività fondamentalmente inutili, non riuscirei neppure a strizzare fuori dai polpastrelli le quattro cose che scrivo, blandito dalla facilità della scrittura su questo scorrere indistinto che è la comunicazione su un social. Dunque sì: meschino, pigro ed inconcludente. È una buona base di partenza per scrollarsi di dosso le piume variopinte della vanità, i sonaglietti della simpatia, tutta la giaculatoria espressiva che mi tiene invece lontano dall’essenza, da quelle parole che giacciono al fondo. Quelle per dire le quali bisogna spogliarsi e rimanere indifesi di fronte a se stessi.
Scrivere dunque. Ma da dove cominciare? Ognuno di noi sa cosa lo riguarda più da vicino. Cosa gli concerne in modo autentico. Io so cosa mi appartiene, ma come ogni segreto, dirlo anche solo ad un’altra persona sarebbe un tradimento. Eppure è proprio nel segreto che germina quello che ci definisce, le azioni che meglio ci connotano, il nostro modo di rappresentarci la vita, di percorrerne il cammino. Fin da bambino, appena appresa la tecnica per scrivere e leggere, compresi istintivamente che quelle, per me, erano porte che conducevano altrove, in mondi del tutto autonomi da quello in cui mi trovavo e nei quali esistevano storie, personaggi, emozioni, idee, una vastità che toglieva il fiato ed incantava. Soprattutto lì potevo fuggire e sentirmi al sicuro. Questa per me è la magia della stupenda falsificazione di cui le lettere sono capaci: quella di creare una realtà più reale della realtà. Sulla quale, avrei imparato, avere un controllo totale. Paura. Ma anche immaginazione, sogno, fantasia, emozione.
Ci sono però momenti nella vita che ci tolgono le parole, rispetto ai quali la prima reazione è il silenzio. Quando morì mia madre mi resi conto che il silenzio si poteva accogliere, certo, ma che raccontare, nonostante tutto, fosse possibile e sotto certi aspetti doveroso. Quella notte scrivere divenne un dono prezioso e sanguinante, non solo un esercizio di vanità e di finzione. Porto con me da anni le parole che scrissi quella notte, in un bigliettino spiegazzato, ed ho pensato che quel testo fosse un buon punto di partenza per ricominciare, se non altro perché mia madre m’insegnò a leggere e scrivere ancora prima di andar a scuola. Perché ho scritto poche altre cose con animo così disarmato, mi verrebbe quasi da dire a mani aperte. Yamamoto Tsunemoto scrisse nell’Hagakure: «Il maestro Ittei diceva ancora: “Per fare il bene, in poche parole, occorre sopportare la sofferenza”. Non accettare la sofferenza è male. È un principio che non conosce eccezioni.» Mi pare un buon punto d’inizio.

Ecco cosa scrissi.


Notte fonda, ormai, notte di sogni per tanti, notte di veglia. Per me è impossibile dormire. Volevo dormire, davvero. Per restituire al mio corpo ed alla mia mente la normalità della vita, così semplicemente come quando ci si alza, si ride, si beve, si piange, si dorme. Ma troppe volte ho rimandato quello che era in me. Momenti, pensieri, sensazioni. E stasera il mio gesto per restituirmi la normalità è raccontare. Raccontare quello che si teme, di cui si ha orrore, che si vorrebbe evitare a qualsiasi prezzo. Raccontare quello che invece ho affrontato disarmato come solo si può affrontare ciò che non si può né combattere, né evitare. E non ci sono belle frasi per raccontarlo, per dirlo in tutta la sua fondamentale indicibilità, perché della morte non possiamo dire nulla. E allora uso parole normali. Normali come una carezza, normali come una stretta di mano, un bacio, una ninna nanna.

Ieri pomeriggio ero all'hospice dove mia mamma, priva di coscienza, respirava rantolando. Stanza 405. Un posto immerso nella natura, vicino casa sua e di mio padre, venuto meno il 22 dicembre dello scorso anno. Una struttura per malati terminali, ricavata in alcuni padiglioni tra pini marittimi e la campagna. C'erano le mie sorelle, Valentina e Donatella, che si sono occupate di mia madre durante tutta la sua malattia, con uno spirito di abnegazione di cui non sarò loro mai abbastanza grato, io che vivo a seicento chilometri di distanza da Roma... C'era la vicina di casa, una figlia acquisita, e mia zia, con la quale mamma aveva voluto riparlare dopo anni, perché in certi momenti, diceva, non ha senso conservare rancori. Alle 20:30 sono partito per andare a prendere mio figlio che arrivava da Budapest. Ho fatto l'autostrada per Fiumicino ascoltando musica classica. Sono arrivato all'aeroporto, ho parcheggiato, ero in anticipo. Ho ascoltato alla radio un pezzo particolarmente bello di concerto per violoncello, eseguito da Jacqueline Du Pre. Poi sono andato al terminal 3. Quando è arrivato Aureliano, l'ho trovato molto cresciuto e molto spaventato. Quando l'ho abbracciato mi ha sorpreso la consistenza del suo corpo, la stretta delle sue mani. Sta diventando un ragazzone ed ha solo quattordici anni. Mentre tornavamo gli ho spiegato come stava la nonna. Gli ho spiegato con dolcezza che non era più cosciente, che non poteva né vederlo, né dirgli nulla, ma che se le avesse parlato serenamente, dandole un bacio, lo avrebbe sicuramente avvertito. Dopotutto prima di perdere coscienza aveva detto di volerlo vedere. Quando l'ho sentita per telefono l'ultima volta mi aveva detto di essere felicissima che stavamo andando a trovarla. Aureliano era teso, confuso. Mi ha detto che odia doversi mettere la maschera di quello che è forte, ed io gli ho risposto che non doveva mettersi alcuna maschera, ma essere forte. Durante il tragitto è scoppiato a piangere. Aveva la voce rotta dalla rabbia. L'ho preso per mano continuando a guidare, e ho cercato di fargli capire che se voleva piangere, certamente poteva farlo, ma non doveva provare rabbia per quanto stava succedendo, perché non si può essere arrabbiati per certe cose, ma bisognava solo aiutare la nonna a rimanere serena, facendole sentire tutto il suo affetto. In questo consiste essere forti in questi momenti. Si è calmato. Mi ha detto che dopo questo momento, crede che la sua infanzia sia proprio finita. Gli ho detto che aveva ragione.
Così siamo arrivati all'hospice, dove accanto a mamma c'erano ancora le mie due sorelle, il compagno di una di loro due e la vicina di casa. E mio figlio ha salutato mia madre, le ha dato un bacio, le ha tenuto per qualche minuto la mano, ci ha parlato tranquillamente. Poi ho preferito che andasse a casa, e sono tutti andati via, anche perché erano stravolti dalla stanchezza. Erano all'incirca le undici di sera. Sono rimasto da solo con mamma, preparato a vegliarla tutta la notte. Così mi sono messo a sedere accanto al suo letto. Respirava con affanno. Le ho preso la mano ed ho iniziato a parlarle, rasserenandola, cercando di farle capire, per quanto potesse o non potesse udirmi, che non c'era nulla da temere, che le volevamo tutti bene, che sarebbe potuta andare al mare con papà (adoravano entrambe il mare) e non stava succedendo nulla di male. Le carezzavo la fronte e continuavo a dirle di rilassarsi, perché tutte le persone che le volevano bene le erano vicine ed il loro amore la proteggeva. Il suo respiro piano piano si faceva meno rantolante, più profondo, sempre più simile ad un leggero russare. In quel momento ho pensato quanto fosse meno spaventoso di quanto ce lo immaginiamo, questo momento. Starle accanto era la cosa più normale che potessi fare. Alle undici e cinquantacinque mi ha chiamato Barbara, la mia compagna. Abbiamo parlato per un po' mentre continuavo a stringere la mano di mia madre. In tutti i momenti più bui degli ultimi anni, Barbara mi è sempre stata vicina. Devo a lei molto di quello che sono riuscito a fare ieri sera. Moltissimo. Quando abbiamo chiuso la comunicazione ho dato a mamma il bacio che lei le mandava, ed ho continuato a carezzarle le guance e la fronte, tenendole la mano. Mamma diceva sempre che essere abbracciata da papà la faceva sentire al sicuro, protetta da quell'uomo imponente che era, e così le ho detto che poteva stare serena, perché papà l'avrebbe abbracciata e tenuta al sicuro, e che lei era come una bambina che stava nascendo di nuovo. Pian piano il respiro calava d'intensità, senza scossoni, senza alcun segno di dolore fisico. In questo dobbiamo tutti dire grazie alle cure palliative somministratele dallo staff medico, cure che le hanno evitato dolori altrimenti inumani. Nell'arco di un quarto d'ora l'ho vista lentamente addormentarsi mentre le dicevo tutte le cose che potevano farla sentire al sicuro. Poi ha aperto gli occhi per il suo ultimo grande sogno ed è scivolata via leggera come un uccello che prende il volo nel vento. Le si sono richiusi lentamente gli occhi e per qualche minuto ancora sono rimasto lì, a tenerla per mano continuando a carezzarle la fronte e a dirle parole dolci.


Ho atteso che andasse, poi ho premuto la chiamata d'emergenza. E quando l'infermiera è arrivata ero ancora lì, ma mamma era ormai dentro di me e dentro tutte le persone che l'hanno amata e le hanno voluto bene.
Era passata da poco la mezzanotte.
Porterò in me per tutta la vita questo momento, ed ho voluto fissarlo qui, ora, in queste parole semplici, affinché il turbinio del tempo e degli eventi non ne offuscasse il ricordo.



11 commenti:

  1. ti scrivo in privato. Farlo qui mi sembrerebbe profanare il ricordo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Pio, il commento che mi hai mandato in privato è una delle cose più sentire ed autentiche che mi siano mai state scritte. Mi hai fatto sentire un'umanità profonda, vera. E mi hai anche commosso non poco. Ti mando un abbraccio.

      Elimina
  2. Bellissimo, hai descritto nel modo migliore questo momento così drammatico e vero della tua vita. Mi hai ricordato quando è morta la mia mamma, quando non sono stata così forte come lo sei stato tu... e il dolore senza aggettivi che si prova, come se si spezzasse dentro qualcosa che è tuo, per sempre. Bravissimo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sai Valeria, molte persone che su Facebook (https://www.facebook.com/emiliano.laurenzi) mi hanno risposto in privato dopo aver letto questo testo. Mi hanno parlato delle loro esperienze relative alla morte dei propri genitori, od al pensiero che li coglie a riguardo, e mi ha colpito il pudore e la cura con cui tengono per sé questo ricordo, evidentemente molto doloroso per ciascuno. Io non mi sento più forte per averne scritto, forse solo più impudico, come ogni scrittore che non ha remore nell'affrontare qualsiasi tema, fosse anche la morte di un proprio genitore. Per questo ho usato questo testo per segnare il momento in cui ricomincio a scrivere: perché è solo quando la scrittura sa confrontarsi e portare a "cantare" le ferite che non possono rimarginarsi, solo quando la scrittura si confronta con ciò che è autentico. Ed anche perché aver scritto questo testo, in quel momento, in questo modo, alla lunga mi ha fatto riflettere. Cose del genere le fanno gli scrittori. Ho voluto sentirla così. Anche perché è stata mia madre ad insegnarmi a scrivere.

      Elimina
  3. Risposte
    1. Mi fa piacere che ti sia piaciuto. Se lo desideri, ripassa pure: con una certa regolarità pubblicherò altri contenuti.

      Elimina
  4. Mi hai fatto rivivere il trapasso dei miei nonni paterni, entrambi spentisi fra le mie braccia a 15 anni l'uno dall'altra.
    In questi momenti, a faccia a faccia con la morte, riscopriamo la nostra impotenza di fronte all'umanità e alle sue leggi ferree. Ma l'amore e l'irrazionale restano la nostra forza, il mondo va avanti e noi, se pur tristi e impoveriti, continueremo a seguirlo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie delle tue parole Vito e grazie per aver condiviso un tuo ricordo.

      Elimina
  5. Il tuo testo, Emiliano, ci dice qualcosa di autentico ed essenziale, chiaro e profondo di te, di tua madre, di tuo figlio, del morire in pace con se stessi e col mondo, di me. Questo modo di concepire e fare blog, social network, è personalmente e socialmente utile e bello. Cominciare dagli altri, tu da tua madre, io da te, ogni mattina è la cosa giusta. Ti ringrazio della tua generosità. Pasquale

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro pasquale, mi lusingano le tue parole: in realtà la generosità di cui parli è per me un dono di cui essere grato. Sull'utilità, diciamo che se si accompagna alla piacevolezza è sempre meglio.

      Elimina
  6. Come ha scritto sopra il Sig. Pasquale, è un atto di generosità scrivere di eventi del genere, e tu lo hai saputo fare bene. E' difficile aprirsi così tanto a tutti; in alcuni aspetti, come questo, io proprio non ce la farei, ho avuto diverse esperienze del genere ma ho sempre preferito tenermi tutto dentro, anche tra i più intimi amici. Complimenti.

    RispondiElimina