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venerdì 12 ottobre 2018

ELEMOSINARE E BALLARE - Un capitolo a caso di Curriculum Vitae

Quello che segue è un capitolo a caso di uno dei miei ennesimi romanzi incompiuti - aspettate solo che invecchi, forse sarà quella la mia vera età d'oro. Ne scrissi alcune parti appena arrivato qua a Milano, poi si arenò, come un po' troppe cose all'epoca, ormai 12  anni fa. Diciamo che fu più per la mia inconcludenza che altro. Il titolo di questo romanzo avrebbe dovuto essere "Curriculum vitae". L'intento era quello di offrire una specie di bestiario lavorativo della vita di un giovane italiano.
Ogni capitolo avrebbe narrato un'esperienza di lavoro tra tutte quelle fatte in vita mia (non poche davvero...), dalle più serie alle più bislacche. Ne scrissi una ventina, per capirci.

Qui stiamo ancora all'inizio dell'opera, che banalmente avrebbe dovuto seguire un ordine meramente cronologico, anche se l'esperienza di cui parlo - avevo diciassette anni - costituisce l'ouverture di gran parte delle tematiche che avrebbero sostanziato la mia vita e il mio rapporto con il lavoro, ovvero un mix di randagismo, scazzo, insofferenza, sogni ad occhi aperti e voglia di divertirmi.






Se una cosa fu costante per tanti anni nella mia vita familiare, quella furono, manco a farlo apposta, le vacanze. I miei incoerenti genitori avevano un amore sfegatato per il campeggio. Ancora oggi per me le vacanze sono sinonimo di tenda, di vita all'aperto e posso dire di aver sempre visto con imbarazzo il dormire in alberghi o pensioni durante le ferie. Ho imparato a montare la tenda, a cucinare sul fuoco e ad accenderlo, a lavarmi con l'acqua di mare ed a selezionare il bagaglio - al contrario della tendenza un po' zingaresca dei miei, capaci di caricare la macchina peggio di quelle dei contadini dell'Arkansas che se ne andavano in California (do you remembere The grapes of wrath?). È ovvio che appena ebbi qualche anno in più di quindici, iniziai a partire per le vacanze da solo. E senza retorica, sono sempre state le vacanze in cui mi sono divertito di più ed ho imparato di più, sulla mia natura storta e sui luoghi in cui mi avventuravo. Ma con il lavoro, con quest'enigma strattonato fra i cascami di un malinteso stato sociale italian style ed il liberismo free crime berlusconiano, le vacanze che c'entarno? Se qualcosa m'è rimasto attaccato addosso sul modo migliore di passare il tempo e di fare le cose - dal bagaglio all'autostop - lo devo proprio ai viaggi, all'improvvisazione, all'adattamento ed alla socievolezza ben calibrata che richiedono. Sempre che non ci si rinchiuda in quegli zoo che sono i villaggi vacanza: i templi dell'esperienza predigerita. Sì, lo so, suona conservatore e retrogrado quello che dico, ma figuriamoci se 'ste categorie moral-politiche mi sfiorano anche solo da lontano...
A diciassette anni mi incaponii - tanto per fare una cosa originale - e volli partire per conto mio verso la Grecia, dopo che il gruppo di amici che si era formato per quel viaggio s'era sciolto come gelato al sole. Mio padre, come il solito uso a giudizi ponderati, mi diede del matto. Non tanto per il fatto che andassi in Grecia, ma per il fatto che partissi da solo. Che ci andavo a fare da solo in giro? Invece, determinato come il solito a sbattere il grugno per conto mio, decisi che sarei partito. E poche volte c'ho azzeccato come quella volta.

Così, contravvenendo alla taccagneria che mi connotava, cambiai un po' di soldi per cinquecento dollari - all'epoca se si andava all'estero si portavano sempre i dollari - insaccai un po' d'indumenti nello zaino, ci attaccai un padellino e gli scarponi, mi spinsi in testa un cappellaccio e con la spensieratezza solitaria di un cane randagio, montai sul primo treno per Brindisi, con in tasca un biglietto di andata e ritorno - aperto, non volevo pensare a quando sarei tornato - verso il Pireo, la Grecia. La spesa maggiore di quell'avventura sarebebro stati i rullini. Feci una quantità di foto abnorme. Mi portai appresso anche un libraccio che ho odiato a lungo per quello che lì per lì mi dava, avvelenandomi: L'esistenzialismo è un umanesimo, di Sartre. Anche se in quelle pagine lette con rabbia ci trovai una delle definzioni di libertà più calzanti. Ma insomma, partivo per andare sotto il sole, a divertirmi, e cosa mi portavo? Un libro! Anche se dopo i primi giorni finì seppellito in fondo allo zaino, prima di detestarlo me lo lessi tutto, con rabbia ed astio. Ma lo lessi. Ecco, ancora una volta la contraddizione, lo stridore. Eppure quelle vacanze, che di lavorativo non avevano nulla e che in tasca non mi portarono un centesimo in più, aprirono tutto il ventaglio delle possibilità che mi si sarebbero schiuse nel tempo. Sole, lettere, musei, ragazze, scavi archeologici, lingue straniere, solitudine, sesso. Un bel mix shekerato senza pensarci, così come si butta un piede avanti l'altro mentre si cammina distratti e speranzosi. Esiste, nell'immaginario banale e cinematografico che c'hanno appioppato sin da piccoli - io almeno mi sono risparmiato Il giovane Holden... - l'idea del viaggio adolescenziale come summa delle esperienze che si faranno da grandi, come rito iniziatico, come metafora del cammino della vita e giù a melenserie progressiste e farlocche del genere. Ed anche io ne fui personaggio inconsapevole, tutto proteso a capire se volevo di più stare da solo od in compagnia, leggere, scopare, ballare, scrivere, nuotare, viaggiare, visitare i monumenti o drogarmi. E per una volta, e fu un lavoro ben fatto, devo dirlo, riuscii a fare tutto ed il contrario di tutto. Quelle vacanze disposero davanti alle mie mani tutti i futti incongrui di quell'età cogliona, spensierata, indolente e sognatrice che è l'adolescenza. Un'età che gli uffici marketing hanno tutto l'interesse ad estendere fino ai quarant'anni, ma che nella mia testa finisce precisamente coi diciannove, vent'anni. Quando la tua mgliore amica, sorriso splendente, carattere vivace, battuta sempre pronta ed un velo di malinconia negli occhi curiosi tra i capelli a caschetto, muore schiantata da due macchine dove due stronzi corrono appresso al nulla.

Partii con pochi soldi, questo lo dovetti capire subito dopo la prima settimana, vedendo come scemavano le banconote. Arrivai a Brindisi via treno, m'imbarcai con un passaggio ponte, armato di zaino e d'un malditesta planetario. Da Patrasso poi, sempre fedele ai binari e sospettoso di quei torpedoni sgangherati e pieni d'icone, mi feci una giornata di treno a passo d'uomo, fino ad arrivare al Pireo di Atene, dove attesi l'alba per prendere un traghetto, seduto ad un bar malfamato, circondato da pensioni dove c'era il tipico via vai da puttanificio, cani randagi, odore di souvlaki e di fritto, aria fresca con odore di nafta e piscio, le chiacchiere di due ragazze bergamasche. Insomma, mi buttai, felicissimo di andare alla deriva. Sulle prime fui bravissimo, portandomi appresso la crosta da boy scout: campeggio, tendina montata alla perfezione, lettura edificante, sole e mare, grandi passeggiate. Poi cominciai a rompermi i coglioni, ma fui fortunato perché mi aggregai ad un gruppo di coetanei di Roma, una bella combriccola con cui si andava d'accordo senza problemi. Avevano una vecchia lancia Beta che con quel caldo era una specie di forno a microonde su quattro ruote. Saltavamo di isola in isola, di volta in volta rimorchiando americane innamorate dei tequila bum bum, facendosi fregare i soldi in una pensionaccia squallida di Ios, facendo amicizia con i greci (Stavros, Julia e Caterina) sempre indaffaratissimi nel cercare fumo, alcool e posti dove ballare, assistendo ad impietosi collassi, vomitate, pomiciate, fuochi in spiagge e tutto il repertorio leggermente deja-vù che 'sta roba si porta appresso, almeno per me. Julia aveva delle tette strepitose, capelli biondi e due occhi da lago, ma lì per lì mi disse nisba quando ci provai. Anche quella era una cosa da fare, e questo, sotto sotto, pareva già un compito da svolgere: ci si doveva divertire.

Poi io deviai, me ne andai per altri itinerari, seguendo il mio amore per l'archeologia, ancora qualcosa che aveva a che fare con la distanza - nel tempo - e col fatto che fosse un lavoro fuori dagli schemi. Mentre visitavo le rovine di Santorini, o l'insediamento neolitico a Milos, dove andai in pellegrinaggio solitario e sfigato a vedere il punto esatto in cui era stata ritrovata la celeberrima Venere di Milo, o ancora di più quando mi addentrai fra le rovine di Delos, fino al punto in cui secoli fa si trovava l'omphalos, l'ombelico del mondo per i Greci antichi, dove Oreste il matricida s'era rifugiato sperando di sfuggire alle Erinni scacazzatrici, o di nuovo quando andai ad Epidauro, a vedermi l'Edipo re in greco moderno, senza capirci nulla ma rapito dal teatro più sacro dell'antica Grecia, oppure ancora ad Olimpia, sede dei giochi per i quali si interrompevano addirittura le guerre, o sotto le colonne del Partenone ad Atene, senza parole io e senza metope il tempio, saccheggiato dagli inglesi, oppure faccia a faccia con la maschera d'oro d'Agamennone... insomma, mentre mi facevo questo bagno nel mare in rovina del mio passato remoto, titillando le radici di un'Europa all'epoca ancora aperta e spugnosa, e non ridotta a patetico fortino cristiano come vorebbero oggi benpensanti e papisti, mi si fece più chiara una cosa, paradossalmente. Io non avrei mai fatto l'archeologo, come avevo desiderato scegliendo di ammazzarmi di studio al classico, leggendomi libri noiosissimi sulle tenciche di ricostruzione dei mosaici o sull'archeologia bizantina, sugli Inca, i Maya e sulla lingua etrusca. No, io con quella meraviglia che dopo secoli ancora sfavillava nei miei occhi non avevo niente a che fare. Lo capii come capisci che una bevanda agognata, sognata, desiderata, quando l'assaggi realizzi all'istante che per te è troppo, che per capirla, apprezzarla, conoscerla, ti ci vorrebbe una vita, e che invece le tue zampe non riescono a stare in un luogo, mentale, spaziale od affettivo che sia, per più di un lasso di tempo breve, troppo breve per parlare di dedizione, di passione. Ho capito lì, e fu un istinto animale salvifico, che l'archeologia poteva piacermi, ma non avrei mai avuto né la costanza, né la pazienza di dedicarmici. Questa intuizione mi risparmiò dal diventare un responsabile di magazzino in un museo di provincia, come accadde ad un compagno di liceo più bravo di me, più tenace, più preparato. Preso per il culo nella sua professione in maniera direttamente proporzionale alla sua passione.

A Santorini, quando ormai i soldi scarseggiavano, rinunciai a montare la tenda per buttarmi in terra con il sacco a pelo, direttamente. E fu lì che incontrai due ragazzi friulani: due fannulloni simpaticissimi. Uno di loro, per evitare di finire, come da tradizione di famiglia, a fare il militare in cavalleria, s'era finto matto! E suonava il violino senza la spocchia del musicista raffinato. Se non fosse stato per l'accento del suo inconfondibile dialetto, suonava con la stessa disinvoltura di uno zingaro. E così, tra un bicchiere di ouzo ed un pezzetto di pane, si architettò lo spettacolino: io recitavo quattro cazzate scritte lì per lì, lui suonava, ed il belloccio di turno passava col piattino. Al porto di Santorini replicammo per qualche giorno, sudati, puzzolenti come capre, rincoglioniti dal sole e dal bere ouzo («è dissetante...» questa era la scusa). Ovviamente i soldi non piovevano per le cose che recitavo in italiano - incomprensibili ai più, risibili per chi le capiva - ma per la musica. Eppure si divideva tutto per tre. Un giorno al bar non li ho più visti, avevo l'indirizzo, ma non ci siamo mai scritti. Meglio così!
Da là mi catapultai a Milos, dove arrivai di notte, senza sapere dove andare. Mi sedetti sulla scalinata difronte all'attracco, mi misi lo zaino fra le gambe per appoggiarmici sopra, mi infilai la cerata che copriva me e lo zaino, e mi addormentai là, svegliato al mattino da un cane che mi leccava la brina dalla faccia. Vagai davvero come un barbone, i soldi agli sgoccioli, lasciando le mie cose accanto ad una sagrestia dove dormivo per ripararmi dal vento. E fu la compassione che ispirai in una vecchietta senza età a procurarmi un lavoro. A dispetto dell'aspetto barbonesco si vedeva che non ero un ladro, che ero robusto e senza un soldo. Allora una mattina mi si presenta il pope, un tizio intabarrato in una tunica nera, con tanto di barbone folto e cappello. Comincia a dirmi qualcosa, principalmente mi strattona per un braccio. Lì per lì penso che si sia rotto i coglioni di vedermi dormire in terra accanto alla chiesa, poi però vedo che mi offre da bere e da mangiare, e complice qualche parola di greco, qualcuna di un latino incomprensibile - e che io non sapevo al livello di conversare, ovviamente - ma princpalmente grazie all'evidenza di ciò che volle mostrarmi (un campo di pomodori e verdure che si inerpicava su di un costone) e dell'offerta di cibo ed un posto dove stare - mi aveva fatto portare lo zaino appresso e me l'aveva fatto mettere in una specie di stanzino adiacente alla canonica - capii. Mi stava proponendo di raccogliergli i pomodori in cambio di vitto ed alloggio gratis. Non avevo altro da fare durante la giornata, a parte andare a vedere improbabili siti archeologici, perdermi per le brulle strade interne dell'isola, elemosinando acqua da una coppia di vecchietti presso una casupola sperduta. Accettai. Lo sgobbo era notevole, anche a prendermela comoda: ero da solo, il campo era in salita e faceva un caldo della madonna, perfortuna però c'era vento. In un tempo ragionevole riuscii a raccogliere tutti quei pomodori succulenti (me ne mangiai parecchi così, a crudo), e per almeno due notti e due giorni mangiai e dormii gratis. Poi però dovetti sbolognare, sia perchè non volevo rimanere lì, sia perché m'ero stancato degli sguardi pietosi dei quattro gatti che venivano alle funzioni religiose mentre mi riposavo appoggiato al muro a calce della chiesetta. Ricordo che nelle pause mi rifugiavo nella chiesa, fresca, piena all'inverosimile di icone votive, di candelabri e dell'dore polveroso e resinoso dell'incenso. Infilate dietro le icone c'erano diverse offerte in soldi, e molte volte mi venne una gran voglia di allungare le mani, intascarmene qualcuna (una in particolare mi faceva gola: quattromila dracme inzeppate da un donatore che chissà che diamine di grazia aveva ricevuto) e telare alla grande. Complice un retrogusto marcio in quel gesto, non lo feci, più per me che per loro. Così una mattina, kaliemera kaliemera, misi in spalla i miei quattro stracci e ripartii. Avrei rivisto il gruppo di amici romani e greci ad Atene, per il compleanno di Stavros, quando dormimmo in sei in una camera, fra puzza di piedi, scurregge e la futilità delle discussioni migliori.

Al ritorno da quel viaggio, mentre la mia famiglia era sparpagliata per mezza Europa (i miei erano andati in Irlanda con la moto), andai poi in Umbria, in mezzo alla campagna piena di frinii e campi di tabacco, dove a Perugia, all'Università per stranieri, mi diedi appuntamento con le belle greghe, Caterina e Julia. Ed in un supplemento di vacanza, fui allietato per una volta almeno nella mia vita sbilenca dalle gioie orgiastiche dell'antica grecia. Sotto lo sguardo sdegnato di tutto il parentado riunito in quelle sei case sei che è il paese natale materno. Sdegno ipocrita che una volta di più mi lasciò indifferente. Per fare di me un bravo ragazzo, a dispetto degli studi e dell'intelligenza, era troppo tardi. E ancora oggi me ne rallegro.

Di lavoro, in questa trancia di autobiografismo alla "meglio gioventù" mezza patetica e mezza conformista, sarebbe difficile trovare le tracce, per quanto riguarda la teologia corrente fatta di autopromozione, competitività, tenacia, partite iva e debiti a finanziare la propria virtù spendacciona. Ma ecco, quelle passeggiate a zonzo, senza una meta che non fossero i fantasmi delle mie passioni libresche e la disillusione che le accompagnava, m'hanno fornito un sacco di attrezzi per il futuro. Non averli mai impiegati non significa affatto che fossero inutili. Me ne sono perfettamente e lucidamente reso conto quando sono stato messo a muso duro di fronte alla scelta di schiantare, inseguendo cose di cui nel pozzo del cuore non mi fregava un cazzo, o di seguire la mia natura girovaga. E da quel momento, l'adattabilità, la spensieratezza, l'apertura, la predisposizione a capire, la mancanza di qualcosa di simile ad un legame, ecco, tutto questo armamentario affatto disprezzabile m'è tornato più che utile, altroché. Quell'utile che non è il profitto, s'intende.

mercoledì 19 settembre 2018

PIETRO BIANCHI - GENESI DI UN CARATTERE



 Contrariamente a quel che pretende il senso comune, la narrazione non vive solo di percorsi lineari, di articolazioni complete, ma anche di forme che si enucleano da un'idea ancora informe, come bolle che si gonfiano sul dorso dell'acqua. Ad emergere in questo modo sono spesso alcuni caratteri. Piero Bianchi è uno di questi, fra tutti i miei personaggi da incubo, quello con la struttura di fondo forse più nettamente caratterizzata, ma affatto banale. Ve ne offro due schizzi. Ma abbiate pazienza, prima o poi lo incontrerete di nuovo. Spero non di persona.


Una notte di vento
 Lo sente. Ogni volta è come la prima. Lo sente, il vento, e comincia a sudare freddo, percorso da un lieve e costante tremore. Lo sente mugghiare, avventarsi sulle finestre. Lo sente scuotere le persiane malferme. Gli si accelera il respiro: lo sente entrare in casa, sollevare la polvere, scompaginare i libri in bell'ordine nella libreria, aggirarsi per le camere come un segugio. I brividi gli scendono lenti per la schiena, a scariche, provocandogli un'erezione dolorosa. Il vento entra nella sua camera, la riempie, la satura e poi s'avventa su di lui, sin sotto le coperte, lo avvolge, lo tocca, mentre i brividi scendono sulla schiena fino al coccige, passano intorno all'ano, glielo fanno stringere dal terrore. L'uomo si raggomitola, si spinge le ginocchia al petto mentre il vento lo carezza sul collo, sulle caviglie, sul volto. Il respiro affannoso, un tremore diffuso e convulso: i brividi scendono e gli stringono lo scroto in una morsa gelida. Gli manca il respiro, un blocco afono gli sale dai testicoli in gola ed il vento cessa, mille aghi gelati gli perforano i testicoli e risalgono sull'asta del pene, mentre l'uomo viene a scatti, attraversato da spasmi e convulsioni, viene ripetutamente, bagnandosi il ventre e le ginocchia di sperma caldo. I suoi rantoli spezzati si perdono nella casa buia e silenziosa.
Si sveglia. Non c'è luce. Nessun suono. Solo il vento che corre come una muta di cani feroci per le strade ed il riflesso della luna sul vetro che protegge la grande foto difronte il letto. La foto di sua madre, Adalgisa Bianchi. Piero Bianchi guarda senza espressione la sveglia, il viso esangue, l'occhio spento. Sono le 03:35 del mattino. Alza le coperte. Sul pigiama si vede chiaramente la chiazza di sperma. Si siede sul materasso ed infila i piedi nelle ciabatte poste ordinatamente sullo scendiletto. Mentre si piega, sente distintamente il pigiama bagnato premergli sul basso ventre; lo sperma è ormai freddo, gelato. S'infila distrattamente una lunga vestaglia. Esce dalla camera da letto, percorre un breve tratto di corridoio, scende le scale. Va verso la cucina. Il suo appartamento è grande e ci vive da solo da quando sua madre, quindici anni fa, morì in una notte di vento rabbioso. Fu una morte dolorosa: la donna urlò fino a sfiatarsi e morì con il volto sfigurato da una smorfia di panico e sofferenza. Quelle urla sono rimaste in Piero Bianchi, che non s'è mai più ripreso da quella notte e ne porta dentro una ferita mai rimarginata. Una ferita che sanguina col vento e gli prosciuga la mente.
Come in trance Piero si siede sullo sgabello della grande cucina all'americana, accende la piccola luce che illumina il ripiano, afferra la copia del Messaggero che ogni mattina il domestico gli lascia in cucina. Dalle ampie vetrate della casa si affaccia la notte. Le sue mani sanno cosa cercare: "Relazioni sociali". Da quindici anni, dalla notte in cui morì Adalgisa Bianchi, suo figlio, erede di un piccolo impero commerciale, non ha più avuto una relazione con una donna, fatta eccezione per le decine, le centinaia di prostitute. Tutte regolarmente pagate. Ma stanotte c'è vento. Stanotte il figlio di Adalgisa Bianchi non cerca solo uno sfogo alle sue voglie. Cerca il volto amato e sfigurato della madre che soffre, della madre che muore. Cerca il suo amore negato, il fiato caldo dei suoi abbracci.

La prima volta
 La prima volta ancora se la ricordava. In preda ad un nodo allo stomaco che gli slegava le gambe e gli faceva ronzare la testa, era finito direttamente al Flaminio, nella corrida di automobili che sfilavano nel puttan-tour capitolino di metà anni '80. Auto tirate a lucido, corpi statuari ed insulti in brasiliano, il via vai delle comitive di giovanotti con fidanzatine al seguito, il chiosco mobile del rivenditore di panini caldi, la sagoma scura dello stadio, i palazzi del villaggio olimpico e il deposito delle auto sequestrate, su e giù per quei viali dritti ed impersonali dove ogni tanto arrivava una pattuglia della polizia, giusto per seminare un po' il panico. E gli ingorghi, lo strombazzare, il fiume di auto che si assottigliava, giù giù fino all'Acqua Acetosa, attorno ai piedi della collina dei Parioli dove scorreva quel carnaio di tette, culi, prezzi urlati, sgommate, bottigliate sul parabrezza di qualcuno più stronzo del solito. Piero era rimasto abbagliato, spaventato ed infuocato dalla vista di tutti quei corpi. Alla vista delle auto appartate, delle portiere che si aprivano per far salire o per far scendere. Ma era andato via stordito, altrove: gli si agitava dentro un disagio più profondo, un desiderio più netto ed allo stesso tempo indefinito. Gli si ingolfava sotto lo stomaco mugghiando con la voce della madre.
Annusando il movimento delle macchine, le luci e le ombre ai lati della strada, aveva guidato aggrappato al volante, con le mani inguantate e gelide, fino a notte fonda, esausto, sudato, oltre viale del Lazio, palcoscenico decaduto delle vecchie battone dei bei tempi andati. Il vecchio quartiere industriale di Grottarossa, con gli opifici in mattoni rossi, mezzi diroccati, le stradine che non portano da nessuna parte, e più oltre i campi sperimentali, lo scheletro enorme d'un ospedale da finire e mai finito se non decenni dopo. Oppure la strada che porta dritta dritta a Prima Porta, la città dei morti. Fra quelle rotte ellittiche ne aveva trovata una di puttana, isolata, in un tratto più isolato e più buio. Era la prima volta che andava con una prostituta. Aveva la faccia squadrata, una bocca enorme, una pelle dura, una vagina lasca, unghie laccate ed un corpetto di almeno due misure più piccolo che le strizzava il seno fino a farle uscire i capezzoli dalle coppe. Aveva i capezzoli pallidi. Piero non sapeva che dire, tremava e sudava ed era rimasto con i soldi in mano, senza dire una parola. Quella li aveva prontamente afferrati ed infilati nella borsetta. Ancora se la ricorda Piero: una borsetta di coccodrillo, nera, con la cerniera della chiusura a scatto e la tracolla sottile. Erano entrati i soldi e come d'incanto ne era uscito l'involucro di un preservativo. E l'odore, l'odore prepotente e violento del profumo e di quel corpo frugato. Piero non era nemmeno riuscito a farsi infilare il preservativo. Non gli si drizzava. Quella gli aveva anche preso una mano e se l'era messa fra le gambe. Niente. Allora prima l'aveva vezzeggiato, poi interrogato, e visto che non rispondeva l'aveva preso in giro, l'aveva chiamato "cazzo moscio", s'era messa a ridere. Quando le aveva messo le mani al collo ed aveva cominciato a stringere, quella aveva ancora la risata negli occhi. Aveva tentato con tutte le forze di divincolarsi, di menare, di scalciare sotto il cruscotto spingendo indietro il sedile fino a spaccare lo schienale. Aveva graffiato Piero sulla faccia, sulla testa. Ma a mano a mano che lui stringeva e premeva, un buco nero davanti agli occhi e nelle orecchie, il battito sordo del cuore, lei perdeva le forze, come se si calmasse, si quietasse. Poi gli occhi le si erano capovolti, la bocca aperta ed ogni segno di resistenza era cessato mentre un rivo di bava le colava ai lati del mento. Le mani di Piero però rimasero ancora attorno al suo collo, con le dita che serravano la giugulare, la carotide sfondata. Era rimasto aggrappato a quel collo, con la patta ancora slacciata e l'uccello floscio di fuori, fin quando dal buco nero non era emersa la faccia della puttana sconvolta dal dolore, con il viso deformato dal soffocamento, i tratti scomposti, la lingua abbandonata tra il palato e le labbra. "Come mi manchi mamma..." aveva detto una voce.

mercoledì 24 gennaio 2018

VOTARE LOGORA

L'ennesima tornata elettorale si avvicina. Non so più quante ne ho viste in 46 anni. Da piccolo vedevo i palazzi pieni di scritte e simboli. Immaginavo che quelle scritte fossero lì da sempre. Certe volte credevo che i palazzi li costruissero con le scritte già belle e pronte. Quegli slogan, le frasi, le parolacce, i segni, tutto mi pareva far parte del paesaggio, una specie di panorama urbano. E così i manifesti elettorali che spesso venivano incollati uno sopra l'altro fino a creare delle croste pencolanti dai bordi rialzati e spessi. Strappavi un manifesto e sotto ce n'era un altro...

In quella selva di simboli mi ci orientavo male e malvolentieri. Di tutto quel bailamme, dico la sincera verità, a me non arrivava nulla se non l'accanimento delle discussioni che ascoltavo come quando sentiamo una canzone di cui non capiamo le parole, la noia mortale dei telegiornali grigi, tristi, pieni di facce che non mi dicevano nulla, un'eco a volte tremenda, lontana, di base incapace di toccarmi. A me cui la morte sogghiggnava da dietro i visi smunti dei bambini malati di leucemia, sarcomi e malattie strane, mentre disegnavamo in una stanzetta, in attesa delle solite analisi, dei pianti delle mamme, dell'odore d'ospedale, degli aghi e della noia, a me la politica da piccolo sembrava decisamente una cosa scialba, senza senso. Certo, ero un bambino, ma insomma, nel 1976 avevo 5 anni, ma a stare a sentire tanti miei coetanei, pare che a quell'età fossero già nei cortei con le chiavi inglesi in mano. Io no. Non ho alcun ricordo particolarmente vivido ed emozionante di una qualsiasi cosa relativa alla politica. E pensare che il covo dove le Brigate Rosse tennero prigioniero Moro era ad un chilometro o due in linea d'aria dalla scuola elementare che frequentavo.

Già, un quartiere che all'epoca vedeva i primi filippini che venivano a stare a servizio nelle ville sulla Cassia, gli stessi i cui figli, oggi, probabilmente votano a destra. Ma questo sarebbe venuto dopo. Da parte mia, sempre per rimanere nei pressi della via dove avevano tenuto prigioniero Moro - una vicenda che non mi ha mai appassionato, neanche da grande, e che trovo emblematica dell'incapacità del popolo italiano di intendere e praticare un vero scontro di potere, o anche di evitarlo, insomma di fare una scelta chiara - da quelle parti, dicevo, durante il liceo bazzicavo una discoteca simil-punk gestita da un libanese strabico, il Uonna club, l'unico luogo appena fuori dalle righe in un quartiere che col tempo mi avrebbe insegnato, e gliene sarò grato per sempre, il più lucido e sano disprezzo.

Ed il tempo trascorreva, io studiavo, mi alienavo, pensavo alla politica, quando ci pensavo, nello stesso modo piatto e autoreferenziale con cui la leggevo sui libri, ma a dire il vero non ci ho capito nulla di quegli anni, proprio nulla. I mitici anni '80. A me già all'epoca il paese dove vivevo non mi piaceva molto, già, quello che all'epoca sembrava essere in pieno "nuovo rinascimento". E manco i miei coetanei mi piacevano, che per la maggior parte si suddividevano fra persone amorfe preoccupate solo di amorazzi noiosi, fascistelli ignoranti ed ottusi, qualche sinistroide di varia estrazione, raccomandato, che mi dava sempre l'impressione di occuparsi solo degli affaracci suoi, spesso benestante e più stronzo di un liberal americano (in questo eccelleva la gioventù arricchita figlia di quei ladri di socialisti). Insomma, a me facevano tutti, chi più chi meno, abbastanza schifo. Ma il fuori luogo ero io, ed il futuro si sarebbe peritato di mostrarmelo, restituendomi però anche una qualche forma di dignità per non essere mai sceso a compromessi. Integro e morto di fame, coerente col mio spirito da Don Chisciotte, lo stesso che però mi ha dato modo di osservare in tutti questi anni, nel controluce del mio smisurato sognare, la filigrana della grettezza, della meschinità, del degrado umano che ha nutrito senza sosta la politica.

Ad ogni modo, verso i dieci undici anni ficcai dunque la testa dentro i libri e non vidi mai davvero nulla al di là del mio naso. Anni ed anni più tardi ne avrei attaccati anche io alcuni, di quei manifesti. Ma quando ormai la minestra della politica era un brodetto allungato e riscaldato, buono solo per gli illusi come ero io, per l'appunto. In altre parole quando ormai, per mangiare (e non nel senso contadino ed atavico del termine), bisognava fare le cose molto più in grande, come aveva da qualche anno insegnato agli italiani quel perfetto eroe del suo tempo che è Berlusconi. Fu quando ormai il mio sentimento politico da boy scout farlocco spruzzava le ultime stronzate. La realtà dei fatti, quell'incarnazione stronza e spietata della storia, m'avrebbe insegnato l'abc di lì a qualche anno. Ed in questo, ben nutrito dal realismo che solo gli errori, i fallimenti e la forza d'animo sanno in qualche modo fornirti - senza per altro risolvere un cazzo - sono sempre stato molto grato alla brutalità della vita. È l'antidoto migliore. Da bravo Don Chisciotte, quando riconobbi l'irrealtà dei miei sogni e fui costretto a scendere coi piedi in terra, anche io ebbi la mia morte e trasfigurazione. Questo, senza falsa modestia, senza rendermi una persona migliore, mi ha fornito una profondità che non avevo mai avuto in vita mia. La politica, a mano a mano che ne masticavo la concretezza nei debiti, nella perdita del lavoro, nella precarietà, nei tentativi di aggrapparmi con le unghie ed i denti alle ultime minchiate dell'autoimprenditorialità, aprendo una partita iva e stringendomi da solo il cappio al collo per almeno dieci anni, mi si mostrava di là dalla facciata. Ecco, per fare un esempio concreto: sono riuscito a mantenere in me una consapevolezza autentica, anche nel momento in cui mi rendevo perfettamente conto di essere un mero corpo inserito nel tritacarne del sistema attuale, dove è del tutto indifferente il colore o il presunto schieramento.

Ma lasciamo perdere il passato, la palingenesi del disincanto lasciamola ad un'altra occasione. Se ho la consapevolezza che ho, e se penso e sento quel che penso e sento, ho proprio voglia di spararlo in faccia a chi lo merita. Senza nemmeno l'ombra di un rimpianto. E senza starmi a fare la domanda farlocca se ne abbia o meno il diritto. La scelta più limpida, determinata, duratura e razionale, oltre che eticamente fondata, che ho preso in vita mia relativamente alla politica - dopo essere arrivato a fare il segretario di sezione, un'onta di cui ancora oggi, che di minchiate e azioni da farabutto ne ho collezionate una sfilza non indifferente, mi vergogno profondamente - è stata quella di non votare più. Il voto è una macchina infernale che ci abbindola con la fetida morale cristiana dell'impegno, ci illude di contare qualcosa, ma in realtà non fa che catturare quella misera caccola di potere che abbiamo per consegnarla ad altri in maniera non reversibile. Il voto è una macchina costruita ad arte per rapinare, illudendo il coglione di turno - colui il quale gonfia il petto, nella sua morale piccolo borghese, pensando di potersi definire cittadino perché votante - di essere in questo modo protagonista della politica. E non venitemi a dire che alle prossime elezioni allora si può votare questo o quell'altro. Sul carrozzone che si spartisce le nostre caccole di potere ci si sale solo se si hanno determinate caratteristiche, miei cari fessacchiotti: estrazione sociale, status economico, appartenenza ad organizzazioni e ambienti di un certo tipo. Poi ci sono quelli che ci arrivano perché ci credono veramente, si impegnano, lottano. E sono i peggiori. Sì, perché sono gli ultimi arrivati, quelli che quando imparano a mangiare, si rendono conto che è bello e fa piacere. Il potere logora chi non ce l'ha, diceva giustamente Belzebù. Per questo io non voto.

Il non votare non mi esime però dal poter giudicare lo spettacolo veramente pornografico che la politica sa dare, fedele interprete, in questo, proprio della morale di chi vota e della natura profonda del paese (nel nostro caso natura servile, plebea, plasmata da secoli del peggior cattolicesimo). La democrazia ha infatti questo di interessante, vista con ironia e disincanto: riesce a dar vita a forme di potere così raffinate ed intimamente oscene, così pervasive e accuratamente costruite attraverso la cultura dei consumi, da risultare veramente distruttiva di ogni legame umano in un modo che neanche i vecchi regimi totalitari sarebbero stati in grado, pur con tutta la loro ferocia, di eguagliare. Neanche i gulag hanno distrutto le menti ed i cuori delle persone come cinquant'anni di consumismo e democrazia liberale. La ferocia dei totalitarismi, semmai, risvegliava le coscienze, animava i cuori, le menti, richiedeva l'imperativo di restare umani, paradossalmente sia alle vittime che ai carnefici. Ed oggi invece ci chiedono di andare a votare.

Andate anime belle, andate cuori candidi, andate agnellini sacrificali. Qualcuno di voi magari si riempirà la pancia, altri si gonfieranno l'orgoglio, altri affideranno la speranza a quel pezzetto di carta - da parte mia se proprio fossi costretto con le spalle al muro preferirei un mitra - ma tutti voi che entrerete in quella metonimia della coscienza che è la cabina elettorale - già, pensate quanto a fondo nello stesso modo che avete di rappresentare il vostro pensiero sono entrati, i bravi democratici - per votare, tutti voi firmerete l'ennesimo assegno in bianco, consegnerete una volta di più le vostre speranze, i vostri desideri, il vostro impegno, la vostra fiducia, ad un meccanismo che di voi, presi come singole persone, ha bisogno solo per legittimare se stesso. Io no. E non mi sfiora neppure l'idea. Nutro la sensata convinzione che chiunque si alterni alla guida di questo sistema realmente democratico, fatte salve mere differenze di retorica, ma ormai spesso neanche più quelle, debba seguire ben precise linee di azione. E statene certi miei candidi democratici, democretini, compagnucci, camerati, movimentisti ed amici di 'sta minchia, non intaccheranno mai e poi mai i veri centri di potere, lasciandovi solo le briciole della retorica, dell'odio, dei valori (una parola che usata dai politici mi sollecita ormai in modo quasi fisico l'ilarità), delle chiacchiere. Alla meglio vi faranno credere d'essere popolo, d'essere onesti, ed una volta di più nasconderanno la realtà di un mondo basato sullo sfruttamento, sul dato di fatto che c'è chi si arricchisce sulla pelle degli sfruttati, un mondo che produce differenze abissali, dove qualche manigoldo guadagna in un paio di giorni quello che un povero cristo non arriva a guadagnare in una vita. Che bella la democrazia. Su, coraggio, ed ora andate a votare.

Un'immagine soggiace a questa mia tirata finale, a questa filippica nutrita d'ironia e sarcasmo, ed è un'immagine potente, volgare nel senso più genuino del termine, carnale, fisica, concreta, tutto il contrario dei discorsi astratti ed altisonanti fatti da quella congerie di magnaccia che si fanno chiamare di volta in volta parlamentari, senatori, ministri, presidenti, primi ministri, duci, segretari, amministratori, imprenditori e via discorrendo. È un'immagine sana, forte ed immediata, a cui manca forse il pregio della progettualità o della finezza intellettuale, ma che di sicuro esprime in modo inequivocabile il mio sentimento verso la classe politica che il paese in cui vivo esprime. Un'immagine semplice ma non banale e che posso esprimere con una frase normale. Io penso che una mia cacata valga molto più del voto che costoro ricevono. Per parte mia, ai campioni di questo paese non darei certo il voto, no, ma li terrei a grugno basso, a mangiare merda. E penso davvero, in questo modo, di essere anche generoso.







































lunedì 27 febbraio 2017

SAPETE CHE VI DICO? OGGI È UNA BELLA GIORNATA

E così eccomi qua, in bilico su questa tastiera come un bambino che impara a camminare, ma la metafora non regge eh? In effetti sono uno che ha avuto un terribile incidente, eh sì, uno di quegli incidenti che rischi di lasciarci la pellaccia, o nel caso specifico quella cosa nella scatola cranica che chiamiamo mente. Ma non divaghiamo. Volevo dire che non sono un bambino, magari lo fossi, sebbene l'idea di crescere in questo mondo come minimo mi terrorizzerebbe, se fossi quel bambino. Sono uno che l'ha scampata, già, è l'espressione più esatta per descrivere che ci faccio, qui ed ora, davanti al riflesso lattiginoso di questo schermo, sparandomi Come as you are nelle cuffie. Anni 46, classe 1971, che annata di merda eh? Mi sono perso la musica migliore, le droghe migliori, la politica migliore, il sesso migliore, l'India, le molotov e il cazzo sa che altro; questo almeno è quel che vuole la vulgata, sì, quel modo di pensare scontato e flatulento come la scurreggia di un vecchio hippy. Invece sapete che vi dico: la mia vita, dopotutto, è stata una ficata. E la parte migliore deve ancora venire, già. Perché secondo me potrà essere ancora di più una ficata. Perché ho paura di invecchiare ed allora mi racconto questa bella balla? Può essere, ma una cosa l'ho capita: sì, può essere una balla, ma la differenza è poca. Illusione per illusione, il bello è crederci. In fondo questo è l'unico vero modo di sognare. Wow. Se continuo così finirò per crederci anche io a questa favola.

Già, una favola. E a chi da piccolo non è piaciuto sentire una favola? E da grande chi non si è fatto una scopata da... favola? E quel vino bevuto in terrazza, col venticello che saliva dal mare, non era una favola? Ma certo, e quella volta che hai alzato lo sguardo ed hai visto la neve che abbracciava il costone, pregustando la sciata? Non era una favola? Sì, una favola, come quella volta, e come quell'altra e se uno ha le palle di guardarsi dentro senza pietà e con il giusto disincanto, vedrà che la vita è piena di favole. Certo, il lieto fine è un'invenzione hollywoodiana, ma chi ha parlato di lieto fine? Il fine sarà uno e certo e assoluto, per tutti. Moriremo. Ma del tempo che resta? Eh? Che dite, che ne facciamo del tempo che resta? E non lo dico perché sono uno che fa jogging tutte le mattine, che si impegna nel lavoro o che impara il nome giusto di ogni rotolino di sushi, uno di quelli aggiornati sugli slang digitali, e insomma ci siamo capiti, io sono un pigro della razza più nobile, di quelli che appunto danno il meglio di se quando fanno pace col pensiero che moriremo e che dunque un po' ogni cosa che facciamo, se volete, è una conquista. Fosse pure preparare il caffè. Una conquista stupenda perché inutile. Sarò strano? Sì, in effetti me ne rendo conto. Per questo però l'ho scampata, già, perché la ragione principale per cui sono qui a zampettare come uno storpio su questa tastiera cercando di dare una forma a quanto mi ha attraversato come una corrente a 380 volt, ecco, forse la ragione per cui l'ho scampata è che sono strano. Non ho detto che mi sono salvato. Come sappiamo e come ci hanno insegnato, si dice..., si salvano i più forti. Io infatti non pretendo di essermi salvato, no, io sono sopravvissuto perché ho saputo sognare, anche se sarei un ipocrita a dire che spesso il sogno non sia diventato un incubo, in un'accezione decisamente poco metaforica. Scamparla è vivere quello che ti sta accadendo cercando di sgusciare fra quelle enormi pietre da macina chiamate destino. Niente è scritto nella pietra, sapete. E per capirlo devi essere strano e riuscire a immaginare che quello che sta accadendo sia qualcosa che puoi modificare. Noi non fuggiremo mai a noi stessi, tutti abbiamo i nostri demoni, le nostre paure, le debolezze e tutto l'armamentario patetico della nostra umanità fragile e banale, e chi lo nega? È quello che dopotutto ci rende quello che siamo. Ma il punto, infatti, non è fuggire da se stessi. È imparare a surfare. Perché non si può modificare il corso della vita, gli innamoramenti, le delusioni, le gioie, le frustrazioni e via di questo passo, quello che si può modificare è rimanere in piedi, e per farlo, a volte, si deve cavalcare il caos, perché dopotutto non siamo così importanti. Ed allora sì che modifichi le cose. Primo perché rimani su questa realtà, sì, quella di ogni giorno, quella cosa che si dà tanto per scontata perché nessuno ci spara mentre andiamo a fare spesa, perché apri il rubinetto ed esce acqua potabile, o accendi la luce e click, le lampade si accendono, ecc. ecc., e secondo perché così puoi renderti conto della situazione e non fartene travolgere. Il destino non esiste. Eh già, questa è la mia favola, e se ci sono arrivato è perché sono strano, su questo non ci piove, anche se non sempre essere strani è una bella cosa. Per nessuno, aggiungo.

E così eccomi qua, in bilico su questa tastiera come un uomo che si rialza. E potrei anche lasciare questo bel rigo qua, come finale anche ben congegnato di questa chiacchierata. Ma la realtà e che non mi sono solo rialzato. Stamattina sono sceso per ben due volte coi cani. Io un po' li detesto i cani. Niente di personale con la razza canina. È che a loro piace andare, si entusiasmano per letteralmente qualsiasi cacata incontrano, inseguono uccelli che non potranno mai acchiappare, si rotolano nella terra con l'espressione più felice di questo mondo... sono dei veri cani! Ma ti insegnano parecchio, spesso più di quello che sei disposto ad imparare. Tutti gli animali, in fondo in fondo, hanno questa grande capacità, o per lo meno io ci vedo questo nel loro comportamento: non riesci a mentire, con loro. Loro non sanno mentire. Infatti non sono umani. Ma sono forse per questo dei veri maestri, senza tutto l'orpello della retorica che noi umani diamo a questo termine così frusto. Ma che loro sanno rendere autentico. Bene, insomma. Quando dicevo che non mi sono solo rialzato volevo parlare di qualcosa che sì, ha a che fare con la sincerità, non dico la verità, quella lasciamola ai credenti, ma con quella giusta mancanza di indulgenza verso se stessi. Se si indulge nel proprio dolore, col piacere perverso di intingere il pane nella propria merda, non si può sognare. Il meglio che possa accadere è avere incubi. Il non mi sono solo rialzato significa che non so cosa accadrà, ma intanto avrei voglia di farmi una bella camminata e raccontare. Non importa a chi o perché, ma proprio come si scambia due parole lungo il cammino. E non pensare a quanto durerà. Riuscire a respirare senza l'ansia del domani, sfilare le parole da dentro come si coglievano fiori da bambini. Vedete, ci vuole poco a diventare melensi. E la mia sfida è proprio preservare quello che sento da questo. Purtroppo lo sappiamo tutti: quando si dicono le cose che abbiamo care si rischia non solo di non farle capire fino in fondo, ma di equivocarle. Ma a me è sempre piaciuto pensare che alla fin fine quello che è dentro di noi raramente si riesce a spiegarlo. O forse lo dico perché sono strano ed invece di farmi un'esame di coscienza sono qui, esatto, davanti a questo schermo a sbattere su questi tasti. Eppure per me è questo il modo, ognuno ha il suo, per capirci io stesso qualcosa. E ripeto, ho sempre pensato che anche se non puoi proprio rendere le cose così come ce le hai dentro, puoi però scriverle. È riduttivo, senza dubbio. E non è piacevole come si pensa. Suonare sì, è più piacevole, ma scrivere no, eppure si può fare, di là da tante pose e da tante frustrazioni personali. Dopotutto chissene frega se quello che scrivo non vedrà mai la pagina stampata – diciamocelo, è la sega mentale che ci facciamo quasi tutti. È più un'esigenza. Come quando i cani vogliono uscire a farsi una bella corsa, od anche solo a sedersi culo nell'erba ad annusare l'aria.

Sapete che vi dico? Oggi è una bella giornata!



domenica 1 gennaio 2017

UN GIRO DI VALZER

Da quando lavoro in albergo, e sono ormai quasi venti anni, mi è capitato molto spesso di trascorrere il Capodanno al lavoro, nel mio solito turno 23:00-07:00. Non è dunque per me un evento particolarmente carico di significati questa festa: ne ho scrostato via dal cuore e dalla mente ogni residuo. Ma la solitudine nella quale trascorro queste ore che generalmente sono di festa e di divertimento per tante persone ha affinato in me alcune riflessioni. Una su tutte mi sento di condividerla con voi e vi invito a leggerla ascoltando il valzer n° 2 di Dmitri Shostakovich.
È una riflessione che già da adolescente mi aveva tante volte echeggiato dentro, specialmente in quei momenti di isolamento e di calma che seguivano la baldoria ed il baccano. Riguarda il tempo che passa e il modo in cui ciascuno, nel suo intimo ed attraverso le forme esteriori della festa, si rappresenta le speranze, le aspettative ed il concetto profondo di rinascita che questa festa, per certi versi molto convenzionale ma per altri ricollegabile a riti antichissimi legati alla successione delle stagioni, simboleggia.
Fin da giovane ho pensato a questa festa come ad un passaggio rituale. Ho sempre sentito che tutto questo festante baraccone chiamato Capodanno servisse a nascondere un senso molto profondo e se vogliamo inquietante del trascorrere del tempo: la sua inesorabile ciclicità, il suo ritornare ogni volta allo stesso punto per ricominciare, esattamente come un giro di valzer, un turbinio di speranze, azioni, parole, sogni ed aspettative. Una danza vitale e mortale assieme.
Ammetto che il trascorrere degli anni ha lasciato un velo di polveroso cinismo su questa intuizione, la quale come tutte le intuizioni che ci suggeriscono la fatuità delle nostre ambizioni e delle nostre speranze si colora anche di una particolare venatura malinconica. Ma sono sincero se dico che la maggior parte delle volte questo momento è per me quello che con maggiore lucidità mi mostra la vacuità di tutto quello che questa società ci spinge ad inseguire: il successo, la fama, i soldi, l'affermazione, la riuscita, quella cieca e banale determinazione che ormai pare sia titolo necessario anche per esprimere le proprie idee, i propri sentimenti, il proprio intimo sentire.
È un momento nel quale riesco ad immaginare di vivere la mia vita come una foglia nel vento, con l'intima bellezza di saper accettare ed amare tutto quello che ci si presenta, fossero pure avversità e frustrazioni, come manifestazione dell'essere vivi.
Ovviamente mi mantengo razionale e faccio i conti, per quanto non tornino mai, anche col cumulo di errori e fallimenti che la vulgata corrente chiama esperienza, quella morchia che la vita lascia dentro di noi, e non mi perdo in questi sogni più di tanto. Eppure, ma questo davvero non so spiegarlo, l'intima bellezza che sento nell'accettare questo trascorrere sa trarre dal mio viso un sorriso, perché questa riflessione sull'inelluttabilità del tempo che passando ritorna sempre su se stesso in questo giro di valzer che la vita e la morte danzano assieme è la cosa più vicina che provo a ciò che si dice sperare.



venerdì 16 dicembre 2016

MIO PADRE


Sorveglio lo scorrere delle mie ore con un senso di smarrimento. A volte di angoscia. In un'epoca d'impegni, competizione ed ambizione, io rimango un indolente, un pigro. Ma mi difetta qualcosa, perché mi faccio prendere dall'ansia. Un vero pigro fa dello sciupio del suo tempo un'arte. A me invece questo spreco rimorde. Mio padre me lo rinfacciava sempre, il tempo perso. Ho fantasticato non so più quante volte su cosa avrei potuto realizzare se invece di ciondolarmi da una fesseria all'altra avessi dedicato il mio tempo a qualcosa, fosse pure la collezione dei tappi di birra... Il tempo è una cartina al tornasole del proprio rapporto con la vita: fa venire fuori tutto quello che non va, esalta gli amori autentici e frustra le passioni non vere, fa brillare di una luce calda ed avvolgente certe azioni, certe attività e invece rivela in tutta la loro pochezza altre. Ed è implacabile perché non si fa corrompere dalla nostra meschinità umana e dalle moine del sentimento: ha un rapporto privilegiato, diretto e immediato, col demone del desiderio.

E già perdo il filo del discorso. Di cosa volevo parlare? Mio padre, esatto, il suo ventre. Mio padre era un uomo imponente, anche se quando scremo il dolore dal suo ricordo, mi viene da dire che era semplicemente grosso, con uno stomaco capiente. E poche persone sapevano farmi sentire in colpa come lui, a proposito del tempo. Lui era disordinato, fanfarone, permaloso e trascurato ed attaccabrighe, eppure le sue passioni sapeva coltivarle con una dedizione cui non faceva ostacolo nulla. Lo ricordo seduto a dipingere i suoi soldatini anche la sera stessa del funerale di mio nonno, suo padre. Come fa un uomo con tale dedizione all'inutilità di un hobby a non farti sentire in colpa?

Quando scesi a Roma e lo andai a visitare, se ne stava sdraiato, con lo schienale del letto rialzato, nel reparto di terapia intensiva. Ma di intensivo, a parte le macchie degli elettrodi del defibrillatore accanto ai capezzoli, aveva come il solito solo il suo ventre. Il ricettacolo pantagruelico di un vita vissuta pienamente. Però quella volta, me lo ricordo, lo sguardo non era baldanzoso, irriverente e strafottente come il solito, no. 'Stavolta s'era veramente messo paura, me lo aveva detto con una semplicità che non gli era mai appartenuta, me lo ricordo come fosse ora. «Ho pensato che fosse finita». Non sembravano neanche parole sue, ma lo erano. Eccome se lo erano. Era un uomo coraggioso e sapeva dare il giusto peso alla paura.

Io avevo la testa fasciata di sonno e mi davano fastidio tutte le persone che si aggiravano per l'ospedale. Eppure, in mezzo a quel dolore ed all'evidenza piuttosto cruda che mio padre aveva avuto un duplice infarto, la mia mente, all'epoca nel pieno del disagio psichico, sembrava tornare a registro, calmarsi, ritrovare le coordinate di se stessa. Si tende a credere che nelle difficoltà, specialmente di fronte ai dolori inconsolabili, ai problemi di salute ed insomma al cospetto di tutto ciò che ci fa sentire impotenti, i propri problemi, le proprie ansie, le proprie debolezze esplodano, in qualche modo vengano fuori in tutta la loro nudità. Per molti è così, per me non lo è stato. Sembrerà paradossale, ma in quei momenti ero una persona assennata, calma e tranquilla.

I dottori, una caratteristica molto comune fra i medici italiani, erano stati non solo evasivi, ma anche sommari ed incompleti nelle loro spiegazioni, quasi non volessero averci nulla a che fare, con questa faccenda. Un modo estremamente cattolico per dirti le cose senza dirtele. L'ho sempre trovato odioso. Sarò anche pigro ed indolente, ma non sono uno stupido: la morale ovattata che anestetizza il dolore con l'ignoranza e l'omissione l'ho sempre detestata dal profondo del cuore, senza riserve. Chi la pratica dovrebbe farsi prete o suora, non certo dottore.

La notte spostano mio padre in un altro reparto di terapia intensiva. In realtà è di nuovo infartato. Sotto la mole del suo corpo il suo cuore si becca un altro colpo. Nessuno me lo dice, ma io credo che già si stessero preparando al peggio. Adesso non so perché ho iniziato a ricordare questo momento parlando del tempo, ma sicuramente ha a che fare con lo scrivere. Lui che non sapeva neanche mettere le doppie e non sapeva scrivere una subordinata con la giusta consecutio, aveva anche scritto un libro. Certo, avevo dovuto sudare sette camicie per rimettere a posto quella scrittura traballante piena di errori d'ortografia ed orrori di sintassi, ma alla fine la storia, nella sua splendida banalità, era avvincente e l'editore glielo aveva pubblicato. Ed io ero stato a guardare, sinceramente ammirato ed invidioso, ché negarlo sarebbe da ipocrita.

Se penso quante volte mi aveva esortato a scrivere! Non ci capiva nulla di cosa mi piaceva e di cosa avrei voluto fare, ma era un uomo essenziale in ogni senso, come si dice: nel bene come nel male. Ed aveva ragione, oggi lo posso candidamente riconoscere. Aveva sempre avuto ragione ogni volta che mi aveva spinto a non sedermi sulle mie accondiscendenti chiappe di pigro sognatore. Doveva averlo capito subito, infatti fin da bambino mi aveva sempre coinvolto in un'infinità di attività e stimolato a fare sempre qualcosa, fosse pure giocare con le costruzioni. Ed appena avevo cominciato a scrivere, mi aveva spinto in ogni maniera a non smettere, a darmi da fare. A crederci. Era un vulcano e spesso l'ho odiato per questo. Era sempre debordante, era dura stargli accanto senza essere un comprimario.

Quando lo andai a trovare nel nuovo reparto non aveva neanche l'ombra della sua solita spensieratezza. Un piano sopra mia madre era ricoverata allo stato terminale del suo cancro ai polmoni, mentre lui, lì sotto, era del tutto consapevole che il suo cuore si stava sfilacciando un infarto via l'altro. Si raccomandava, il futuro si sarebbe incaricato di dimostrare quanto ci avesse visto giusto, di non litigare con le mie sorelle. Chissà perché quando stiamo per morire diventiamo così lucidi e quasi preveggenti. Da questo punto di vista è rassicurante rendersi conto di non capirci un cazzo, della propria vita. Significa, probabilmente, che ancora non è arrivato il nostro momento, forse.

La sua voce era trasfigurata in un tono calmo, dolce come lui sapeva essere ma come in ogni modo nascondeva. Lui aveva capito che sarebbe morto ed io mi consolavo invece al pensiero che anche questa volta ce l'avremmo fatta ed avrei potuto continuare a litigarci come avevo fatto con grande soddisfazione tutta la vita.

Ci avrebbe pensato un chirurgo a togliermi tutti i grilli dalla testa. Fa sempre molta impressione quando incontriamo un dottore che è e si comporta e parla come noi abbiamo sempre pensato che un dottore debba essere e comportarsi e parlare. Chiamarono me e la maggiore delle mie due sorelle più piccole. Entrammo in quel piccolo studio, ci sedemmo e senza molti preamboli il chirurgo ci disse che nostro padre doveva essere operato d'urgenza alle coronarie e che l'intervento era ad alto tasso di mortalità. Mia sorella ammutolì, non prima di aver chiesto, manifestando tutta la sua incredulità, «In che senso?». Il chirurgo spiegò con una certa concitazione il concetto ed io gli risposi che se andava fatto quell'intervento – ed a quanto pare non solo andava fatto ma c'era anche da fare in fretta – che lo facessero, noi ci fidavamo ed avremmo atteso speranzosi. Il chirurgo ribadì l'alto rischio di mortalità, mia sorella aveva le lacrime agli occhi, io mi sentii per la prima volta in vita mia del tutto in prima linea. Mia madre sarebbe morta di lì a tre mesi ed in quel momento era poche decine di metri sopra le nostre teste, dopo aver terminato il suo inutile ciclo di radioterapia, poco prima di essere mandata definitivamente a casa – avrebbe passato i suoi ultimi giorni in un hospice. Mio padre era di là, dall'altro lato del corridoio, pronto per essere spedito in sala operatoria, ed io lì, seduto davanti a quel chirurgo che ci stava spiegando in modo sintetico e chiaro come mio padre sarebbe potuto morire durante o dopo l'intervento che dovevano effettuare. Per di più aveva avuto un altro attacco e dunque lo avrebbero dovuto operare con un infarto in corso.

Terminato quel breve ed esiziale incontro col chirurgo andai di là per salutare mio padre, tenendo a mente le parole del medico che ci aveva raccomandato di non farlo emozionare ché rischiavamo di farlo crepare sul colpo. Poche parole che non ricordo, l'invito fanfarone e sciocco a vederci dopo l'operazione, poi, mentre sulla barella lo portavano via, disse «Un bacio», e sono le ultime parole di mio padre che io ricordi.

Quel giorno sarebbe andato a sfociare in un'alba livida e fredda. Ricordo il caldo della sala d'attesa, il distributore automatico di bevande vicino l'entrata del San Filippo Neri dove passavo tutte le volte che mi andavo a fumare una sigaretta nel freddo della notte, per svegliarmi, per stare un attimo solo con me stesso e la potente impressione che nonostante tutto quello che speravo in testa sentivo letteralmente venir spazzate via tutte le cianfrusaglie con cui tendiamo a mascherare, nascondere e contraffare la certezza della morte come un punto centrale e fermo ed immutabile e vero della nostra esistenza. Nel caso specifico di quella di mio padre. Ed infatti fu così.

Quando l'alba era ancora incerta se far esplodere il giorno o meno, uno dei chirurghi era uscito per venirci a dire che l'operazione era andata bene, ma che dovevano aspettare per vedere se nostro padre, staccato dalle macchine, ce l'avrebbe fatta. La mimica facciale, però, oltre alla stanchezza dopo un'operazione che si era protratta per quasi 12 ore, trasudava quell'incertezza che in medicina tutto vuol dire meno che esito positivo. Rimasi fermo difronte alle porte della sala operatoria come davanti alle porte dell'Ade. Il mio inconscio aveva già scelto il regno al quale mio padre ormai apparteneva. Poco dopo, con viso sconsolato ed umano, il chirurgo venne a dirci che non ce l'aveva fatta, che l'operazione era andata a buon fine, ma che il suo cuore non riusciva più a funzionare da solo. Non avevano potuto farci più nulla. Era morto perché non c'era più modo di farlo vivere.

Ci avevano fatto attendere il minimo necessario a prepararlo per farcelo salutare. Quando entrai si vedeva solo la testa. Il resto del corpo era stato accuratamente coperto. Pareva addormentato, i tratti del viso rilassati ma senza spigolosità, senza l'asciuttezza del cadavere. In quel viso c'era ancora la sua espressione di uomo. Gli diedi un bacio.