Quello
che segue è un capitolo a caso di uno dei miei ennesimi romanzi incompiuti - aspettate solo che invecchi, forse sarà quella la mia vera età d'oro. Ne scrissi alcune parti appena arrivato qua a Milano, poi si arenò, come un po' troppe cose all'epoca,
ormai 12 anni fa. Diciamo che fu più per la mia inconcludenza che
altro. Il titolo di questo romanzo avrebbe dovuto essere "Curriculum vitae". L'intento era quello di offrire una specie di bestiario lavorativo della vita di un giovane italiano.
Qui stiamo ancora all'inizio dell'opera, che banalmente avrebbe dovuto seguire un ordine meramente cronologico, anche se l'esperienza di cui parlo - avevo diciassette anni - costituisce l'ouverture di gran parte delle tematiche che avrebbero sostanziato la mia vita e il mio rapporto con il lavoro, ovvero un mix di randagismo, scazzo, insofferenza, sogni ad occhi aperti e voglia di divertirmi.
Se
una cosa fu costante per tanti anni nella mia vita familiare, quella
furono, manco a farlo apposta, le vacanze. I miei incoerenti genitori
avevano un amore sfegatato per il campeggio. Ancora oggi per me le
vacanze sono sinonimo di tenda, di vita all'aperto e posso dire di aver
sempre visto con imbarazzo il dormire in alberghi o pensioni durante le
ferie. Ho imparato a montare la tenda, a cucinare sul fuoco e ad
accenderlo, a lavarmi con l'acqua di mare ed a selezionare il bagaglio -
al contrario della tendenza un po' zingaresca dei miei, capaci di
caricare la macchina peggio di quelle dei contadini dell'Arkansas che se
ne andavano in California (do you remembere The grapes of wrath?).
È ovvio che appena ebbi qualche anno in più di quindici, iniziai a
partire per le vacanze da solo. E senza retorica, sono sempre state le
vacanze in cui mi sono divertito di più ed ho imparato di più, sulla mia
natura storta e sui luoghi in cui mi avventuravo. Ma con il lavoro, con
quest'enigma strattonato fra i cascami di un malinteso stato sociale
italian style ed il liberismo free crime berlusconiano, le vacanze che
c'entarno? Se qualcosa m'è rimasto attaccato addosso sul modo migliore
di passare il tempo e di fare le cose - dal bagaglio all'autostop - lo
devo proprio ai viaggi, all'improvvisazione, all'adattamento ed alla
socievolezza ben calibrata che richiedono. Sempre che non ci si
rinchiuda in quegli zoo che sono i villaggi vacanza: i templi
dell'esperienza predigerita. Sì, lo so, suona conservatore e retrogrado
quello che dico, ma figuriamoci se 'ste categorie moral-politiche mi
sfiorano anche solo da lontano...
A diciassette anni mi incaponii -
tanto per fare una cosa originale - e volli partire per conto mio verso
la Grecia, dopo che il gruppo di amici che si era formato per quel
viaggio s'era sciolto come gelato al sole. Mio padre, come il solito uso
a giudizi ponderati, mi diede del matto. Non tanto per il fatto che
andassi in Grecia, ma per il fatto che partissi da solo. Che ci andavo a
fare da solo in giro? Invece, determinato come il solito a sbattere il
grugno per conto mio, decisi che sarei partito. E poche volte c'ho
azzeccato come quella volta.
Così, contravvenendo alla
taccagneria che mi connotava, cambiai un po' di soldi per cinquecento
dollari - all'epoca se si andava all'estero si portavano sempre i
dollari - insaccai un po' d'indumenti nello zaino, ci attaccai un
padellino e gli scarponi, mi spinsi in testa un cappellaccio e con la
spensieratezza solitaria di un cane randagio, montai sul primo treno per
Brindisi, con in tasca un biglietto di andata e ritorno - aperto, non
volevo pensare a quando sarei tornato - verso il Pireo, la Grecia. La
spesa maggiore di quell'avventura sarebebro stati i rullini. Feci una
quantità di foto abnorme. Mi portai appresso anche un libraccio che ho
odiato a lungo per quello che lì per lì mi dava, avvelenandomi: L'esistenzialismo è un umanesimo,
di Sartre. Anche se in quelle pagine lette con rabbia ci trovai una
delle definzioni di libertà più calzanti. Ma insomma, partivo per andare
sotto il sole, a divertirmi, e cosa mi portavo? Un libro! Anche se dopo
i primi giorni finì seppellito in fondo allo zaino, prima di detestarlo
me lo lessi tutto, con rabbia ed astio. Ma lo lessi. Ecco, ancora una
volta la contraddizione, lo stridore. Eppure quelle vacanze, che di
lavorativo non avevano nulla e che in tasca non mi portarono un
centesimo in più, aprirono tutto il ventaglio delle possibilità che mi
si sarebbero schiuse nel tempo. Sole, lettere, musei, ragazze, scavi
archeologici, lingue straniere, solitudine, sesso. Un bel mix shekerato
senza pensarci, così come si butta un piede avanti l'altro mentre si
cammina distratti e speranzosi. Esiste, nell'immaginario banale e
cinematografico che c'hanno appioppato sin da piccoli - io almeno mi
sono risparmiato Il giovane Holden... - l'idea del viaggio
adolescenziale come summa delle esperienze che si faranno da grandi,
come rito iniziatico, come metafora del cammino della vita e giù a
melenserie progressiste e farlocche del genere. Ed anche io ne fui
personaggio inconsapevole, tutto proteso a capire se volevo di più stare
da solo od in compagnia, leggere, scopare, ballare, scrivere, nuotare,
viaggiare, visitare i monumenti o drogarmi. E per una volta, e fu un
lavoro ben fatto, devo dirlo, riuscii a fare tutto ed il contrario di
tutto. Quelle vacanze disposero davanti alle mie mani tutti i futti
incongrui di quell'età cogliona, spensierata, indolente e sognatrice che
è l'adolescenza. Un'età che gli uffici marketing hanno tutto
l'interesse ad estendere fino ai quarant'anni, ma che nella mia testa
finisce precisamente coi diciannove, vent'anni. Quando la tua mgliore
amica, sorriso splendente, carattere vivace, battuta sempre pronta ed un
velo di malinconia negli occhi curiosi tra i capelli a caschetto, muore
schiantata da due macchine dove due stronzi corrono appresso al nulla.
Partii
con pochi soldi, questo lo dovetti capire subito dopo la prima
settimana, vedendo come scemavano le banconote. Arrivai a Brindisi via
treno, m'imbarcai con un passaggio ponte, armato di zaino e d'un
malditesta planetario. Da Patrasso poi, sempre fedele ai binari e
sospettoso di quei torpedoni sgangherati e pieni d'icone, mi feci una
giornata di treno a passo d'uomo, fino ad arrivare al Pireo di Atene,
dove attesi l'alba per prendere un traghetto, seduto ad un bar
malfamato, circondato da pensioni dove c'era il tipico via vai da
puttanificio, cani randagi, odore di souvlaki e di fritto, aria fresca
con odore di nafta e piscio, le chiacchiere di due ragazze bergamasche.
Insomma, mi buttai, felicissimo di andare alla deriva. Sulle prime fui
bravissimo, portandomi appresso la crosta da boy scout: campeggio,
tendina montata alla perfezione, lettura edificante, sole e mare, grandi
passeggiate. Poi cominciai a rompermi i coglioni, ma fui fortunato
perché mi aggregai ad un gruppo di coetanei di Roma, una bella
combriccola con cui si andava d'accordo senza problemi. Avevano una
vecchia lancia Beta che con quel caldo era una specie di forno a
microonde su quattro ruote. Saltavamo di isola in isola, di volta in
volta rimorchiando americane innamorate dei tequila bum bum, facendosi
fregare i soldi in una pensionaccia squallida di Ios, facendo amicizia
con i greci (Stavros, Julia e Caterina) sempre indaffaratissimi nel
cercare fumo, alcool e posti dove ballare, assistendo ad impietosi
collassi, vomitate, pomiciate, fuochi in spiagge e tutto il repertorio
leggermente deja-vù che 'sta roba si porta appresso, almeno per me.
Julia aveva delle tette strepitose, capelli biondi e due occhi da lago,
ma lì per lì mi disse nisba quando ci provai. Anche quella era una cosa
da fare, e questo, sotto sotto, pareva già un compito da svolgere: ci si
doveva divertire.
Poi io deviai, me ne andai per altri
itinerari, seguendo il mio amore per l'archeologia, ancora qualcosa che
aveva a che fare con la distanza - nel tempo - e col fatto che fosse un
lavoro fuori dagli schemi. Mentre visitavo le rovine di Santorini, o
l'insediamento neolitico a Milos, dove andai in pellegrinaggio solitario
e sfigato a vedere il punto esatto in cui era stata ritrovata la
celeberrima Venere di Milo, o ancora di più quando mi addentrai fra le
rovine di Delos, fino al punto in cui secoli fa si trovava l'omphalos,
l'ombelico del mondo per i Greci antichi, dove Oreste il matricida s'era
rifugiato sperando di sfuggire alle Erinni scacazzatrici, o di nuovo
quando andai ad Epidauro, a vedermi l'Edipo re in greco moderno, senza
capirci nulla ma rapito dal teatro più sacro dell'antica Grecia, oppure
ancora ad Olimpia, sede dei giochi per i quali si interrompevano
addirittura le guerre, o sotto le colonne del Partenone ad Atene, senza
parole io e senza metope il tempio, saccheggiato dagli inglesi, oppure
faccia a faccia con la maschera d'oro d'Agamennone... insomma, mentre mi
facevo questo bagno nel mare in rovina del mio passato remoto,
titillando le radici di un'Europa all'epoca ancora aperta e spugnosa, e
non ridotta a patetico fortino cristiano come vorebbero oggi benpensanti
e papisti, mi si fece più chiara una cosa, paradossalmente. Io non
avrei mai fatto l'archeologo, come avevo desiderato scegliendo di
ammazzarmi di studio al classico, leggendomi libri noiosissimi sulle
tenciche di ricostruzione dei mosaici o sull'archeologia bizantina,
sugli Inca, i Maya e sulla lingua etrusca. No, io con quella meraviglia
che dopo secoli ancora sfavillava nei miei occhi non avevo niente a che
fare. Lo capii come capisci che una bevanda agognata, sognata,
desiderata, quando l'assaggi realizzi all'istante che per te è troppo,
che per capirla, apprezzarla, conoscerla, ti ci vorrebbe una vita, e che
invece le tue zampe non riescono a stare in un luogo, mentale, spaziale
od affettivo che sia, per più di un lasso di tempo breve, troppo breve
per parlare di dedizione, di passione. Ho capito lì, e fu un istinto
animale salvifico, che l'archeologia poteva piacermi, ma non avrei mai
avuto né la costanza, né la pazienza di dedicarmici. Questa intuizione
mi risparmiò dal diventare un responsabile di magazzino in un museo di
provincia, come accadde ad un compagno di liceo più bravo di me, più
tenace, più preparato. Preso per il culo nella sua professione in
maniera direttamente proporzionale alla sua passione.
A
Santorini, quando ormai i soldi scarseggiavano, rinunciai a montare la
tenda per buttarmi in terra con il sacco a pelo, direttamente. E fu lì
che incontrai due ragazzi friulani: due fannulloni simpaticissimi. Uno
di loro, per evitare di finire, come da tradizione di famiglia, a fare
il militare in cavalleria, s'era finto matto! E suonava il violino senza
la spocchia del musicista raffinato. Se non fosse stato per l'accento
del suo inconfondibile dialetto, suonava con la stessa disinvoltura di
uno zingaro. E così, tra un bicchiere di ouzo ed un pezzetto di pane, si
architettò lo spettacolino: io recitavo quattro cazzate scritte lì per
lì, lui suonava, ed il belloccio di turno passava col piattino. Al porto
di Santorini replicammo per qualche giorno, sudati, puzzolenti come
capre, rincoglioniti dal sole e dal bere ouzo («è dissetante...» questa
era la scusa). Ovviamente i soldi non piovevano per le cose che recitavo
in italiano - incomprensibili ai più, risibili per chi le capiva - ma
per la musica. Eppure si divideva tutto per tre. Un giorno al bar non li
ho più visti, avevo l'indirizzo, ma non ci siamo mai scritti. Meglio
così!
Da là mi catapultai a Milos, dove arrivai di notte, senza
sapere dove andare. Mi sedetti sulla scalinata difronte all'attracco, mi
misi lo zaino fra le gambe per appoggiarmici sopra, mi infilai la
cerata che copriva me e lo zaino, e mi addormentai là, svegliato al
mattino da un cane che mi leccava la brina dalla faccia. Vagai davvero
come un barbone, i soldi agli sgoccioli, lasciando le mie cose accanto
ad una sagrestia dove dormivo per ripararmi dal vento. E fu la
compassione che ispirai in una vecchietta senza età a procurarmi un
lavoro. A dispetto dell'aspetto barbonesco si vedeva che non ero un
ladro, che ero robusto e senza un soldo. Allora una mattina mi si
presenta il pope, un tizio intabarrato in una tunica nera, con tanto di
barbone folto e cappello. Comincia a dirmi qualcosa, principalmente mi
strattona per un braccio. Lì per lì penso che si sia rotto i coglioni di
vedermi dormire in terra accanto alla chiesa, poi però vedo che mi
offre da bere e da mangiare, e complice qualche parola di greco,
qualcuna di un latino incomprensibile - e che io non sapevo al livello
di conversare, ovviamente - ma princpalmente grazie all'evidenza di ciò
che volle mostrarmi (un campo di pomodori e verdure che si inerpicava su
di un costone) e dell'offerta di cibo ed un posto dove stare - mi aveva
fatto portare lo zaino appresso e me l'aveva fatto mettere in una
specie di stanzino adiacente alla canonica - capii. Mi stava proponendo
di raccogliergli i pomodori in cambio di vitto ed alloggio gratis. Non
avevo altro da fare durante la giornata, a parte andare a vedere
improbabili siti archeologici, perdermi per le brulle strade interne
dell'isola, elemosinando acqua da una coppia di vecchietti presso una
casupola sperduta. Accettai. Lo sgobbo era notevole, anche a prendermela
comoda: ero da solo, il campo era in salita e faceva un caldo della
madonna, perfortuna però c'era vento. In un tempo ragionevole riuscii a
raccogliere tutti quei pomodori succulenti (me ne mangiai parecchi così,
a crudo), e per almeno due notti e due giorni mangiai e dormii gratis.
Poi però dovetti sbolognare, sia perchè non volevo rimanere lì, sia
perché m'ero stancato degli sguardi pietosi dei quattro gatti che
venivano alle funzioni religiose mentre mi riposavo appoggiato al muro a
calce della chiesetta. Ricordo che nelle pause mi rifugiavo nella
chiesa, fresca, piena all'inverosimile di icone votive, di candelabri e
dell'dore polveroso e resinoso dell'incenso. Infilate dietro le icone
c'erano diverse offerte in soldi, e molte volte mi venne una gran voglia
di allungare le mani, intascarmene qualcuna (una in particolare mi
faceva gola: quattromila dracme inzeppate da un donatore che chissà che
diamine di grazia aveva ricevuto) e telare alla grande. Complice un
retrogusto marcio in quel gesto, non lo feci, più per me che per loro.
Così una mattina, kaliemera kaliemera, misi in spalla i miei quattro
stracci e ripartii. Avrei rivisto il gruppo di amici romani e greci ad
Atene, per il compleanno di Stavros, quando dormimmo in sei in una
camera, fra puzza di piedi, scurregge e la futilità delle discussioni
migliori.
Al ritorno da quel viaggio, mentre la mia
famiglia era sparpagliata per mezza Europa (i miei erano andati in
Irlanda con la moto), andai poi in Umbria, in mezzo alla campagna piena
di frinii e campi di tabacco, dove a Perugia, all'Università per
stranieri, mi diedi appuntamento con le belle greghe, Caterina e Julia.
Ed in un supplemento di vacanza, fui allietato per una volta almeno
nella mia vita sbilenca dalle gioie orgiastiche dell'antica grecia.
Sotto lo sguardo sdegnato di tutto il parentado riunito in quelle sei
case sei che è il paese natale materno. Sdegno ipocrita che una volta di
più mi lasciò indifferente. Per fare di me un bravo ragazzo, a dispetto
degli studi e dell'intelligenza, era troppo tardi. E ancora oggi me ne
rallegro.
Di lavoro, in questa trancia di
autobiografismo alla "meglio gioventù" mezza patetica e mezza
conformista, sarebbe difficile trovare le tracce, per quanto riguarda la
teologia corrente fatta di autopromozione, competitività, tenacia,
partite iva e debiti a finanziare la propria virtù spendacciona. Ma
ecco, quelle passeggiate a zonzo, senza una meta che non fossero i
fantasmi delle mie passioni libresche e la disillusione che le
accompagnava, m'hanno fornito un sacco di attrezzi per il futuro. Non
averli mai impiegati non significa affatto che fossero inutili. Me ne
sono perfettamente e lucidamente reso conto quando sono stato messo a
muso duro di fronte alla scelta di schiantare, inseguendo cose di cui
nel pozzo del cuore non mi fregava un cazzo, o di seguire la mia natura
girovaga. E da quel momento, l'adattabilità, la spensieratezza,
l'apertura, la predisposizione a capire, la mancanza di qualcosa di
simile ad un legame, ecco, tutto questo armamentario affatto
disprezzabile m'è tornato più che utile, altroché. Quell'utile che non è
il profitto, s'intende.