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lunedì 16 gennaio 2023

L'UMANITÀ COME MEZZO O STRUMENTO DELLA TECNOLOGIA


«... una direzione verso la quale nessuno volgeva lo sguardo»


Questo fine settimana sono stato da solo. Mia moglie in viaggio di lavoro, non mi restava che finire di tagliare la legna nel bosco, sistemare la legnaia, accudire gli animali, cucinare per mia suocera a cena, e poi ho avuto tutto il tempo di questo mondo.

E quando ho tempo, io adoro leggere romanzi. È il mio altrove, il tempo del viaggio per la mente. Così in una sola serata, lunga abbastanza da sfociare nella notte, ho terminato un romanzo che forse non molti conoscono e che da anni mi sbirciava di sottecchi, facendomi sentire in colpa per non sfogliarne le pagine. Perché è certo, anche se ormai leggo principalmente attraverso un lettore di e-book, che lo sfogliare la pagina fisica, e non mi soffermo su quei dettagli da bibliofilo che somigliano ormai, in questo mondo che si pretende immateriale, alla parafilia di un feticista, ha tutto un altro sapore.

È stata una di quelle letture ingorde che mi ha riportato alla mia età fresca e verde, quando leggevo i libri in estenuanti corpo a corpo che somigliavano, per intensità e foga e ingordigia, ai baci di quegli anni. Una pagina tirava via l'altra, con passione e la piacevolissima sensazione di non averne mai abbastanza.

Il romanzo in questione è La voce del Padrone, di Stanisław Lem, un romanziare polacco fra i migliori scrittori di fantascienza fin ora vissuti. Ma attenzione, qui non si trata di astronavi, mostri alieni, viaggi intergalattici e tutto l'armamentario tipico di certa science finction, no. La spettacolarità fiabesca e spesso un po' sciatta di gran parte di quel genere non gli appartiene. Semmai i suoi romanzi sono per certi versi, anzi, spesso integralmente, romanzi filosofici - non alzate il sopracciglio in segno di prevedibile noia! - e illustrano le possibilità della letteratura di rappresentare in maniera logica gli sviluppi della scienza, senza lasciarsi sedurre dalle sirene del "fantastico tecnologico".

Lem ha compiuto studi filosofici e medici, è stato meccanico e poi biologo e cibernetico, oltre ad aver avuto i suoi grossi problemi con la critica stalinista. Ecco, scordavo di situarlo nel tempo. Morto nel 2006 a Cracovia, era nato nel 1921 a Leopoli (in polacco, perché all'epoca la città era polacca, si scrive Lwów, oggi si chiama L'vov - in cirillico Львів - e si trova nell'Ucraina occidentale). La sua fama di scrittore in Polonia era enorme, tanto che nel 1977 venne proposto al Nobel per la letteratura.

Oggi, purtroppo, spesso lo si conosce esclusivamente perché Andrej Tarkovskij trasse da un suo romanzo, Solaris, l'omonimo, giustamente celebrato film, con memorabile colonna sonora di Edward Artemiev (Solaris - Original Soundtrack). Una nuova messa in scena del romanzo è stata fatta anche da Steven Soderbergh nel 2002. Ma insomma, avete capito che a parte questo romanzo, chi conosce le opere di Stanisław Lem?

La sua scelta di utilizzare il genere fantascientifico era dettata più che altro dalla possibilità di svolgere in quel modo certi ragionamenti, analizzare certe situazioni, ragionare sulle idee, più che dall'entusiastica e - oggi lo possiamo dire - stucchevole celebrazione della tecnologia in sé. In questo senso si pensi che nel 1976 venne radiato dalla SFWA (Science Fiction Writers of America - Associazione americana degli scrittori di fantascienza) per aver dichiarato senza mezzi termini che «la fantascienza è un caso senza speranza, con eccezioni», stigmatizzandone la natura esclusivamente commerciale, spettacolare, di massificazione.

In realtà, però, pare che la sua cacciata avvenne in seguito a una lettera scritta all'FBI niente meno che da Philip Dick, nella quale Stanisław Lem era segnalato come "spia comunista". Ad onor del vero va detto che Lem non era mai stato iscritto al Partito Comunista, ma soprattutto che all'epoca in cui scrisse la lettera, Dick - che da Lem era considerato «un visionario tra i ciarlatani» - era in preda a visioni e allucinazioni dovute all'uso ed abuso di anfetamine, tiopental sodico e altre sostanze psicotrope.

Ma non voglio stare qui a fare un ritratto a tutto tondo di questo particolarissimo scrittore ingiustamente messo in secondo piano, semmai vi invito a leggervi una bella disamina su di lui nello scritto di Alberto Mittone che potete reperire qui: Grandezza di Stanislaw Lem. Quello che mi interessa è condividere con voi una parte di questo romanzo, diciamo il capitolo 16, che mi ha veramente fatto riflettere. Specialmente se penso che è stato scritto oltre mezzo secolo fa.

La scelta di parlare solo di questo capitolo non vuol dire, ovviamente, che non vi consigli con tutto il cuore di leggere l'intero romanzo - uscito in Polonia nel 1968 e tradotto in Italia, bontà nostra, nel 2010, per i tipi della Bollati Boringhieri. Ve lo consiglio perché è un esempio cristallino di cosa voglia dire scrivere senza cedere di un millimetro al patetismo che affligge larghissima parte della letteratura contemporanea, e per patetismo intendo quell'ossessiva, ripetitiva, onnipresente riduzione di ogni finzione letteraria (perché la letteratura è finzione e menzogna, ironia e simulazione, oltre che esclusiva testimonianza) alle sensazioni, alle emozioni e all'universo affettivo, in una sorta di melodramma all'ennesima potenza. Qualcosa di insopportabilmente sdolcinato, anche, se non soprattutto, se quest'affettività è declinata come crudeltà, come passionalità, e via discorrendo.

Dunque La voce del Padrone è un romanzo che affascina la mente, perché nella stringata semplicità della trama, affronta questioni decisamente centrali nella riflessione sul rapporto fra uomo e tecnologia, fra cultura e scienza, fra desiderio e limiti concettuali. E lo fa con un'asciuttezza intellettuale così ben calibrata da permettergli di essersi saputo sottrarre, come romanzo, alla sua interpretazione, per altro riduttiva, di prodotto della Guerra Fredda.

Posso solo dirvi di leggerlo e contare sulla fiducia che potete avere in me come lettore. Torno dunque al capitolo che mi ha impressionato per la sua attualità, per la capacità di coniugare riflessione scientifica e contestualizzazione antropologica. In sostanza perché Lem mostra in queste pagine, in maniera esemplare, come la letteratura possa essere anche e soprattutto pensiero. Da apprendista stregone della sociologia dei media, nel caso specifico, non credo di aver mai letto, in una forma così densa di significati, una descrizione altrettanto calzante dell'evoluzione tecnologica negli ultimi due secoli. Soprattutto del suo essere specchio desolante della divaricazione interna al genere umano, la stessa che da un lato progetta spedizioni su Marte e dall'altro conta a milioni i morti di fame e malattie.

Soprattutto è degna di nota la capacità di individuare la subordinazione della dimensione libidica dell'uomo, il piacere variamente declinato, alla sua determinazione tecnologica (un percorso iniziato con la seconda rivoluzione industriale, aggiungerei), ma anche la trasformazione tecnologica a cui sottoporre il momento riproduttivo - la mai sopita e oggi riemergente pulsione eugenetica - e soprattutto la sostanziale cecità rispetto ai fini della tecnologia stessa, la cui spettacolare mutazione sfugge a tutti.

Le pagine di questo capitolo descrivono con precisione e al massimo grado di pregnanza le direttrici dello sviluppo tecnologico (che non vuol dire per niente solo e esclusivamente "apparati tecnici") che oggi, in larga parte, vediamo realizzate - pensiamo alla chirurgia estetica come forma di "moda" tecnologica, così come all'estetizzazione della dimensione cyborg che tanto ha appassionato la postmodernità e che riecheggia nei discorsi sul postumano.

Per contestualizzare in modo completo le pagine del capitolo 16, che posterò a chiusura di questo mio testo, riporto inoltre quello che Lem scrive in un precedente capitolo - l'11 -, dove affronta per altro il rapporto con la tecnologia come qualcosa di vissuto in modo "inconsapevole". Perché tutte le considerazioni che svolge nelle pagine che tanto mi hanno colpito, alla luce di questo fatto, cioè l'incosapevolezza dell'esperienza con la tecnologia, acquisiscono una dimensione per certi versi inquietante. La tecnologia, infatti, non è più strumento dell'umanità, ma è quest'ultima che ne è divenuta mezzo. Un mezzo per fini sostanzialmente ignoti.

«Come nei secoli passati, la politica ha considerato il globo, ivi compreso lo spazio sublunare, come una scacchiera per le proprie contese, senza accorgersi che intanto la scacchiera subdolamente si modificava cessando di rappresentare una base e uno stabile punto d’appoggio, e diventando invece una zattera trascinata dal gioco di correnti invisibili che la guidavano in una direzione verso la quale nessuno volgeva lo sguardo.

Chiedo scusa per la metafora. La verità è che da quando Herman Kahn ha fatto una scienza della professione di Cassandra, i futurologi si sono moltiplicati come funghi; tuttavia nessuno di loro ha mai detto chiaro e tondo che ci siamo arresi ai voleri dello sviluppo tecnologico. Ma i ruoli si sono invertiti ed è stata l’umanità a diventare, per la tecnologia, un mezzo o uno strumento per raggiungere uno scopo sostanzialmente ignoto. La ricerca di un’arma definitiva ha trasformato gli scienziati in ricercatori di una pietra filosofale che differisce dall’ideale alchemico in un solo punto, ossia per l’assoluta certezza della sua esistenza. Il lettore di studi di futurologia si trova davanti a grafici e tabelle stampati su carta patinata che lo informano su quando appariranno i reattori idroelici e su quando si comincerà a sfruttare commercialmente la capacità telepatica del cervello. Tali future scoperte vengono previste per mezzo di sondaggi collettivi condotti presso gli specialisti del settore: situazione tanto più pericolosa di quella precedente in quanto crea un’illusione di conoscenza proprio là dove un tempo, per generale ammissione, regnava la più totale ignoranza.»


Stigmatizzare queste parole come quelle di chi fa polemica contro la tecnologia, significherebbe ignorare che Lem stesso era un cibernetico, e che in ogni caso è oggi palese come la direzione dello sviluppo tecnologico sia sfuggita di mano a qualsiasi tipo di controllo non dico etico, ma almeno politico, e sia invece funzione proprio di quella "messa in produzione" della componente libidica, del soddisfacimento puramente sensoriale. Esattamente «la ragione al servizio delle pulsioni», come scrive Lem: un caleidoscopio di tecniche per incistarsi dentro un bozzolo solipsistico di piaceri, «una piacevolissima forma di suicidio intellettuale», appunto.

Allo stesso tempo anche l'altra tendenza, quella che l'autore definisce "ascetica", mostra oggi una vitalità notevole. È la strada dell'integrazione corpo-macchina, la via del cyborg, che si manifesta soprattutto per le implicazioni relative all'integrazione di parti tecnologiche nel corpo (arti, organi, fasci tendinei e terminazioni nervose, apparati), e per le frontiere, che iniziamo a esplorare, degli impianti neurali, ma anche e soprattutto per il potenziale di «disintegrare l'omogeneità biologica, finora intatta, della specie». Il postumano, in sostanza.

Ad ogni modo riporto ora, per esteso, le pagine alle quali ho fin qui fatto riferimento e che confidando nella vostra pazienza, ma soprattutto nella vostra curiosità, spero leggerete:

«Ma in una società giunta a una fase di sviluppo simile alla nostra si manifestano tendenze a lungo termine e contrastanti tra loro, di cui è impossibile prevedere gli effetti remoti. Da un lato, le tecnologie già costituite esercitano una pressione sulla cultura esistente, inducendo in un certo senso la gente ad adattarsi e sottomettersi alle strumentalizzazioni in atto. È possibile quindi vedere sia i segni di una competizione tra l’uomo dotato d’intelletto e la macchina, sia varie forme di simbiosi tra l’uno e l’altra; mentre la psicologia e l’ingegneria fisioanatomica scoprono gli «anelli deboli», i parametri scadenti dell’organismo umano, dando il via alla tendenza che porta a pianificare gli opportuni «miglioramenti». È da una tendenza di questo genere che scaturisce l’idea di produrre dei «cyborg», individui parzialmente artificiali, destinati ai lavori nello spazio e all’esplorazione di pianeti con ambienti drasticamente diversi da quelli sulla Terra; come pure l’idea di collegare direttamente il cervello umano alle banche dati delle memorie artificiali, o di costruire delle macchine in cui si operi un’associazione, non si sa ancora quanto stretta, tra uomo e strumento, sul piano meccanico o intellettuale.

Tutto questo fascio di pressioni tecniche minaccia di disintegrare l’omogeneità biologica, finora intatta, della specie. Non solo l’unica cultura propria alla totalità umana, ma perfino l’unica e universale forma corporea dell’uomo potrebbe, per effetto di tali trasformazioni, diventare la reliquia di un morto passato. L’uomo trasformerebbe in effetti la propria società nella variante psicozoica di un formicaio.

D’altro canto, la sfera delle tecnologie strumentali potrebbe venire subordinata alla cultura in quanto insieme di costumi sociali. Si potrebbe, per esempio, giungere a un prolungamento biotecnologico degli influssi che determinano la moda. Per il momento, le tecniche della moda si arrestano alla superficie della pelle umana. In realtà vorrebbero farci credere che il loro influsso si spinga più lontano perché, a seconda dei periodi, ci vengono imposte come modelli privilegiati differenti varianti del fisico umano. Basti ricordare la differenza tra l’ideale di bellezza di Rubens e la donna d’oggi. Un ignaro osservatore delle questioni terrestri potrebbe avere l’impressione che, a seconda dei dettami di questa o quella stagione, alle donne (più visibilmente soggette ai decreti della moda) una volta si allarghino le spalle e la volta dopo i fianchi; che ora i seni si ingrossino e la volta dopo rimpiccoliscano; che le gambe si facciano ora piene, ora lunghe e sottili, e via dicendo. Ma questi «afflussi» e «riflussi» della sostanza corporea altro non sono se non un’illusione prodotta dalla selezione, nella varietà dell’insieme, dei tipi fisici che riscuotono l’approvazione del momento. Un simile stato di cose potrebbe appunto subire una correzione biotecnologica: il controllo genetico trasferirebbe in quel caso la sfera della varietà razziale nella direzione richiesta.

Paragonata alla forza delle trasformazioni cultural-poietiche, una selezione genetica riguardante caratteristiche puramente anatomiche può sembrare qualcosa di futile; ma, nello stesso tempo, può anche apparire desiderabile per motivi estetici (in quanto opportunità di universalizzare la bellezza fisica). Al momento mi riferisco all’inizio di una strada sulla quale si potrebbe apporre il cartello «la ragione al servizio delle pulsioni». E questo perché la stragrande maggioranza dei prodotti materializzati dalla ragione viene investita in lavori prettamente sibaritici. Un televisore costruito con intelligenza diffonde spazzatura intellettuale; le meravigliose tecniche di comunicazione rendono possibile che, invece di ubriacarsi nel cortile di casa sua, un cretino travestito da turista lo faccia in prossimità della basilica di San Pietro a Roma. Qualora tale tendenza dovesse produrre un’invasione dei mezzi tecnici all’interno stesso dell’uomo, sarebbe indubbiamente allo scopo di espandere al massimo la gamma delle sensazioni piacevoli e forse, addirittura, perché oltre al sesso, alla droga e alle gioie della tavola, vengano resi accessibili altri generi di stimoli e di gratificazioni finora sconosciuti.

Visto che il nostro cervello possiede un «centro del piacere», che cosa potrebbe impedirci di connettervi degli organi sensitivi sintetici che ci permettano di raggiungere orgasmi, mistici e non mistici, attraverso pratiche appositamente pianificate e inventate per scatenare estasi a vasto raggio? Un’autoevoluzione realizzata in questi termini rappresenterebbe un definitivo rinchiudersi nella cultura e nei costumi, un tagliarsi fuori dal mondo extraterreste e, in sostanza, una piacevolissima forma di suicidio intellettuale.

Tecnica e scienza, associate insieme, riusciranno senza dubbio a fornire degli apparecchi capaci di esaudire le richieste sia della prima che della seconda via di sviluppo. Il fatto che l’una e l’altra ci sembrino alquanto mostruose non pregiudica ancora niente.

I giudizi negativi circa tali trasformazioni sono infatti del tutto privi di fondamento. La direttiva secondo la quale non si deve «indulgere troppo a se stessi» può essere razionalizzata solo fin tanto che il piacere di un individuo comporti il danno di un’altra persona (oppure il danno del proprio corpo e della propria anima come, per esempio, nel caso della droga). Tale direttiva può costituire l’espressione di una semplice necessità, nel qual caso occorre sottomettervisi senza discutere; ma la linea di sviluppo della tecnologia è appunto orientata in modo da eliminare una dopo l’altra tutte le necessità, in quanto limitative di possibili comportamenti. Chiunque affermi che la civiltà dovrà sempre tenere conto di una qualche necessità sotto forma di limitazione della libertà personale, professa in sostanza l’ingenua fede che l’Universo sia stato creato tenendo presenti i «giusti doveri» degli esseri dotati di ragione. Il che è semplicemente un’estensione del biblico precetto sulla necessità di guadagnarsi il pane quotidiano con il sudore della fronte. Si tratta di un giudizio chiaramente ontologico e non etico, come ritengono talvolta questi ingenui. L’esistenza allestitaci come alloggio è stata ammobiliata in modo che non si possa, per mezzo di nessuna scoperta, raggiungere la «vertigine del successo».

Ma è impossibile fondare previsioni a lungo termine su una fede così primitiva. Sono tesi che la gente professa per paura del cambiamento (quando non lo fa per motivi «puritani» o «ascetici»). Una paura che è sempre stata alla base di tutti gli argomenti scientifici neganti a priori la possibilità di costruire delle «macchine intelligenti». Il genere umano si è sempre sentito meglio, ma mai del tutto a suo agio, in situazioni almeno in parte disperate: un condimento che non conforta il corpo, ma placa lo spirito. Anche l’appello: «Tutte le forze e le riserve sul fronte della scienza!» può venire razionalizzato solo fin tanto che le «macchine intelligenti» non sono veramente in grado di sostituire gli scienziati.

In sostanza, non siamo capaci di dire niente di sensato sul reale aspetto delle due direttive, quella espansiva, o «ascetica», e quella incistata, o edonistica. Le civiltà possono andare sia nell’una che nell’altra direzione, possono attaccare il Cosmo oppure tagliarsene fuori. [...].

Una civiltà «divaricata» sul piano tecnoeconomico come la nostra, con un’avanguardia che sguazza nel benessere e una retroguardia che muore di fame ha già, proprio per questa sua divaricazione, una linea di sviluppo chiaramente tracciata. In primo luogo perché le retroguardie rimaste arretrate cercano di uguagliare in benessere materiale le prime linee; benessere che, per il solo fatto di non essere stato ancora raggiunto, sembra giustificare la fatica di inseguirlo. In secondo luogo, perché l’avanguardia abbiente, in quanto oggetto di invidia e di competizione, vede così confermato il proprio valore: dal momento che gli altri la imitano, quello che fa dev’essere non solo buono, ma addirittura eccellente! Il processo diventa quindi circolare poiché si opera un crescendo positivo dei moventi che incrementano la spinta in avanti, ulteriormente spronata dal pungolo degli antagonismi politici.

E ancora: la circolarità si produce dal momento che è difficile trovare nuove soluzioni quando il problema considerato è già stato in qualche modo risolto. Gli Stati Uniti, per male che se ne possa dire, indubbiamente esistono con le loro autostrade, le loro piscine illuminate, i loro supermarket e tutti gli altri meravigliosi splendori. Anche se si potesse immaginare un genere completamente diverso di beatitudine e di benessere, esso sarebbe possibile soltanto in seno a una civiltà che sia al tempo stesso differenziata e, complessivamente, non povera. Ma una civiltà che abbia raggiunto un simile stato di uguaglianza e, per ciò stesso, di omogeneità, è per noi qualcosa di completamente sconosciuto. Sarebbe una civiltà giunta a soddisfare le elementari necessità biologiche di tutti i suoi membri, per cui, a quel punto, i suoi vari settori nazionali potrebbero procedere a cercare ulteriori e diverse vie verso l’avvenire, un avvenire ormai libero da problemi economici. E tuttavia, sappiamo già con certezza che quando sui pianeti passeggeranno i primi emissari della Terra, gli altri suoi figli sogneranno non spedizioni del genere, ma un tozzo di pane.»






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