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venerdì 16 dicembre 2016

MIO PADRE


Sorveglio lo scorrere delle mie ore con un senso di smarrimento. A volte di angoscia. In un'epoca d'impegni, competizione ed ambizione, io rimango un indolente, un pigro. Ma mi difetta qualcosa, perché mi faccio prendere dall'ansia. Un vero pigro fa dello sciupio del suo tempo un'arte. A me invece questo spreco rimorde. Mio padre me lo rinfacciava sempre, il tempo perso. Ho fantasticato non so più quante volte su cosa avrei potuto realizzare se invece di ciondolarmi da una fesseria all'altra avessi dedicato il mio tempo a qualcosa, fosse pure la collezione dei tappi di birra... Il tempo è una cartina al tornasole del proprio rapporto con la vita: fa venire fuori tutto quello che non va, esalta gli amori autentici e frustra le passioni non vere, fa brillare di una luce calda ed avvolgente certe azioni, certe attività e invece rivela in tutta la loro pochezza altre. Ed è implacabile perché non si fa corrompere dalla nostra meschinità umana e dalle moine del sentimento: ha un rapporto privilegiato, diretto e immediato, col demone del desiderio.

E già perdo il filo del discorso. Di cosa volevo parlare? Mio padre, esatto, il suo ventre. Mio padre era un uomo imponente, anche se quando scremo il dolore dal suo ricordo, mi viene da dire che era semplicemente grosso, con uno stomaco capiente. E poche persone sapevano farmi sentire in colpa come lui, a proposito del tempo. Lui era disordinato, fanfarone, permaloso e trascurato ed attaccabrighe, eppure le sue passioni sapeva coltivarle con una dedizione cui non faceva ostacolo nulla. Lo ricordo seduto a dipingere i suoi soldatini anche la sera stessa del funerale di mio nonno, suo padre. Come fa un uomo con tale dedizione all'inutilità di un hobby a non farti sentire in colpa?

Quando scesi a Roma e lo andai a visitare, se ne stava sdraiato, con lo schienale del letto rialzato, nel reparto di terapia intensiva. Ma di intensivo, a parte le macchie degli elettrodi del defibrillatore accanto ai capezzoli, aveva come il solito solo il suo ventre. Il ricettacolo pantagruelico di un vita vissuta pienamente. Però quella volta, me lo ricordo, lo sguardo non era baldanzoso, irriverente e strafottente come il solito, no. 'Stavolta s'era veramente messo paura, me lo aveva detto con una semplicità che non gli era mai appartenuta, me lo ricordo come fosse ora. «Ho pensato che fosse finita». Non sembravano neanche parole sue, ma lo erano. Eccome se lo erano. Era un uomo coraggioso e sapeva dare il giusto peso alla paura.

Io avevo la testa fasciata di sonno e mi davano fastidio tutte le persone che si aggiravano per l'ospedale. Eppure, in mezzo a quel dolore ed all'evidenza piuttosto cruda che mio padre aveva avuto un duplice infarto, la mia mente, all'epoca nel pieno del disagio psichico, sembrava tornare a registro, calmarsi, ritrovare le coordinate di se stessa. Si tende a credere che nelle difficoltà, specialmente di fronte ai dolori inconsolabili, ai problemi di salute ed insomma al cospetto di tutto ciò che ci fa sentire impotenti, i propri problemi, le proprie ansie, le proprie debolezze esplodano, in qualche modo vengano fuori in tutta la loro nudità. Per molti è così, per me non lo è stato. Sembrerà paradossale, ma in quei momenti ero una persona assennata, calma e tranquilla.

I dottori, una caratteristica molto comune fra i medici italiani, erano stati non solo evasivi, ma anche sommari ed incompleti nelle loro spiegazioni, quasi non volessero averci nulla a che fare, con questa faccenda. Un modo estremamente cattolico per dirti le cose senza dirtele. L'ho sempre trovato odioso. Sarò anche pigro ed indolente, ma non sono uno stupido: la morale ovattata che anestetizza il dolore con l'ignoranza e l'omissione l'ho sempre detestata dal profondo del cuore, senza riserve. Chi la pratica dovrebbe farsi prete o suora, non certo dottore.

La notte spostano mio padre in un altro reparto di terapia intensiva. In realtà è di nuovo infartato. Sotto la mole del suo corpo il suo cuore si becca un altro colpo. Nessuno me lo dice, ma io credo che già si stessero preparando al peggio. Adesso non so perché ho iniziato a ricordare questo momento parlando del tempo, ma sicuramente ha a che fare con lo scrivere. Lui che non sapeva neanche mettere le doppie e non sapeva scrivere una subordinata con la giusta consecutio, aveva anche scritto un libro. Certo, avevo dovuto sudare sette camicie per rimettere a posto quella scrittura traballante piena di errori d'ortografia ed orrori di sintassi, ma alla fine la storia, nella sua splendida banalità, era avvincente e l'editore glielo aveva pubblicato. Ed io ero stato a guardare, sinceramente ammirato ed invidioso, ché negarlo sarebbe da ipocrita.

Se penso quante volte mi aveva esortato a scrivere! Non ci capiva nulla di cosa mi piaceva e di cosa avrei voluto fare, ma era un uomo essenziale in ogni senso, come si dice: nel bene come nel male. Ed aveva ragione, oggi lo posso candidamente riconoscere. Aveva sempre avuto ragione ogni volta che mi aveva spinto a non sedermi sulle mie accondiscendenti chiappe di pigro sognatore. Doveva averlo capito subito, infatti fin da bambino mi aveva sempre coinvolto in un'infinità di attività e stimolato a fare sempre qualcosa, fosse pure giocare con le costruzioni. Ed appena avevo cominciato a scrivere, mi aveva spinto in ogni maniera a non smettere, a darmi da fare. A crederci. Era un vulcano e spesso l'ho odiato per questo. Era sempre debordante, era dura stargli accanto senza essere un comprimario.

Quando lo andai a trovare nel nuovo reparto non aveva neanche l'ombra della sua solita spensieratezza. Un piano sopra mia madre era ricoverata allo stato terminale del suo cancro ai polmoni, mentre lui, lì sotto, era del tutto consapevole che il suo cuore si stava sfilacciando un infarto via l'altro. Si raccomandava, il futuro si sarebbe incaricato di dimostrare quanto ci avesse visto giusto, di non litigare con le mie sorelle. Chissà perché quando stiamo per morire diventiamo così lucidi e quasi preveggenti. Da questo punto di vista è rassicurante rendersi conto di non capirci un cazzo, della propria vita. Significa, probabilmente, che ancora non è arrivato il nostro momento, forse.

La sua voce era trasfigurata in un tono calmo, dolce come lui sapeva essere ma come in ogni modo nascondeva. Lui aveva capito che sarebbe morto ed io mi consolavo invece al pensiero che anche questa volta ce l'avremmo fatta ed avrei potuto continuare a litigarci come avevo fatto con grande soddisfazione tutta la vita.

Ci avrebbe pensato un chirurgo a togliermi tutti i grilli dalla testa. Fa sempre molta impressione quando incontriamo un dottore che è e si comporta e parla come noi abbiamo sempre pensato che un dottore debba essere e comportarsi e parlare. Chiamarono me e la maggiore delle mie due sorelle più piccole. Entrammo in quel piccolo studio, ci sedemmo e senza molti preamboli il chirurgo ci disse che nostro padre doveva essere operato d'urgenza alle coronarie e che l'intervento era ad alto tasso di mortalità. Mia sorella ammutolì, non prima di aver chiesto, manifestando tutta la sua incredulità, «In che senso?». Il chirurgo spiegò con una certa concitazione il concetto ed io gli risposi che se andava fatto quell'intervento – ed a quanto pare non solo andava fatto ma c'era anche da fare in fretta – che lo facessero, noi ci fidavamo ed avremmo atteso speranzosi. Il chirurgo ribadì l'alto rischio di mortalità, mia sorella aveva le lacrime agli occhi, io mi sentii per la prima volta in vita mia del tutto in prima linea. Mia madre sarebbe morta di lì a tre mesi ed in quel momento era poche decine di metri sopra le nostre teste, dopo aver terminato il suo inutile ciclo di radioterapia, poco prima di essere mandata definitivamente a casa – avrebbe passato i suoi ultimi giorni in un hospice. Mio padre era di là, dall'altro lato del corridoio, pronto per essere spedito in sala operatoria, ed io lì, seduto davanti a quel chirurgo che ci stava spiegando in modo sintetico e chiaro come mio padre sarebbe potuto morire durante o dopo l'intervento che dovevano effettuare. Per di più aveva avuto un altro attacco e dunque lo avrebbero dovuto operare con un infarto in corso.

Terminato quel breve ed esiziale incontro col chirurgo andai di là per salutare mio padre, tenendo a mente le parole del medico che ci aveva raccomandato di non farlo emozionare ché rischiavamo di farlo crepare sul colpo. Poche parole che non ricordo, l'invito fanfarone e sciocco a vederci dopo l'operazione, poi, mentre sulla barella lo portavano via, disse «Un bacio», e sono le ultime parole di mio padre che io ricordi.

Quel giorno sarebbe andato a sfociare in un'alba livida e fredda. Ricordo il caldo della sala d'attesa, il distributore automatico di bevande vicino l'entrata del San Filippo Neri dove passavo tutte le volte che mi andavo a fumare una sigaretta nel freddo della notte, per svegliarmi, per stare un attimo solo con me stesso e la potente impressione che nonostante tutto quello che speravo in testa sentivo letteralmente venir spazzate via tutte le cianfrusaglie con cui tendiamo a mascherare, nascondere e contraffare la certezza della morte come un punto centrale e fermo ed immutabile e vero della nostra esistenza. Nel caso specifico di quella di mio padre. Ed infatti fu così.

Quando l'alba era ancora incerta se far esplodere il giorno o meno, uno dei chirurghi era uscito per venirci a dire che l'operazione era andata bene, ma che dovevano aspettare per vedere se nostro padre, staccato dalle macchine, ce l'avrebbe fatta. La mimica facciale, però, oltre alla stanchezza dopo un'operazione che si era protratta per quasi 12 ore, trasudava quell'incertezza che in medicina tutto vuol dire meno che esito positivo. Rimasi fermo difronte alle porte della sala operatoria come davanti alle porte dell'Ade. Il mio inconscio aveva già scelto il regno al quale mio padre ormai apparteneva. Poco dopo, con viso sconsolato ed umano, il chirurgo venne a dirci che non ce l'aveva fatta, che l'operazione era andata a buon fine, ma che il suo cuore non riusciva più a funzionare da solo. Non avevano potuto farci più nulla. Era morto perché non c'era più modo di farlo vivere.

Ci avevano fatto attendere il minimo necessario a prepararlo per farcelo salutare. Quando entrai si vedeva solo la testa. Il resto del corpo era stato accuratamente coperto. Pareva addormentato, i tratti del viso rilassati ma senza spigolosità, senza l'asciuttezza del cadavere. In quel viso c'era ancora la sua espressione di uomo. Gli diedi un bacio.



2 commenti:

  1. Emiliano, sei splendido. Non è retorica, lo giuro. Me l'hai fatto ririverein modo fantastico.E' lui, in tutti i suoi moti più reali o nascosti. Vorrei che tu ne scrivessi ancora, rievocandolo. Ci sono persone, situazioni che muovono il meglio di noi, quasi lo guidano verso il traguardo. Non sei pigro, forse trattenevi in te la voglia di esprimerti, per paura di non farcela. Forse è stata la sua presenza a bloccarti, Quasi il terrore di non rispondere pienamente alle sue aspettative. Penso che questa sia la volta buona. In bocca al lupo. Lui pensa lo stesso, da lassù. Un abbraccio grande.

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    1. Cara Patrizia, ti ringrazio per l'apprezzamento, specialmente perché so che hai conosciuto mio padre per come era davvero.
      Non so darmi spiegazioni precise del perché stia ricominciando a scrivere, ma certamente non mi fermerò. Un abbraccio a te.

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