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giovedì 13 giugno 2019

QUI SIAMO A BOTTEGA

La mia immaginazione ha sempre per così dire funzionato in maniera rapsodica, per momenti, per sguardi, ed a dire il vero raramente è riuscita a tradursi in ideazione, in un progetto compiuto da realizzare.
Questa immaginazione si è per anni ed anni applicata ed esercitata, con disciplina, costanza ed impegno – questo lo devo riconoscere a me stesso senza alcuna falsa modestia – al linguaggio poetico, realizzandosi nella scrittura di centinaia e centinaia di poesie, diverse delle quali, e non poche, di un qualche autentico pregio.
Ma ho sempre sentito che il potenziale insito in ciascun singolo momento rapsodico della mia immaginazione avrebbe potuto eccedere, e negli anni più recenti lo ha fatto, permettendomi di scrivere un romanzo e pubblicare un saggio, i limiti del linguaggio poetico. In altre parole io so che questa immaginazione ha la forza di tradursi in una forma più distesa, una forma narrativa o di pensiero.
Ma ciascuno di noi deve fare i conti con i propri limiti, se intende trasformarli in una risorsa, più che in una mancanza. Ed io ho capito, da tempo, che la mia immaginazione è in grado di elaborare certe tematiche, certi particolari sguardi, di mostrare alcuni recessi poco frequentati, insomma non irradia una visione chiara e strutturata che automaticamente costituisce il centro della narrazione, ma mi permette di gettare uno sguardo d'insieme, di concentrarmi sui possibili legami fra i vari punti di vista, trasformando questi punti di vista, ognuno col suo proprio “momento” – l'insieme di caratteristiche condensabili in una sorta di puncum barthesiano, ma di natura narrativa – in nuclei narrativi pensati come bolle di immaginazione. E l'unica maniera di articolare in maniera distesa la narrazione della mia immaginazione è quella di far interagire queste bolle, di metterne in scena i movimenti, le interazioni, gli scontri.
In parole semplici cucio le mie storie come coperte patchwork, utilizzando brani, pezzi, lacerti di cose scritte seguendo singoli impulsi immaginativi. Non credo nelle storie lineari, o meglio, non amo scrivere storie che hanno un preciso percorso. Sento più aderenti alle caratteristiche della mia immaginazione scrivere storie in cui non esistono protagonisti unici, in cui non prevale necessariamente una storia. Mi piace scrivere del brulicare, del moltiplicarsi, del sovrapporsi, in un contesto il più possibile ampio, articolato e narrativamente coerente (diciamo la forma e le dimensioni della coperta, per rimanere nella metafora del patchwork).
Il testo che segue, dal titolo passeggero La riassunzione, è un esempio di questo tipo di operazione. Due dei personaggi enucleati sarebbero finiti nel romanzo che scrissi nel 2013-2014 – Il resto di nulla, avrebbe dovuto essere il titolo. Un terzo, invece, sarebbe rimasto intrappolato sulla soglia dell'esplosione, nei limiti di questo testo, anche se di sé ha improntato altri due personaggi non indifferenti della mia immaginazione, due protagionisti sfigati.
La caratteristica principale di questo testo è di arrestarsi sulla soglia dell'abisso senza metterlo in scena, ma avendo raccontato l'accumulo di un carico di violenza enorme. Il linguaggio per innescare questo meccanismo utilizza lo zoom interiore come strumento di focalizzazione ed acutizzazione, in un crescendo di disagio, paura, violenza, confinate però all'interno dei personaggi (la loro vita interiore e le loro percezioni), a farne crescere la pressione interna, per accumulo, appunto. E di far crescere questa tensione interna ai personaggi fino ad un passo dal baratro.
Penso che valga la pena di essere letto, ma non vi aspettate nessun bello scrivere, frasi tornite, tinte tenui o pretese stilistiche. Qui siamo a bottega.






L’abito l’aveva preso alla Romanina, quel centro commerciale di periferia che anni fa fece tanto scalpore e che ora è un posto da borgatari, il parcheggio di giovani e giovanissimi orfani di piazzette ed altri ameni spiazzi di borgata. Vuoi mettere con il Parco Leonardo? L’evoluzione dei centri commerciali era stata spettacolare: da enormi superfici commerciali a vere e proprie architetture del desiderio e dell'interazione. Ormai ci si andava per mangiare, passeggiare, passare il tempo, vedere un film, comperare un libro… Luoghi da vivere, dove il paesaggio era la merce e qualsiasi scambio avveniva all'ombra dei registratori di cassa. E questa evoluzione, su di un altro registro, era andata di pari passo con la trasformzione del lavoro in una merce come un’altra, con allegato il palloso lavoratore di turno, un fastidioso gadget: il costo di un ammennicolo umano. Ora però eravamo oltre l’epoca in cui tutti saremmo stati felicemente impegnati ad incrementare i nostri debiti compulsando come le tette di una troia gli scaffali delle merci, sbirciando le occasioni dell’ennesimo finanziamento come si spia dal buco della serratura, pieni di voglie per l’ultima novità, per l’offerta, per il prodotto che ci sa valorizzare, pronti a virtualizzare l’acquisto, a scegliere il brand più conforme al nostro stile di vita (o viceversa?). Ora, in piena crisi mondiale, questa linea d'evoluzione non smetteva di squadernare i suoi mirabolanti effetti sulla psicologia delle masse. Che come d’uso è una psicologia tra il criminale ed il paranoide, i due registri mentali preferiti da qualsiasi forma di dittatura. Come in ogni periodo buio, le fandonie della religione di turno acquisiscono un potere enorme, come un incantesimo che s'insinua tra neurone e neurone. E la religione del nostro tempo è il mercato, il consumo, la disumanizzazione: i vagiti feroci della reincarnazione del capitalismo moderno. E Paolo, quell’ometto residuale attaccato come l’edera alla parete bitorzoluta e spisciazzata del suo lavoro a tempo (tic-tac…), in qualità di gadget aveva pensato bene di confezionarsi a dovere per l'occasione, ma quell’abito era uno schifo, sintetico al 100% made in Bangladesh, con la fodera che s’incollava sotto le ascelle, il taglio troppo stretto, il cavallo troppo alto, le maniche troppo corte. Per un credente della globalizzazione, un cilicio in offerta speciale. Dentro a quell’abito si raggrumava, sotto l’effetto del calore, dell’umidità e di un malumore acuto e tagliente, il lento scorrere dei giorni e delle ore, come per il latte quando caglia, o quando qualcuno ti fa venire il latte ai coglioni. L’odore fetente del vomito rappreso.. Solo che al posto del latte e del vomito Paolo aveva un bisogno disperato di essere riassunto, di avere un rinnovo in quel porcoddio di lavoro. Della sua fede nel mercato rimaneva solo la speranza, un articolo di fede per disperati, appunto. Ne aveva bisogno perché l’alternativa era rimanere senza lavoro, essere costretto a tornare a casa dei suoi, sotto lo sguardo affettuoso e tagliente della madre, sotto quello perplesso del padre che ormai lo compativa apertamente. L'alternativa era la sconfitta, e per gli adepti del capitale non c'è situazione più inaccettabile, per quanto credano in un mostro che vive di dolore e sopraffazione. Ce la doveva fare! e se lo ripeteva come un mantra per sfigati, una tecnica motvazionale scarnificata fino alla superficie della scatola cranica, dove sotto sotto si gratta l’osso del cervello.. Ne aveva bisogno per non dover sempre stare a stecchetto, per non doversi far allungare i soldi da sua nonna a trent’anni passati. Ne aveva bisogno perché quella merda di lavoro – il suo come quello di milioni di sfruttati come lui, ma ciascuno nella sua disgrazia è solo e dunque a fare in culo la solidarietà da zecche – era l’unico diaframma fra sé e la disoccupazione, tantopiù ora con 'sta cazzo di deflazione crisi recessione, colle banche pasturate da quell'ometto di plastica, le bande di politici che scialavano in appartamenti, orge e mazzette e le maree d'extracomunitari pronti ad incularti il lavoro al ribasso. Che poi disoccupazione in Italia – il regno degli eufemismi e degli ignoranti – è il nome statistico della povertà. Lui non si sentiva un eufemismo, e per quanto ignorante, comunque ci stava bene nella pellaccia italiota. Certe domande non è che non era disposto a farsele: proprio non ci pensava. Quando ancora aveva voglia e modo di andare allo stadio, un bel forza Juve lo faceva sentire orgoglioso.
Dopo aver passato tutti i gironi della contrattualistica di lavoro contemporanea, come a dire un gioco dell'oca all'inferno, era alla stretta finale, anche se pensare quell'occasione, avrebbe detto un tempo, come approdo finale, bhé, aveva un retrogusto rancido. Aveva avuto fegato il Paolo, il fegato marcio di tutti i lavoratori di questo nuovo millennio. Era uno che veniva da una stirpe di sgobboni, lui. Prima contadini, poi operai inurbati, e poi lui, il prodotto raffinato di due generazioni di bucio di culo e di sacrifici. Il distillato contadino e proletario tipico dell'Italia: il piccolo borghese. E quindi il grande salto, l’Università, la laurea, le belle speranze covate in famiglia. Covate come un passero cova l'uovo di un cuculo... Anni di precariato – ma lui ci credeva, cazzo se ci credeva quando aveva discusso la sua tesi di laurea sulla New Economy! – anni di progressivo smantellamento delle speranze. Oggi guadagnava meno di quanto aveva guadagnato appena laureato, fresco di ideologia, con la sua brava partita iva – aperta per essere ammesso fra i collaboratori di uno studio di consulenza che gli elargiva le briciole – pieno di volontà, desiderio di competere, voglia di darle e nessuna paura di prenderle, manco la vita fosse un ring. Ma ora era alla stretta, ring dell'ultimo round. E lui era malfermo sulle gambe e con la guardia un po’ bassa, per rimanere dentro le corde della metafora pugilistica. Assieme ai fronzoli erano sparite le illusioni, sostituite dagli occhi tumefatti che sono quel che resta al risveglio dalle pie illusioni. 'Sti cazzi delle speranze, delle competenze, del catechismo confindustriale... Era alla fine dell'ennesimo rinnovo consecutivo di un contratto a tempo, con i dovuti stop and go per evitare l'assunzione definitiva, e già questa situazione, vista la baldanza iniziale, era di per sé una mezza debacle psicologica, l'implicita ammissione di un errore dalle dimensioni così enormi da spezzare in due la schiena della sua vita. Dopo anni di declino in cui lo spettro della disoccupazione si allungava su di lui come un’ombra gelata… La sola parola disoccupazione lo raggelava perché rendeva vere e solide le parole di suo padre, un uomo dalle mani che erano la testimonianza di una vita di lavoro vero, quello in cui producevi qualcosa, fossero prosciutti, forme di formaggio o tubi d’acciaio e macchine del gas. Parole dure. Lo dovevano quindi assumere! Sì, lui, Paolo Terenzi, ora augurava a se stesso quella che aveva definito una “posizione contrattualista demotivante”. Grattata via l’ideologa, la furbizia, le scorte di denaro, la dignità personale, l’ammissione di non essere stato capace di saltare sul carro dei vincitori quando era il caso (o di non esserci proprio tagliato, il che era qualcosa di ancora più deprimente), ormai il suo orizzonte prossimo si restringeva a quella fessura, a quel taglio di luce che le sue speranze proiettavano sul suo futuro prossimo. Già, perché di suo, praticamente, aveva solo la disperazione del futuro. Oltre a centotrentaeuro in banca, una macchina scassata che usava col contagocce e che voleva vendere. Ed una voglia matta.
Accade sempre in un modo tale per cui quando ci si ritrova senza un cazzo ci si domanda “Ma come è stato possibile?”. Dal risparmio si passa alla necessità e dalla necessità si prende il volo per le lande grigie della soglia della povertà, quando misuri il peso di un biglietto per andare al cinema sul tuo magro salario, quando vorresti portare un mazzo di fiori alla tua bella, ma costano troppo, ed allora ripieghi su sfigatissimi baci perugina, ché pure quelli mica te li regalano…
Ma Paolo è un duro, ha visto i suoi colleghi esuberati, ridislocati, licenziati come vuoti a perdere, senza neppure il soldino che una volta ti davano quando riportavi le bottiglie di vetro al negoziante. E non ha battuto ciglio. Aggrappato alle sue competenze, aggrappato alla sua fedeltà, aggrappato alla saliva ingoiata, saliva sempre più amara. Ed è rimasto al suo posto, disposto anche ora a recitare le litanie ed i rituali del bravo precario, a leccare, a servire, campione inesausto dell’italica virtù del servilismo. Tutta la merda che c’era da buttare giù, l’aveva deglutita, fedele solo al pensiero di poter almeno ottenere un'assunzione a tempo indeterminato. Aveva fatto sue tutte le nostre meschine virtù patriottarde. Disposto cioè anche a barattare la sua dignità con un contratto che ne svilisse il profilo, che lo riducesse al classico impiegato che tanto aveva disprezzato, ai tempi delle belle camicie blu elettrico col nodone, i tempi dell’autoimprenditorialità. I tempi quando davanti alla macchinetta del caffè si magnificava il genio berlusconiano, lo schiaffo in faccia al popolo parassita e pezzente, in nome della libertà d’impresa, dei self-made man. Le bordate a pallettoni contro i sindacati, quella zavorra fatta solo per tutelare gli scansafatiche, quelli che oggi giustamente si dovevano tartassare, i fannulloni!. Bei tempi, tempi in cui non ti rendevi conto di essere un’avanguardia, sì, il battaglione degli immortali di un Serse di cartapesta, anzi, di carta stampata e televisioni, l’avanguardia che apriva la strada allo sfacelo. La strada verso il tuo proprio culo. Che invece avrebbe dovuto essere parato meglio, difeso, protetto. Com'era normale, schifosamente normale che dovesse essere. Ed invece no! Non bisognava avere paura del cambiamento. Solo che il cambiamento aveva ora la piacevolezza di una fodera di qualità scadente, confezionata da mani di ancor più sfigati lavoratori asiatici e che surriscaldata gli si incollava tra le gambe in un trionfo di scroto urticato, di sudore acido. Aveva pure l’alito pesante e una barba fatta maledettamente male.
E oggi Paolo sente solo che quella merda di vestito lo fa sentire un fallito, seduto su quella poltroncina sintetica, accanto alla pianta di plastica nel micro atrio davanti l'ufficio di Marco Colletti, il titolare, il capo, il boss. Sente che anche il centro commerciale dove ha comperato la sua uniforme da soldatino fa schifo e che lui, anche con tutta la paura del mondo, se tornasse indietro rifarebbe tutto, sì, perché l’alternativa sarebbe essere una zecca, un pezzo di merda comunista, essere uno di quei merdosi filoislamici, imboscarsi nel sindacato – e come poi che manco gli era riuscito di conoscerli i sindacalisti? – insomma negare se stesso. No. Impossibile rimangiarsi le proprie convinzioni sulle quali aveva costruito la sua vita, la sua personale rivolta contro un padre che lanciava bestemmie al tempo presente dal fondo della sua impotenza, che continuava a glorificare i tempi in cui era stato una tuta blu, un operaio comunista, ed anche contro gli amici del quartiere che prima lo avevano isolato e poi decisamente mandato a fare in culo. Buttarsi via per la causa, questo sì, anche con rabbia, anche con delusione, con l’intuito per la catastrofe tipico dei perdenti, ma mai tornare indietro. Anche se questo aveva significato rendersi conto delle scelte sbagliate, ma obbligate, verso il nuovo. Ed il nuovo aveva il nome dell'attuale crisi. Il nuovo aveva vinto. Solo che lui che aveva votato, aveva urlato, aveva leccato, lui che aveva spinto, sgomitato, predicato... adesso che aveva vinto si sentiva alla frutta. Anzi, al conto. E non voleva pensare a come poterlo pagare.
L’incontro col titolare – “per la sua riassunzione a tempo indeterminato”, si recitava come una preghiera in testa – era imminente, e Paolo fremeva. Si sentiva bruciare a dispetto delle asettiche luci al neon in sala d'attesa, del dispenser d'acqua, del semplice fatto che avrebbe potuto tranquillamente andare un minuto al bagno a rinfrescarsi. Come le braci che si riattizzano col vento, quel colloquio gli diceva che aveva fatto bene a tirare dritto ed a passare senza una lacrima in quel tritacarne di licenziamenti che era stata l'azienda negli ultimi due anni. Aveva spacciato quell’incontro a genitori ed amici come una formalità, una stretta di mano che sugellava finalmente l’ingresso nell’istituto, la sua realizzzione professionale. Magra, ma cazzo, l’avrebbe agguantata, mica come quei drogati dell'Università, quei parassiti dediti a succhiare soldi a chi produceva. Aveva sondato discretamente che aria tirava, e discretamente gli avevano fatto capire di stare tranquillo, che non doveva agitarsi. Low profile, e Paolo tranquillo ci stava, andava in filiale sereno, sgobbava come il solito, aiutava, si prestava, copriva i turni; gli ci mancava la branda per dormire nel suo ufficietto. Solita prostituzione lavorativa, niente di eccezionale. D’altra parte consolidare la propria posizione significava anche questo, significava prostituirsi, o con terminologia più gentile essere motivati, credere nel lavoro di squadra (mio dio, quante volte aveva recitato quest’altro articolo di fede?)... ed i pensieri neri, quelli senza nome e senza viso, i pensieri del sottosuolo, iniziano a fuggire dalle fogne del suo cervello e gli si aggrovigliano dentro come uno sciame di mosconi, un brulicare di scarafaggi.

Entra Serena, la signorina Arienti, segretaria personale di Colletti, una sventola di donna. Lo guarda come sempre con un misto di freddezza e sufficienza, un'espressione che un tempo lo aveva gasato, eccitato – poche seghe s'era sparato pensando a lei! – «Terenzi, si accomodi, il dottor Colletti l'aspetta». E senza una parola, la bocca asciutta, la gola secca e sudato da far schifo, Paolo si alza, con la costante e fastidiosa sensazione della fodera sintetica che gli si appiccica tra le gambe. Senza alcun motivo apparente, e su questa parola, nella sua mente, si concentrano tutti gli sforzi per “avere un pensiero positivo”, sente di non dover cedere all'irrazionale. Sfilando il corridoio sulla destra, a pochi passi dalla porta oltre la quale si decide di lui – la fugace e rapidissima succesione dei pensieri e delle immagini relative ad un suo futuro come dipendente dello studio a tempo indeterminato lo fa arrivare anche ad immaginarsi di mettere una mano sulla spalla di suo padre e ridere insieme – avverte come una fitta dentro il cranio. Una fitta che si traduce in un buco dentro di lui. Paura? Ha come l'impressione che nugoli di tafani impazziti ne escano fuori: un brusio enorme che gli cresce nelle orecchie, come l’alluvione che s’ingolfa nei sotterranei ed inizia a risalire attraverso fognature, condotti e tubature. I topi scappani dai recessi, il fetore sale…
La Arienti bussa leggermente alla porta. Dall'altra parte si sente un “avanti prego” smorzato ed insofferente. Milioni di piccole ali che ronzano. Un fremito costante di sottofondo che si diffonde dentro la sua scatola cranica.
Arianna apre la porta e facendo cenno a Paolo di entrare s'inchina leggermente protendendo la testa in avanti. Involontariamente gli occhi di Paolo cadono nella scollatura di lei. E nota per la prima volta da quando era lì, che non porta il reggiseno ed ha due belle tette con i capezzoli carnosi e un po’ scuri. Il ronzìo si gonfia e s’inferocisce. Vorrebbe infilare una mano in quel decolté per palpare la consistenza delle sue aspettative. Quelle di una vita che non sia sopravvivere, ma mordere con avidità. Entra nell’ufficio mentre la segretaria del direttore gli socchiude la porta alle spalle, mandandolo mentalmente a fare in culo. Uno delle decine di ometti senza palle che passano per l’ufficio di quell’uomo. Arianna Arienti è una di quelle donne che ha interpretato la lotta di tutti contro tutti che è oggi il mondo in cui viviamo, in un modo molto semplice: stare sempre dalla parte di chi ha il potere. E rimanerci attaccata quanto più a lungo, con ogni mezzo, al di là del bene e del male, in una versione feroce e spietata del motto nicciano. Non sa però che se l’amoralità è una categoria politica prima ancora che morale, il passo successivo è che la violenza – la quale di per sé è strumentale quando viene esercitata secondo un fine ed un progetto (categoria del politico), o è fine a sé stessa e dunque assertrice di autoritarismo e violenza come cardini centrali del potere (categoria del diritto) – quando vengono rase al suolo le illusioni che costituiscono il multipalcoscenico della vita cosiddetta civile (il famoso disagio della civiltà), assume la forma di un desiderio assoluto, è la terra ed il mare ed il cielo senza fine che stanno oltre questo estremo e fragile dominio “umano”, è il grido genetico della selezione naturale, vita o morte, la componente elicoidale della nostra esistenza: attacca, scappa, difenditi. Combatti o muori. Nen lo sa, ma di lì a poco ne vivrà fino in fondo l’accecante verità.
«Buon giorno dott. Colletti». Si potrebbe dire che sia la sua bocca da sola ad esclmare con un entusiasmo automatico ed asettico queste parole, mentre Paolo rimane impalato, in piedi con le spalle alla porta, con lo sguardo che vorrebbe essere vivace, ed invece cova il terrore. E sotto il terrore il ronzio aumenta, facendogli vibrare il fondo degli occhi come un crescente bradisismo. Ha appena chiuso la porta ma senza quasi rendersene conto ha già perso il controllo di una parte di sé, per l’esattezza quella che ha capito la catastrofe imminente con l’olfatto tipico delle bestie, della bestia che siamo, e tenta di fuggire, ma non può, chiusa nel perimetro biologico di un corpo ancora controllato dagli strati frontali della corteccia cerebrale, quei trascurabili diecimila anni di evoluzione recenti. L’animalità però strepita, sciama via, scappa. E si è già resa conto, però, che non ci sono vie di fuga…
«Buon giorno a lei Paolo...», gli fa di rimando l'uomo che rimane assorto e seduto dietro la sua scrivania. La figura del suo capo gli ha sempre rammentato, alla lontana, le statue degli imperatori: una persona a suo modo piena d’autorità, di calma e forza. Almeno al primo impatto. Poi però quando venivano messi a fuoco i dettagli emergeva una personalità di cartapesta: dall’abito sartoriale ai gemelli d’oro bianco, l’aria azzimata ma allo stesso tempo plasmata dal sudore delle palestre per rampanti che sono saliti da poco sul dorso dei cinquanta, l’abbronzatura eccessiva che sapeva tanto di lampada (certo, magari in un esclusivo solarium dei Parioli), le meches… oggi questi dettagli sembrano a Paolo grotteschi nella loro mostruosa evidenza. Un marchio d’infamia e di rapina. Alle spalle di Colletti, come un fondale metaforico, le vetrate dell’ufficio si aprono sulla campagna romana, là dove i tentacoli della periferia non sono ancora del tutto arrivati con le loro metastasi di cemento e cantieri, là dove lui, quell’individuo che ora chissà come mai emana un’odore di preda, non è ancora arrivato coi suoi traffici. Quelli ai quali Paolo sta per affidare il suo futuro, che in una frazione di secondo, nel baluginio della luce sui vetri, si dispone nella massima apertura possibile, ovvero diviene incerto. L’incipit di tutto quello che, tempo qualche altro minuto, sta per accadere, però, lo dà quel «Buon giorno a lei Paolo...» impastato con quel tono a metà tra la sufficienza e l'indolenza in cui anche un micragnoso buongiorno, alle orecchie di paurosi e ricattabili, suona come un'elemosina di gentilezza. Quel gesto sonoro di elemosinare un buongiorno che si nutre solo dell’emissione vocale e di nessuna partecipazione, foss’anche quella dell’affettazione, colpisce l’animo di Paolo come un sordo e profondo gong. Inizio primo ed ultimo round. Le onde sonore di quel colpo si diffondono in lui come quelle che si allargano sotto il pelo dell'acqua, in lui già attraversato dai ronzii di calabroni e tafani che l’ippocampo non è più riuscito a serrare nelle sue capienti e buie stive e che hanno attivato l’amigdala che sta diffondendo il suo messaggio da cervello rettile nel sistema nervoso centrale, con lo stesso effetto di un’onda di terremoto in fondo al mare. Al largo della sua coscienza si forma un’onda anomala, che in un breve arco di tempo s’infrangerà sulla sua vita ed in quell’ufficio con la violenza di uno tsunami.

Qui però occorre fare qualche passo indietro, non molti, diciamo venti, trenta minuti prima, proprio mentre il dott. Colletti (in realtà ragioniere, ma in cima al gruzzolo non indifferente che aveva raggranellato con le sue molteplici, frenetiche e mai del tutto trasparenti attività nell’ambito della compravendita immobiliare e della consulenza legale, si era potuto dare una vernice di rispettabilità sotto vari aspetti) sta per rispondere al cellulare, quello, per inciso, sul quale riceve solo le telefonate importanti. Un numero più che riservato. Lo avevano solo i suoi contatti in paradiso, come diceva lui scherzando. Su quel telefono passavano le comunicazioni che davano linfa al suo business. Esiste un vario ed articolato mondo, fatto di personaggi di seconda o addirittura terza e quarta fila, che ruota attorno ed attraverso la politica, gli affari. A volte i personaggi in questione non sono neppure nelle file più defilate: semplicemente sono ombre, passi discreti che scorrono altrove mentre il politico di punta fa la sua conferenza stampa, parole dette lontano da orecchie e cimici indiscrete, dentro saloni affrescati in palazzi di proprietà della curia, o in ville appartate, oppure in qualche anonimo e ben curato appartamento la cui proprietà finale, o perlomeno l’uso garantito, potrebbe risultare, dopotutto, tra le dipendenze del ministero degli Interni in una delle sue numerose e non sempre ufficiali articolazioni. Colletti era stato bravo, discreto, intelligente abbastanza da capire che l’unico modo di non far sentire la puzza delle sue origini non proprio elevate, il suo essere un pivello appena arrivato, almeno rispetto a certi banchetti, era di stare al suo posto, di fare quello che gli si chiedeva di fare, di non provarci nemmeno a vantare certi contatti. Dopotutto era uno che non sgomitava troppo, non dava troppo a vedere, e soprattutto aveva il buon gusto e l’intelligenza di stare zitto quando non doveva parlare. Insomma: era un affidabile e discreto factotum. Questa sua efficienza e discrezione lo facevano tenere in buona considerazione presso certi ambienti. Esattamente quelli che vivono, si muovono e lavorano e fanno affari in quella che un tempo si sarebbe chiamata “la zona grigia” tra legalità ed illegalità, ufficialità ed ufficiosità, politica e criminalità. In pratica quella che oggi costituisce l’intelligenza diffusa, il vivo proliferare di differenti centri d’interessi in perenne lotta tra di loro, la struttura portante del potere attuale in Italia: una melassa informale che ingloba ed avvolge e digerisce come un blob qualsiasi aspetto della vita economica, politica e sociale che ambisca a sollevarsi dalla mera sopravvivenza dei vari tizio caio e sempronio di turno, o, nel caso del nostro eroe, Paolo Terenzi. Stare dentro questa melassa non era affatto un gioco, ma dava le sue soddisfazioni. E ci si poteva cavare un mucchio di soldi. Anzi, ci si cavava un mucchio di soldi. E non solo.
Marco Colletti quindi porta all’orecchio il cellulare, con quel filo di controllato disagio che dopotutto prova ogni volta che risponde a quel numero, un misto di emozione, adrenalina, speranza ma anche un filo di paura. «Pronto, buongiorno!», esclama senza neppure sognarsi di dire “Chi è” come farebbe qualsiasi persona normale rispondendo al proprio telefono. Breve silenzio… Il filo si tende e s’ingrossa nella testa di Colletti… «Pronto… buongiorno», ripete leggermente esitante. «Oggi tu doveva pagare qualcosa vero?» dice calma una voce dal pesantissimo accento dell’est. Il fiato del direttore della Investimenti Roma SpA si fa roco, “Come cazzo è possibile…!?” gli dice una voce nella testa, “Come cazzo hanno avuto questo numero…!?”, e mentre questi pensieri si formano nella sua testa ingombra da quello che era un filo di paura ed ora si sta trasformando in una cima da ormeggio per transatlantici, la voce al telefono, calma e con una costante nota minacciosa di fondo, ripete: «Noi avevamo accordo amico, tu questo lo sai vero?». Colletti galleggia per qualche secondo nel vuoto pneumatico che si è aperto intorno a lui come una bolla, riesce perfino ad udire il battito del suo cuore che rallenta, mentre la corda di paura si è animata, scende dalle orecchie e comincia a serrargli la gola come un cappio… «Non vuoi parlare, bene, parlo io, nema problema. Noi abbiamo fatto molto bene favori a te, tutto quello che volevi, noi precisi. Ora però tu fai furbo, e questo non va bene. Sai dove e sai come. Questa sera vieni e tutto finisce. Dire va bene!». Colletti deglutisce un bolo di saliva che sembra fatto di sabbia secca e vetro, e con una voce che non riesce a capire da dove gli venga fuori, risponde: «Va bene, a stasera, risolviamo tutto…», non fa a tempo a terminare del tutto la frase che l’altro, scandendo con durezza e sempre col solito tono calmo le parole, dice «Spero per te, amico.», ed attacca, lasciandolo con il telefonino a mezz’aria, vicino all’orecchio. Il tempo che trascorre tra la chiusura della comunicazione ed il lento movimento con cui Marco poggia il cellulare davanti a se sull’ampia scrivania d’acciaio cromato e vetro brunito, tenendoci una mano sopra quasi per nasconderlo, sembra un’eternità. Un tempo dilatato in cui gli occhi di Marco si muovono a guardare quello che lo circonda, valutando solo, per il momento, la gravità del rischio, la pericolosità della situazione, e soprattutto le sue reali disponibilità economiche immediate… Ripercorre la catena degli eventi, i favori chiesti ed ottenuti, le promesse, i magheggi e gli affarucci meno limpidi. Ed istintivamente, ancor prima di aver terminato la ricostruzione, con quello che Pascal avrebbe chiamato esprit de finesse, coglie l’essenza del suo errore: non è voluto stare al suo posto, e non tanto rispetto ai suoi santi in paradiso, no, ma con questi cani rabbiosi, questi delinquenti, questi pezzenti… già, pezzenti che però, chissà come, avevano il suo numero, quel numero, e quindi, cazzo, tanto pezzenti non dovevano essere, non potevano essere…
I pezzenti che tanto pezzenti non dovevano essere erano alcuni cani radagi, o almeno così gli era sembrato di poterli catalogare, che gli avevano fatto diversi favori, diciamo così: far sgomberare persone dagli immobili rilevati da ristrutturare, impedire, per così dire, ad alcuni piccoli concorrenti di dare troppo fastidio, rendere più malleabili alcuni proprietari di terreni, ammorbidire le idee troppo rigide di qualche fornitore o cliente. Lo sporco braccio secolare di un sacro potere di cui lui era uno degli officianti. Non ricorreva a loro spesso, questo era vero, ma quando era stato il momento, non avevano mai mancato di accontentarlo, precisi e puntuali, oltre che efficaci ed efficienti. Solo che col tempo le loro richieste in termini di soldi erano aumentate. Da banali pretoriani al suo servizio avevano però preso consapevolezza del loro ruolo, valutando senza imperizia che i loro favori, in un paese come l’Italia, per un personaggio come lui, erano molto preziosi, più di quanto lui stesso credesse. Ripassando i ricordi – per un uomo nella sua posizione avere una memoria di ferro è un requisito fondamentale – notava che dai primi contatti erano via via migliorati sia i loro modi, sia il loro abbigliamento. Da evidenti manovali del crimine a qualcosa di più presentabile. Certo, sempre con quell’odore ferino di assassini ripuliti, con quelle decise rughe attorno agli occhi, le mani con le unghie sempre troppo corte e le dita troppo tozze, sempre con un italiano approsimativo, ma più ripuliti. Più in grana. Gli avevano fatto parecchi favori, sempre ben retribuiti, e mai un problema, ma negli ultmi tempi Colletti, che anche se era uno che sapeva stare al suo posto non voleva diventare l’ennesmo qualunque, ma almeno crearsi una sua autonomia, un suo spazio di manovra, era ricorso a loro in diverse occasioni, e non solo del tipo problem solving, in altre parole fare in fretta quello che legalmente avrebbe richiesto tempi inaccettabili alla dinamica del denaro e del potere, ma anche per scopi, diciamo così, ricreativi. Poche parole in un garage, se lo ricordava ancora: «Se serve donne, droga, chiedi pure amico, noi non siamo albanesi che fa rapina in villa, credi a me. Io mai ho mentito, signor Colletti…? Noi facciamo buoni affari: tu con noi, noi con te. Possiamo fare affari più buoni…». Così gli aveva detto il tipo che pareva essere il capo, uno con due occhi spaventosamente scuri e bui e profondi e mani che a vederle uscire dalla manica di un indumento poco più elegante di una maglietta facevano anche più paura… E lui di affari “più buoni” ne aveva fatti eccome. Al consigliere regionale col vizietto aveva procurato quel che gli occorrerva, rosa e purissima. Al giudice con la fregola aveva fatto scaricare la coscienza attraverso canali più naturali che il diritto… Ma queste erano cose non enormi, non troppo vistose. Ma non riusciva a capire come fosse finito nelle loro mani “quel” numero…In realtà quello che probabilmente era stato un passo un po’ troppo in là, sebbene sulle prime non avesse avuto la prontezza di fare quel collegamento, quel passettino falso un tantino di troppo rispetto alla sua posizione, era stato il ricevimento nella sua villa a via della Giustiniana, anche perché quella volta erano venute persone che conosceva solo per interposta persona, attraverso i suoi santi in paradiso, molti dei quali avevano comunque fatto capolino, e al seguito erano venuti anche anche nuovi visi e personaggi all’apparenza dimessi. E lì gli era stato chiesto un favore da uno dei suoi santi in paradiso, quello di mettere a disposizione di alcuni di quei signori lo studio appartato, quello con la parete a vetrate che dava sul parco dove una fila di pini marittimi cresceva giusto sul ciglio dello scollinamento che digradava in un prato a perdita d’occhio. Il suo studio in cambio dell’apertura di un conto off-shore sul quale attraverso una delle sue molteplici scatole cinesi sarebbero dovute passare alcune transazioni rispetto alle quali si imponevano esigenze di estrema riservatezza, come gli era stato fatto capire con uno sguardo amichevole dietro il quale si ergeva un muro di spietatezza fomale. Armi, per la precisione, per il supporto a non ben definite unità di non aveva capito bene cosa. In ogni caso armi, questa era la parola che gli era rimasta infitta nel cervello. Avrebbe avuto il suo vantaggio, certamente, su questo gli era stato assicurato che non ci sarebbero state scorrettezze, a breve sarebbe stato formalizzato il tutto. Lo aveva tirato dentro ad un affare più grande di lui. Non era stato scelto perché affidabile. Era stato usato perché non poteva dire di no. Ed il grazie di uno di quei signori così silenziosi e defilati, in onore dei quali il suo studio era stato trasformato in luogo di certi affari, aveva un accento esotico ma per niente piacevole, così come la consistenza della sua stretta di mano. Una mano incongrua rispetto all’abbigliamento. Curata certo. Ma mano da guerra, non da ufficio, mano da mitra, non da penna. Una mano che lui non poteva saperlo, ma anni ed anni prima aveva stretto anche quelle dei miliziani dell'UCK…
Tutto questo era accaduto quasi un anno prima, anno durante il quale con discrezione ma con crescenti volumi di denaro, l’attività del conto era stata sempre accorta. E da quel fiume carsico che scorreva nei canali sotterranei del sistema bancario, per vie più che traverse, anche lui aveva tratto la sua bella sporta in termini non tanto di denaro, ma di agganci, di contatti, di commesse. Un mondo leggermente differente da quello in cui Colletti era uso muoversi. Eppure quella leggera differenza faceva, a quei livelli e secondo le regole della scala delle grandezze, una grande differenza. Ed in quella differenza Marco Colletti aveva commesso, aveva dovuto commettere qualche stupido errore di cui non riusciva a tracciare il profilo. Almeno non in un lasso di tempo così breve. Ma una cosa era ora certa. L’unico canale attraverso il quale “quel” numero era potuto cadere nelle mani di Jimmi l’albanese – o come diamine si chiamava il tipo che quando glielo aveva presentato un altro suo amico, dal loden verde fuori moda quanto i suoi modi ma molto ben inserito dove occorreva essere inserito – era il canale aperto dopo quell’affare. Un canale fatto di alcuni viaggi in Montenegro ed in Kosovo, di giri tra il Liechtenstein e le isole Vergini, dove le incognite erano molte di più di quelle a cui era abituato. Dove le mani da stringere erano divenute, sempre più spesso, mani inquietanti nella loro forza e nell’evidenza della loro attività più propria: la guerra.
Mani come quelle che l’avevano impressionato tanto in quel garage. Lo stesso tipo di mani, lo stesso tipo di uomini. Ecco come cazzo avevano avuto “quel” numero!

Ed ora rimandiamo avanti, mezz’ora dopo circa, tentando di tenere intatte le interne reciproche tensioni, gli scenari di vita o di morte, di disperazione e di angoscia che ciascuno dei due sta sviluppando dentro di sé. Uno che ha covato l’uovo malefico di questo momento con cure maniacali e quasi perverse e sente di aver covato la catastrofe della propria vita, il mostro che lo sta per ingoiare, e l’altro che come un ballerino abituato a passi precisi e veloci, sente che sta invece perdendo in brevissimo tempo l’equilibrio per un’errore di ritmo, di equilibrio, di esatta posizione dei piedi, e sta per cadere giù da un precipizio, se gli va bene.
Paolo Terenzi in piedi con alle spalle la porta chiusa, come a dire che indietro non si torna, così come lo abbiamo lasciato, sul ciglio di un baratro che si è già aperto in lui e Marco Colletti seduto difronte, Marco Colletti che non fa neppure finta di alzare la testa per salutarlo e strascica indolentemente e quasi senza pensare le parole, saturo di impazienza e bisogno di trovare una soluzione che gli pari il culo rispetto alla parte che ha omesso di dirsi nella precedente ricostruzione (il tentativo cioè di crearsi una sua capacità di manovra, ovvero facendo il furbo su quei passaggi di denaro, ovvero sottraendo, stornando, diversificando, maneggiando, pensando ancora di avere a che fare con gli edili romani o i bancari di casa nostra, o con gli appalti a mazzette e festini… ), o molto più plausibilmente gli salvi la vita – ed anche questo, così come a Paolo, glielo dice una parte della sua coscienza che ha già snasato il pericolo incombente ed inevitabile; solo che nell’imprevedibilità stupendamente creatrice della vita l’allarme è giusto, certamente, ed anche il pericolo. Solo che stanno per arrivare nel momento e dalla persona sbagliati.

1 commento:

  1. Complimenti,Emiliano. Hai una capacità descrittiva e narrativa davvero notevole.Mi sembra quasi di conoscerlo,Paolo...Ancora complimenti. 😀

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