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mercoledì 31 maggio 2023

QUATTRO PASSI NELLA LETTURA


«La differenza è enorme, ma... adesso, mentre sono qui seduto a parlare, differisco da voi solo per la consapevolezza di non essere come voi. Questo è uno dei miei livelli... e, per inciso, piuttosto fastidioso»


Ogni tanto mi prendo una pausa. Una pausa dai lavori in giardino, nel casale, nel bosco, con la legna, con gli animali - due cani e due gatti. E anche una pausa dallo studio, ovviamente.

In queste pause spesso leggo qualche romanzo. Non ho mai smesso di farlo, neanche nei periodi più bui o sconclusionati della mia vita. Se in una cosa sono stato costante, questa è leggere. Di tutto e senza metodo, come ho sempre fatto fin da quando, si può dire, ho imparato a leggere.

E così, dalla lista dei libri da leggere che periodicamente stilo - una necessità che mi si è imposta da quando non posso più tenerli in casa e mi trovo costretto a cederli a mano a mano alla locale sgangherata biblioteca, che si ritroverà a possedere la quasi totalità dei libri della mia famiglia - scelgo più o meno a caso un titolo. La storiella che sto per raccontarvi riguarda uno di questi libri, aggiunto a questa lista anche se non faceva parte, fino a qualche mese fa, della mia personale biblioteca in via di sgretolamento.

Ora. Per ragioni personali mi trovo costretto, periodicamente, a recarmi ad Alessandria - mezz'ora di macchina ad andare e mezz'ora a tornare. Tra quando arrivo e quando ho terminato i miei impegni, ho un buco di circa due ore. Inizialmente me ne andavo a spasso per la città, nel tentativo di perdermi (ma per chi come me è nato e cresciuto a Roma, perdersi ad Alessandria ha dell'impossibile), poi un giorno sono entrato in un bar d'angolo, piccolo, affollato di tavolini, con il bancone stretto fra vetrine piene di tranci di pizza, brioche e, proprio difronte, un'intera parete di scaffali carichi di libri. Il classico book-crossing che per anni ho detestato, da bravo feticista del libro, provvedendo solo a saccheggiarne i titoli che mi interessavano, ogni volta che ne incontravo uno.

Fra i titoli, tanta robaccia, ma anche diverse cose interessanti - vecchie edizioni Mondadori da 350 lire con le lettere clandestine dal fronte della Grande Guerra, libri per ragazzi di quando ero ragazzo io, con la copertina rigida, fra cui Michele Strogoff di Verne, un immarcescibile K. J. Jerome col suo Tre uomini in barca, le lettere di Seneca con testo latino a fornte, qualche best seller da non disdegnare.

Visto che con l'età non si diventa più saggi, né tanto meno più intelligenti, ma solo più pazienti, soprattutto con i propri difetti, ho iniziato a portare anche io i miei libri - di base, però, lo confesso, quelli che proprio non avrei mai riletto e che conservavo solo come si conserva il fango nel carro armato degli scarponi. Ho preso anche alcuni libri, non molti a dire il vero, ma solo quelli che mi sembravano più interessanti. Fra questi, l'edizione che vedete nell'immagine. Una copertina che da sola evoca un ammasso di ricordi che nella loro eterogeneità diventano tutti, però, immediatamente riconoscibili grazie a quell'impostazione grafica così iconica.

Le edizioni Urania vogliono dire una stagione incredibilmente ricca di titoli di fantascienza, iniziata nel 1952 e nella quale sono stati pubblicati per la prima volta in Italia autori del calibro di Isaac Asimov, Philip Dick, J. G. Ballard. Ma questa è accademia. Quello che mi ha subito attirato sono stati gli autori del romanzo pubblicato in quella collana - che come molti altri, probabilmente, sarà anche stato fatto oggetto, per farlo rientrare nelle dimensioni standard, di tagli più o meno ampi. Questi sono i fratelli Arkadij e Boris Strugatski da San Pietroburgo (anche se quando vi nacquero si chiamava Leningrado), che hanno scritto Picnic sul ciglio della strada (il titolo originale in russo è Пикник на обочине), una pietra miliare della fantascienza sovietica. A titolo informativo: è il romanzo dal quale un altro genio russo, il regista Andrej Tarkovskij, avrebbe tratto nel 1979 quel capolavoro di film che è Stalker (Сталкер), con la meravigliosa colonna sonora di Eduard Artemyev.

Sulla qualità e, come genere, sulla precocità con cui la fantascienza sovietica affrontò temi che sarebbero diventati centrali nella letteratura distopica, si potrebbero scrivere diversi saggi. Mi limito a citare solo due romanzi: Noi (Мы, finito di scrivere nel 1921 e pubblicato solo nel 1924) di Evgenij Zamjatin - che anticipa di un quarto di secolo 1984 di George Orwell - oppure Le uova fatali (Роковые яйца, uscito nel 1925) di Michail Bulgakov - sì, proprio quello de Il maestro e Margherita. Se però volessimo allargare la questione, bisognerebbe andare a studiare la produzione di racconti e romanzi di fantascienza di due autori che del genere, in Russia, sono due classici: Aleksandr Kazancev, ma soprattutto Aleksandr Beljaev, autore di decine di romanzi di fantascienza, morto di fame sotto l'occupazione nazista.

Ma insomma, mentre sorseggio il mio cappuccino scuro con cannella, prendo dallo scaffale questo romanzo, per la precisione Passi nel tempo. L'edizione è del 1988, e andare a leggere la sezione con le recensioni dei film di fantascienza dell'epoca (i film recensiti sono però del 1973 e indicati come «appena usciti»), la posta, il coupon che andava spedito, il profilo dei due autori che invece corrisponde per la cronologia indicata delle loro opere all'anno di edizione, e le Fantanews (insieme di indicazioni di prossime uscite editoriali, coccodrilli, segnalazioni varie, ecc. relative alla fantascienza) è un'esperienza davvero interessante, non solo per la presenza di questo particolare paratesto - raccolto in una sezione intitolata Varietà che segue la fine del romanzo -, ma soprattutto per il mondo concettuale, sociale, estetico e politico cui fanno riferimento i testi.

Il testo scorre nelle pagine su due colonne, come fosse un lunghissimo articolo, e mi sono domandato, mentre leggevo, che effetto potesse fare all'epoca quella particolare composizione tipografica sul lettore. A dispetto del fatto che venne probabilmente scelta perché questi volumi erano venduti nelle edicole e non in libreria - dunque, ma è una mia ipotesi, aveva un suo peso la similitudine con i quotidiani nella composizione tipografica della pagina (qualcosa che oggi potrebbe rientrare in un corso di archeologia della stampa moderna, una sorta di studio "filologico" delle tecnologie di impaginazione) - dopo un pò che leggevo, ho ricordato che spesso anche i manoscritti erano in effetti composti, o meglio, vergati, proprio in due colonne. Dunque una soluzione, nella composizione del testo nella pagina, propria anche del regime chirografico pre-Gutemberg, anche se con tutta probabilità quella soluzione era dovuta sia alla maggiore semplicità nel tracciare righe di testo, sia per risparmiare spazio. Ma non divaghiamo.

In sostanza schiaffo il libro nello zaino e me lo porto a casa. L'altro ieri mi siedo sereno in giardino e me lo divoro in una mattinata di sole e silenzio. Il romanzo si svolge come collage di memorandum, rapporti d'indagine, ricostruzioni di incontri e diario dell'ormai anziano Max Kammerer, ex capo del Dipartimento Eventi Insoliti (EI) della Commissione di Controllo COMCON-2, in un imprecisato futuro remoto. Il vecchio Kammerer sente la necessità di ricostruire le vicende che portarono alla Grande Rivelazione, e di cui lui fu uno dei protagonisti principali. Il genere umano ha colonizzato l'intero sistema solare, più un discreto numero di altri pianeti esterni, entrando in contatto con forme di vita aliene intelligenti, vere e proprie civiltà. Fra queste e il genere umano regna la pace, anche se si intuisce l'opera "civilizzatrice" di alcuni - i cosiddetti Progressori - di cui ha fatto parte il più preparato e tenace collaboratore di Max Kammerer, Toivo Glumov. Nei Progressori mi è parso che si intravedesse una metafora del PCUS (per i più giovani che non conoscono la storia di quegli anni, il PCUS era il Partito Comunista dell'Unione Sovietica, in russo КПСС Коммунистическая партия Советского Союза) e della sua opera di internazionalizzazione del comunismo. La quantità di riferimenti alla vita sociale e politica dell'URSS dell'epoca - come il proliferare di Commissioni, Sezioni, Distaccamenti, Organizzazioni e tutta un'articolata burocrazia ai limiti del kafkiano, anche se spesso con una sua pregnanza (nel libro, per dire, esiste un Istituto delle Stravaganze) - a noi lettori italiani spesso sfugge, a meno di una solida preparazione storico-letteraria relativa all'URSS.

La narrazione, inoltre, non ha le atmosfere sospese, i tempi trasognati e le atmosfere spesso indefinite tipiche della stragrande maggioranza dei romanzi dei due autori russi. La storia, dopotutto, segue un andamento comprensibile, i toni sono spesso asciutti, non c'è una sensazione di impalpabilità del reale così tipicamente strugatskiana. Allo stesso tempo, però, il testo non ha quelle componenti spettacolari tipiche della sci-fiction di matrice statunitense, ma conserva e mette in scena il tono peculiare di una certa fantascienza sovietica, attraversata da rappresentazioni sociali, prima che tecnologiche e da messe in scena di temi ed eventi che mettono in crisi lo statuto delle conoscenze su cosa sia "l'umanità", sulle forme di organizzazione sociale, sui modi di conoscere, sulla reale forma del tempo, del desiderio, ecc. Il fatto tecnologico, infatti, anche in questo romanzo rimane sullo sfondo, fa da paesaggio, funziona come ambientazione nel quale la storia assume tratti specifici. Spesso questo ambiente, pur delineando in maniera impressionistica tecnologie iper-avanguardistiche - nel romanzo compare la cabina T-ZERO, in sostanza un teletrasporto - non rinuncia a dettagli che rimandano a un controllo burocratico esasperante e onnipresente, descritto spesso attraverso dettagli dissonanti (gli schermi futuristici che però hanno stampanti da cui fuoriescono fogli come quelli dei moduli continui a strappo, con i bordi forati...). Per godersi la storia occorre dunque non soffermarsi sulla singola descrizione - come quella, veramente impressionante per un romanzo, relativa alla pratica medica, del tutto inventata, della fukamizzazione (in onore di due sorelle scienziate giapponesi, Natalya e Hosiko Fukami...), una sorta di vaccinazione ipotalamica dell'embrione, effettuata durante la gravidanza per rendere i nascituri più resistenti alla vita nello spazio - ma lasciarsi trasportare dal testo. Per certi versi è la storia di un'investigazione estremamente complessa e difficile, dal risultato assolutamente imprevedibile, almeno per me, e che viola tutti gli standard di quella che è una storia di indagine. Il protagonsita e il co-protagonista, infatti, cercano con grande acume i cosiddetti "Vagabondi", esseri senza un preciso aspetto esteriore che viaggiano nel tempo per influenzare civiltà ritenute meno evolute, o come si chiamano fra loro i Ludens, sia con un richiamo al latino "coloro che giocano", ma soprattutto per assonanza con il russo "persone" , cioè люди (liudi).

L'unica cosa che a volte mi ha dato l'impressione di incompletezza - non conosco l'eventuale edizione "intera" del romanzo e suppongo che spesso questa sensazione sia dovuta anche ai tagli operati dalla redazione di Urania - è la serie di riferimenti dei quali non si capisce l'aggancio, per così dire. Oltre ai tagli al testo, però, ho scoperto in seguito che questi riferimenti sono fatti rispetto ad altre opere dei fratelli Strugatski. Questo romanzo, infatti, conclude una trilogia dedicata al personaggio Maksim Kammerer (il perché nel libro è indicato come Max lo spiego fra poco), composta, in ordine cronologico, da L'isola abitata (in russo Обитаемый остров, uscito in URSS nel 1968 e integralmente nel 1969) e da Lo scarabeo nel formicaio (Жук в муравейнике, pubblicato nel 1980 e vincitore nel 1981 del premio Aelita, istituito dall'allora Unione degli Scrittori della Federazione Russa per gli scrittori di fantascienza).

La sensazione di incompleterzza derivava dunque dal fatto che Passi nel tempo è il finale di una trilogia? Magari fosse solo così! Per spiegarla torno a Max, o meglio, a Maksim Kammerer. La presenza di una versione abbreviata e anglicizzata del nome del protagonista si spiega col fatto che la traduzione del romanzo su cui si basa l'edizione italiana che ho letto, non venne svolta sull'originale in russo, ma su un'altra traduzione, precisamente in inglese. E in inglese il romanzo degli Strugatski era stato tradotto con The Time Wanderers (ulteriormente deformato in Passi nel tempo), ma il titolo originale russo, decisamente più bello e che rende in modo radicalmente più icastico anche la filosofia della storia, era Le onde placano il vento (Волны гасят ветер) - titolo col quale Urania ha infine pubblicato la versione integrale del romanzo il primo marzo di quest'anno.

Ma ancora un altro elemento fa sì che alcuni riferimenti, in particolare ai Progressisti, mi sembrassero poco chiari. Il romanzo fa infatti parte dell'universo narrativo di Universo di Mezzogiorno, che comprende diversi romanzi.

Ecco, dalla scoperta di un piccolo libro su uno scaffale in un bar è sgorgato tutto questo che ho cercato di raccontare e condividere. Principalmente perché quanto ho letto mi è piaciuto. Non ho mai fatto mistero di adorare la letteratura russa, anche quando assume le forme di un preciso genere, perché sa tratteggiare l'animo umano in un modo che non ho incontrato in nessun'altra letteratura, per la costruzione di storie con trame che spesso violano ogni regola di buonsenso e verosimiglianza - si pensi a Cevengur di Andrej Platonov, o per andare sul classico a Le anime morte di Nikolaj Gogol - senza quasi mai scadere nel fastidio che mi ha sempre provocato lo sperimentalismo fine a se stesso.

Ma alla fine di questo testo che spero avrete avuto la pazienza di leggere, mi rendo conto di un'altra cosa. Una cosa che c'entra forse poco o niente con lo specifico romanzo che ho letto, ma parla di un oggetto. L'oggetto libro. Tutta l'esperienza che ho descritto e che è intercorsa fra me e questo oggetto, non può essere circoscritta alla sola lettura, né prima, né durante, né dopo. Su di essa gravita la curiosità personale, legata al tempo di inattività che si rapprende sull'oggetto in questione, alle ragioni del dovermi spostare, al piacere per la componente tattile - a proposito, la carta delle pagine di questo libro possie quella ruvidezza e porosità che probabilmente scomparirà dall'orizzonte delle sensazioni che ogni lettore, fra che so, cento anni, potrà correlare alla lettura stessa - alle sollecitazioni che da quell'oggetto sono fuoriuscite come fuochi d'artificio per la curiosità, che è la bambina felice della mia intelligenza. Ma l'esperienza è stata anche quella di collegarmi, attraverso quell'oggetto, al gesto di chi lo ha depositato là in quel bar, alla foce di chissà quale percorso di vita, ecc. ecc.

Insomma: di quale testo, che possiamo leggere a schermo o su un lettore digitale, come anche io faccio spesso, si può fare e dare un'esperienza così spessa, duratura, profonda, pastosa e allo stesso tempo aperta? L'oggetto libro contiene e spesso mantiene in se, attraverso la materia di cui è composto, lo scorrere del tempo, le tracce eventuali dei lettori, come un palinsesto esistenziale. In questo senso, come tecnologia, il libro è ancora oggi il più stabile strumento di trasmissione del sapere, non tanto per quantità di dati o potenziale di diffusione - qualcosa rispetto al quale non potrà mai competere con la rete - ma per concentrazione, permanenza, capacità di incistarsi nel vissuto. E lo dico mentre con molta malinconia, ma anche con sprazzi di serenità verso un futuro nel quale e del quale sarò veramente alieno, nel viaggio della vita mi sto lentamente liberando di quel migliaio di libri che mi sono sempre riuscito a portare appresso, come fa la lumaca col suo guscio.

Ma s'è fatto tardi, e non voglio approfittare oltre della vostra pazienza.




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