La mia immaginazione ha sempre per
così dire funzionato in maniera rapsodica, per momenti, per sguardi,
ed a dire il vero raramente è riuscita a tradursi in ideazione, in
un progetto compiuto da realizzare.
Questa immaginazione si è per anni ed
anni applicata ed esercitata, con disciplina, costanza ed impegno –
questo lo devo riconoscere a me stesso senza alcuna falsa modestia –
al linguaggio poetico, realizzandosi nella scrittura di centinaia e
centinaia di poesie, diverse delle quali, e non poche, di un qualche
autentico pregio.
Ma ho sempre sentito che il potenziale
insito in ciascun singolo momento rapsodico della mia immaginazione
avrebbe potuto eccedere, e negli anni più recenti lo ha fatto,
permettendomi di scrivere un romanzo e pubblicare un saggio, i limiti
del linguaggio poetico. In altre parole io so che questa
immaginazione ha la forza di tradursi in una forma più distesa, una
forma narrativa o di pensiero.
Ma ciascuno di noi deve fare i conti
con i propri limiti, se intende trasformarli in una risorsa, più che
in una mancanza. Ed io ho capito, da tempo, che la mia immaginazione
è in grado di elaborare certe tematiche, certi particolari sguardi,
di mostrare alcuni recessi poco frequentati, insomma non irradia una
visione chiara e strutturata che automaticamente costituisce il
centro della narrazione, ma mi permette di gettare uno sguardo
d'insieme, di concentrarmi sui possibili legami fra i vari punti di
vista, trasformando questi punti di vista, ognuno col suo proprio
“momento” – l'insieme di caratteristiche condensabili in una
sorta di puncum barthesiano, ma di natura narrativa – in nuclei
narrativi pensati come bolle di immaginazione. E l'unica maniera di
articolare in maniera distesa la narrazione della mia immaginazione è
quella di far interagire queste bolle, di metterne in scena i
movimenti, le interazioni, gli scontri.
In parole semplici cucio le mie storie
come coperte patchwork, utilizzando brani, pezzi, lacerti di cose
scritte seguendo singoli impulsi immaginativi. Non credo nelle storie
lineari, o meglio, non amo scrivere storie che hanno un preciso
percorso. Sento più aderenti alle caratteristiche della mia
immaginazione scrivere storie in cui non esistono protagonisti unici,
in cui non prevale necessariamente una storia. Mi piace scrivere del
brulicare, del moltiplicarsi, del sovrapporsi, in un contesto il più
possibile ampio, articolato e narrativamente coerente (diciamo la
forma e le dimensioni della coperta, per rimanere nella metafora del
patchwork).
Il testo che segue, dal titolo
passeggero La riassunzione, è
un esempio di questo tipo di operazione. Due dei personaggi enucleati
sarebbero finiti nel romanzo che scrissi nel 2013-2014 – Il
resto di nulla, avrebbe dovuto
essere il titolo. Un terzo, invece, sarebbe rimasto intrappolato
sulla soglia dell'esplosione, nei limiti di questo testo, anche se di
sé ha improntato altri due personaggi non indifferenti della mia
immaginazione, due protagionisti sfigati.
La
caratteristica principale di questo testo è di arrestarsi sulla
soglia dell'abisso senza metterlo in scena, ma avendo raccontato
l'accumulo di un carico di violenza enorme. Il linguaggio per
innescare questo meccanismo utilizza lo zoom interiore come strumento
di focalizzazione ed acutizzazione, in un crescendo di disagio,
paura, violenza, confinate però all'interno dei personaggi (la loro
vita interiore e le loro percezioni), a farne crescere la pressione
interna, per accumulo, appunto. E di far crescere questa tensione
interna ai personaggi fino ad un passo dal baratro.
Penso
che valga la pena di essere letto, ma non vi aspettate nessun bello
scrivere, frasi tornite, tinte tenui o pretese stilistiche. Qui siamo
a bottega.
L’abito l’aveva preso alla
Romanina, quel centro commerciale di periferia che anni fa fece tanto
scalpore e che ora è un posto da borgatari, il parcheggio di giovani
e giovanissimi orfani di piazzette ed altri ameni spiazzi di borgata.
Vuoi mettere con il Parco Leonardo? L’evoluzione dei centri
commerciali era stata spettacolare: da enormi superfici commerciali a
vere e proprie architetture del desiderio e dell'interazione. Ormai
ci si andava per mangiare, passeggiare, passare il tempo, vedere un
film, comperare un libro… Luoghi da vivere, dove il paesaggio era
la merce e qualsiasi scambio avveniva all'ombra dei registratori di
cassa. E questa evoluzione, su di un altro registro, era andata di
pari passo con la trasformzione del lavoro in una merce come
un’altra, con allegato il palloso lavoratore di turno, un
fastidioso gadget: il costo di un ammennicolo umano. Ora però
eravamo oltre l’epoca in cui tutti saremmo stati felicemente
impegnati ad incrementare i nostri debiti compulsando come le tette
di una troia gli scaffali delle merci, sbirciando le occasioni
dell’ennesimo finanziamento come si spia dal buco della serratura,
pieni di voglie per l’ultima novità, per l’offerta, per il
prodotto che ci sa valorizzare, pronti a virtualizzare l’acquisto,
a scegliere il brand più conforme al nostro stile di vita (o
viceversa?). Ora, in piena crisi mondiale, questa linea d'evoluzione
non smetteva di squadernare i suoi mirabolanti effetti sulla
psicologia delle masse. Che come d’uso è una psicologia tra il
criminale ed il paranoide, i due registri mentali preferiti da
qualsiasi forma di dittatura. Come in ogni periodo buio, le fandonie
della religione di turno acquisiscono un potere enorme, come un
incantesimo che s'insinua tra neurone e neurone. E la religione del
nostro tempo è il mercato, il consumo, la disumanizzazione: i vagiti
feroci della reincarnazione del capitalismo moderno. E Paolo,
quell’ometto residuale attaccato come l’edera alla parete
bitorzoluta e spisciazzata del suo lavoro a tempo (tic-tac…), in
qualità di gadget aveva pensato bene di confezionarsi a dovere per
l'occasione, ma quell’abito era uno schifo, sintetico al 100% made
in Bangladesh, con la fodera che s’incollava sotto le ascelle, il
taglio troppo stretto, il cavallo troppo alto, le maniche troppo
corte. Per un credente della globalizzazione, un cilicio in offerta
speciale. Dentro a quell’abito si raggrumava, sotto l’effetto del
calore, dell’umidità e di un malumore acuto e tagliente, il lento
scorrere dei giorni e delle ore, come per il latte quando caglia, o
quando qualcuno ti fa venire il latte ai coglioni. L’odore fetente
del vomito rappreso.. Solo che al posto del latte e del vomito Paolo
aveva un bisogno disperato di essere riassunto, di avere un rinnovo
in quel porcoddio di lavoro. Della sua fede nel mercato rimaneva solo
la speranza, un articolo di fede per disperati, appunto. Ne aveva
bisogno perché l’alternativa era rimanere senza lavoro, essere
costretto a tornare a casa dei suoi, sotto lo sguardo affettuoso e
tagliente della madre, sotto quello perplesso del padre che ormai lo
compativa apertamente. L'alternativa era la sconfitta, e per gli
adepti del capitale non c'è situazione più inaccettabile, per
quanto credano in un mostro che vive di dolore e sopraffazione. Ce la
doveva fare! e se lo ripeteva come un mantra per sfigati, una tecnica
motvazionale scarnificata fino alla superficie della scatola cranica,
dove sotto sotto si gratta l’osso del cervello.. Ne aveva bisogno
per non dover sempre stare a stecchetto, per non doversi far
allungare i soldi da sua nonna a trent’anni passati. Ne aveva
bisogno perché quella merda di lavoro – il suo come quello di
milioni di sfruttati come lui, ma ciascuno nella sua disgrazia è
solo e dunque a fare in culo la solidarietà da zecche – era
l’unico diaframma fra sé e la disoccupazione, tantopiù ora con
'sta cazzo di deflazione crisi recessione, colle banche pasturate da quell'ometto di plastica, le bande di politici che scialavano in
appartamenti, orge e mazzette e le maree d'extracomunitari pronti ad
incularti il lavoro al ribasso. Che poi disoccupazione in Italia –
il regno degli eufemismi e degli ignoranti – è il nome statistico
della povertà. Lui non si sentiva un eufemismo, e per quanto
ignorante, comunque ci stava bene nella pellaccia italiota. Certe
domande non è che non era disposto a farsele: proprio non ci
pensava. Quando ancora aveva voglia e modo di andare allo stadio, un
bel forza Juve lo faceva sentire orgoglioso.
Dopo aver passato tutti i gironi
della contrattualistica di lavoro contemporanea, come a dire un gioco
dell'oca all'inferno, era alla stretta finale, anche se pensare
quell'occasione, avrebbe detto un tempo, come approdo finale, bhé,
aveva un retrogusto rancido. Aveva avuto fegato il Paolo, il fegato
marcio di tutti i lavoratori di questo nuovo millennio. Era uno che
veniva da una stirpe di sgobboni, lui. Prima contadini, poi operai
inurbati, e poi lui, il prodotto raffinato di due generazioni di
bucio di culo e di sacrifici. Il distillato contadino e proletario
tipico dell'Italia: il piccolo borghese. E quindi il grande salto,
l’Università, la laurea, le belle speranze covate in famiglia.
Covate come un passero cova l'uovo di un cuculo... Anni di precariato
– ma lui ci credeva, cazzo se ci credeva quando aveva discusso la
sua tesi di laurea sulla New Economy! – anni di progressivo
smantellamento delle speranze. Oggi guadagnava meno di quanto aveva
guadagnato appena laureato, fresco di ideologia, con la sua brava
partita iva – aperta per essere ammesso fra i collaboratori di uno
studio di consulenza che gli elargiva le briciole – pieno di
volontà, desiderio di competere, voglia di darle e nessuna paura di
prenderle, manco la vita fosse un ring. Ma ora era alla stretta, ring
dell'ultimo round. E lui era malfermo sulle gambe e con la guardia un
po’ bassa, per rimanere dentro le corde della metafora pugilistica.
Assieme ai fronzoli erano sparite le illusioni, sostituite dagli
occhi tumefatti che sono quel che resta al risveglio dalle pie
illusioni. 'Sti cazzi delle speranze, delle competenze, del
catechismo confindustriale... Era alla fine dell'ennesimo rinnovo
consecutivo di un contratto a tempo, con i dovuti stop and go per
evitare l'assunzione definitiva, e già questa situazione, vista la
baldanza iniziale, era di per sé una mezza debacle psicologica,
l'implicita ammissione di un errore dalle dimensioni così enormi da
spezzare in due la schiena della sua vita. Dopo anni di declino in
cui lo spettro della disoccupazione si allungava su di lui come
un’ombra gelata… La sola parola disoccupazione lo raggelava
perché rendeva vere e solide le parole di suo padre, un uomo dalle
mani che erano la testimonianza di una vita di lavoro vero, quello in
cui producevi qualcosa, fossero prosciutti, forme di formaggio o tubi
d’acciaio e macchine del gas. Parole dure. Lo dovevano quindi
assumere! Sì, lui, Paolo Terenzi, ora augurava a se stesso quella
che aveva definito una “posizione contrattualista demotivante”.
Grattata via l’ideologa, la furbizia, le scorte di denaro, la
dignità personale, l’ammissione di non essere stato capace di
saltare sul carro dei vincitori quando era il caso (o di non esserci
proprio tagliato, il che era qualcosa di ancora più deprimente),
ormai il suo orizzonte prossimo si restringeva a quella fessura, a
quel taglio di luce che le sue speranze proiettavano sul suo futuro
prossimo. Già, perché di suo, praticamente, aveva solo la
disperazione del futuro. Oltre a centotrentaeuro in banca, una
macchina scassata che usava col contagocce e che voleva vendere. Ed
una voglia matta.
Accade sempre in un modo tale per cui
quando ci si ritrova senza un cazzo ci si domanda “Ma come è stato
possibile?”. Dal risparmio si passa alla necessità e dalla
necessità si prende il volo per le lande grigie della soglia della
povertà, quando misuri il peso di un biglietto per andare al cinema
sul tuo magro salario, quando vorresti portare un mazzo di fiori alla
tua bella, ma costano troppo, ed allora ripieghi su sfigatissimi baci
perugina, ché pure quelli mica te li regalano…
Ma Paolo è un duro, ha visto i suoi
colleghi esuberati, ridislocati, licenziati come vuoti a perdere,
senza neppure il soldino che una volta ti davano quando riportavi le
bottiglie di vetro al negoziante. E non ha battuto ciglio. Aggrappato
alle sue competenze, aggrappato alla sua fedeltà, aggrappato alla
saliva ingoiata, saliva sempre più amara. Ed è rimasto al suo
posto, disposto anche ora a recitare le litanie ed i rituali del
bravo precario, a leccare, a servire, campione inesausto dell’italica
virtù del servilismo. Tutta la merda che c’era da buttare giù,
l’aveva deglutita, fedele solo al pensiero di poter almeno ottenere
un'assunzione a tempo indeterminato. Aveva fatto sue tutte le nostre
meschine virtù patriottarde. Disposto cioè anche a barattare la sua
dignità con un contratto che ne svilisse il profilo, che lo
riducesse al classico impiegato che tanto aveva disprezzato, ai tempi
delle belle camicie blu elettrico col nodone, i tempi
dell’autoimprenditorialità. I tempi quando davanti alla
macchinetta del caffè si magnificava il genio berlusconiano, lo
schiaffo in faccia al popolo parassita e pezzente, in nome della
libertà d’impresa, dei self-made man. Le bordate a pallettoni
contro i sindacati, quella zavorra fatta solo per tutelare gli
scansafatiche, quelli che oggi giustamente si dovevano tartassare, i
fannulloni!. Bei tempi, tempi in cui non ti rendevi conto di essere
un’avanguardia, sì, il battaglione degli immortali di un Serse di
cartapesta, anzi, di carta stampata e televisioni, l’avanguardia
che apriva la strada allo sfacelo. La strada verso il tuo proprio
culo. Che invece avrebbe dovuto essere parato meglio, difeso,
protetto. Com'era normale, schifosamente normale che dovesse essere.
Ed invece no! Non bisognava avere paura del cambiamento. Solo che il
cambiamento aveva ora la piacevolezza di una fodera di qualità
scadente, confezionata da mani di ancor più sfigati lavoratori
asiatici e che surriscaldata gli si incollava tra le gambe in un
trionfo di scroto urticato, di sudore acido. Aveva pure l’alito
pesante e una barba fatta maledettamente male.
E oggi Paolo sente solo che quella
merda di vestito lo fa sentire un fallito, seduto su quella
poltroncina sintetica, accanto alla pianta di plastica nel micro
atrio davanti l'ufficio di Marco Colletti, il titolare, il capo, il
boss. Sente che anche il centro commerciale dove ha comperato la sua
uniforme da soldatino fa schifo e che lui, anche con tutta la paura
del mondo, se tornasse indietro rifarebbe tutto, sì, perché
l’alternativa sarebbe essere una zecca, un pezzo di merda
comunista, essere uno di quei merdosi filoislamici, imboscarsi nel
sindacato – e come poi che manco gli era riuscito di conoscerli i
sindacalisti? – insomma negare se stesso. No. Impossibile
rimangiarsi le proprie convinzioni sulle quali aveva costruito la sua
vita, la sua personale rivolta contro un padre che lanciava bestemmie
al tempo presente dal fondo della sua impotenza, che continuava a
glorificare i tempi in cui era stato una tuta blu, un operaio
comunista, ed anche contro gli amici del quartiere che prima lo
avevano isolato e poi decisamente mandato a fare in culo. Buttarsi
via per la causa, questo sì, anche con rabbia, anche con delusione,
con l’intuito per la catastrofe tipico dei perdenti, ma mai tornare
indietro. Anche se questo aveva significato rendersi conto delle
scelte sbagliate, ma obbligate, verso il nuovo. Ed il nuovo aveva il
nome dell'attuale crisi. Il nuovo aveva vinto. Solo che lui che aveva
votato, aveva urlato, aveva leccato, lui che aveva spinto, sgomitato,
predicato... adesso che aveva vinto si sentiva alla frutta. Anzi, al
conto. E non voleva pensare a come poterlo pagare.
L’incontro col titolare – “per
la sua riassunzione a tempo indeterminato”, si recitava come una
preghiera in testa – era imminente, e Paolo fremeva. Si sentiva
bruciare a dispetto delle asettiche luci al neon in sala d'attesa,
del dispenser d'acqua, del semplice fatto che avrebbe potuto
tranquillamente andare un minuto al bagno a rinfrescarsi. Come le
braci che si riattizzano col vento, quel colloquio gli diceva che
aveva fatto bene a tirare dritto ed a passare senza una lacrima in
quel tritacarne di licenziamenti che era stata l'azienda negli ultimi
due anni. Aveva spacciato quell’incontro a genitori ed amici come
una formalità, una stretta di mano che sugellava finalmente
l’ingresso nell’istituto, la sua realizzzione professionale.
Magra, ma cazzo, l’avrebbe agguantata, mica come quei drogati
dell'Università, quei parassiti dediti a succhiare soldi a chi
produceva. Aveva sondato discretamente che aria tirava, e
discretamente gli avevano fatto capire di stare tranquillo, che non
doveva agitarsi. Low profile, e Paolo tranquillo ci stava, andava in
filiale sereno, sgobbava come il solito, aiutava, si prestava,
copriva i turni; gli ci mancava la branda per dormire nel suo
ufficietto. Solita prostituzione lavorativa, niente di eccezionale.
D’altra parte consolidare la propria posizione significava anche
questo, significava prostituirsi, o con terminologia più gentile
essere motivati, credere nel lavoro di squadra (mio dio, quante volte
aveva recitato quest’altro articolo di fede?)... ed i pensieri
neri, quelli senza nome e senza viso, i pensieri del sottosuolo,
iniziano a fuggire dalle fogne del suo cervello e gli si
aggrovigliano dentro come uno sciame di mosconi, un brulicare di
scarafaggi.
Entra Serena, la signorina Arienti,
segretaria personale di Colletti, una sventola di donna. Lo guarda
come sempre con un misto di freddezza e sufficienza, un'espressione
che un tempo lo aveva gasato, eccitato – poche seghe s'era sparato
pensando a lei! – «Terenzi, si accomodi, il dottor Colletti
l'aspetta». E senza una parola, la bocca asciutta, la gola secca e
sudato da far schifo, Paolo si alza, con la costante e fastidiosa
sensazione della fodera sintetica che gli si appiccica tra le gambe.
Senza alcun motivo apparente, e su questa parola, nella sua mente, si
concentrano tutti gli sforzi per “avere un pensiero positivo”,
sente di non dover cedere all'irrazionale. Sfilando il corridoio
sulla destra, a pochi passi dalla porta oltre la quale si decide di
lui – la fugace e rapidissima succesione dei pensieri e delle
immagini relative ad un suo futuro come dipendente dello studio a
tempo indeterminato lo fa arrivare anche ad immaginarsi di mettere
una mano sulla spalla di suo padre e ridere insieme – avverte come
una fitta dentro il cranio. Una fitta che si traduce in un buco
dentro di lui. Paura? Ha come l'impressione che nugoli di tafani
impazziti ne escano fuori: un brusio enorme che gli cresce nelle
orecchie, come l’alluvione che s’ingolfa nei sotterranei ed
inizia a risalire attraverso fognature, condotti e tubature. I topi
scappani dai recessi, il fetore sale…
La Arienti bussa leggermente alla
porta. Dall'altra parte si sente un “avanti prego” smorzato ed
insofferente. Milioni di piccole ali che ronzano. Un fremito costante
di sottofondo che si diffonde dentro la sua scatola cranica.
Arianna apre la porta e facendo cenno
a Paolo di entrare s'inchina leggermente protendendo la testa in
avanti. Involontariamente gli occhi di Paolo cadono nella scollatura
di lei. E nota per la prima volta da quando era lì, che non porta il
reggiseno ed ha due belle tette con i capezzoli carnosi e un po’
scuri. Il ronzìo si gonfia e s’inferocisce. Vorrebbe infilare una
mano in quel decolté per palpare la consistenza delle sue
aspettative. Quelle di una vita che non sia sopravvivere, ma mordere
con avidità. Entra nell’ufficio mentre la segretaria del direttore
gli socchiude la porta alle spalle, mandandolo mentalmente a fare in
culo. Uno delle decine di ometti senza palle che passano per
l’ufficio di quell’uomo. Arianna Arienti è una di quelle donne
che ha interpretato la lotta di tutti contro tutti che è oggi il
mondo in cui viviamo, in un modo molto semplice: stare sempre dalla
parte di chi ha il potere. E rimanerci attaccata quanto più a lungo,
con ogni mezzo, al di là del bene e del male, in una versione feroce
e spietata del motto nicciano. Non sa però che se l’amoralità è
una categoria politica prima ancora che morale, il passo successivo è
che la violenza – la quale di per sé è strumentale quando viene
esercitata secondo un fine ed un progetto (categoria del politico), o
è fine a sé stessa e dunque assertrice di autoritarismo e violenza
come cardini centrali del potere (categoria del diritto) – quando
vengono rase al suolo le illusioni che costituiscono il
multipalcoscenico della vita cosiddetta civile (il famoso disagio
della civiltà), assume la forma di un desiderio assoluto, è la
terra ed il mare ed il cielo senza fine che stanno oltre questo
estremo e fragile dominio “umano”, è il grido genetico della
selezione naturale, vita o morte, la componente elicoidale della
nostra esistenza: attacca, scappa, difenditi. Combatti o muori. Nen
lo sa, ma di lì a poco ne vivrà fino in fondo l’accecante verità.
«Buon giorno dott. Colletti». Si
potrebbe dire che sia la sua bocca da sola ad esclmare con un
entusiasmo automatico ed asettico queste parole, mentre Paolo rimane
impalato, in piedi con le spalle alla porta, con lo sguardo che
vorrebbe essere vivace, ed invece cova il terrore. E sotto il terrore
il ronzio aumenta, facendogli vibrare il fondo degli occhi come un
crescente bradisismo. Ha appena chiuso la porta ma senza quasi
rendersene conto ha già perso il controllo di una parte di sé, per
l’esattezza quella che ha capito la catastrofe imminente con
l’olfatto tipico delle bestie, della bestia che siamo, e tenta di
fuggire, ma non può, chiusa nel perimetro biologico di un corpo
ancora controllato dagli strati frontali della corteccia cerebrale,
quei trascurabili diecimila anni di evoluzione recenti. L’animalità
però strepita, sciama via, scappa. E si è già resa conto, però,
che non ci sono vie di fuga…
«Buon giorno a lei Paolo...», gli fa
di rimando l'uomo che rimane assorto e seduto dietro la sua
scrivania. La figura del suo capo gli ha sempre rammentato, alla
lontana, le statue degli imperatori: una persona a suo modo piena
d’autorità, di calma e forza. Almeno al primo impatto. Poi però
quando venivano messi a fuoco i dettagli emergeva una personalità di
cartapesta: dall’abito sartoriale ai gemelli d’oro bianco, l’aria
azzimata ma allo stesso tempo plasmata dal sudore delle palestre per
rampanti che sono saliti da poco sul dorso dei cinquanta,
l’abbronzatura eccessiva che sapeva tanto di lampada (certo, magari
in un esclusivo solarium dei Parioli), le meches… oggi questi
dettagli sembrano a Paolo grotteschi nella loro mostruosa evidenza.
Un marchio d’infamia e di rapina. Alle spalle di Colletti, come un
fondale metaforico, le vetrate dell’ufficio si aprono sulla
campagna romana, là dove i tentacoli della periferia non sono ancora
del tutto arrivati con le loro metastasi di cemento e cantieri, là
dove lui, quell’individuo che ora chissà come mai emana un’odore
di preda, non è ancora arrivato coi suoi traffici. Quelli ai quali
Paolo sta per affidare il suo futuro, che in una frazione di secondo,
nel baluginio della luce sui vetri, si dispone nella massima apertura
possibile, ovvero diviene incerto. L’incipit di tutto quello che,
tempo qualche altro minuto, sta per accadere, però, lo dà quel
«Buon giorno a lei Paolo...» impastato con quel tono a metà tra la
sufficienza e l'indolenza in cui anche un micragnoso buongiorno, alle
orecchie di paurosi e ricattabili, suona come un'elemosina di
gentilezza. Quel gesto sonoro di elemosinare un buongiorno che si
nutre solo dell’emissione vocale e di nessuna partecipazione,
foss’anche quella dell’affettazione, colpisce l’animo di Paolo
come un sordo e profondo gong. Inizio primo ed ultimo round. Le onde
sonore di quel colpo si diffondono in lui come quelle che si
allargano sotto il pelo dell'acqua, in lui già attraversato dai
ronzii di calabroni e tafani che l’ippocampo non è più riuscito a
serrare nelle sue capienti e buie stive e che hanno attivato
l’amigdala che sta diffondendo il suo messaggio da cervello rettile
nel sistema nervoso centrale, con lo stesso effetto di un’onda di
terremoto in fondo al mare. Al largo della sua coscienza si forma
un’onda anomala, che in un breve arco di tempo s’infrangerà
sulla sua vita ed in quell’ufficio con la violenza di uno tsunami.
Qui però occorre fare qualche passo
indietro, non molti, diciamo venti, trenta minuti prima, proprio
mentre il dott. Colletti (in realtà ragioniere, ma in cima al
gruzzolo non indifferente che aveva raggranellato con le sue
molteplici, frenetiche e mai del tutto trasparenti attività
nell’ambito della compravendita immobiliare e della consulenza
legale, si era potuto dare una vernice di rispettabilità sotto vari
aspetti) sta per rispondere al cellulare, quello, per inciso, sul
quale riceve solo le telefonate importanti. Un numero più che
riservato. Lo avevano solo i suoi contatti in paradiso, come diceva
lui scherzando. Su quel telefono passavano le comunicazioni che
davano linfa al suo business. Esiste un vario ed articolato mondo,
fatto di personaggi di seconda o addirittura terza e quarta fila, che
ruota attorno ed attraverso la politica, gli affari. A volte i
personaggi in questione non sono neppure nelle file più defilate:
semplicemente sono ombre, passi discreti che scorrono altrove mentre
il politico di punta fa la sua conferenza stampa, parole dette
lontano da orecchie e cimici indiscrete, dentro saloni affrescati in
palazzi di proprietà della curia, o in ville appartate, oppure in
qualche anonimo e ben curato appartamento la cui proprietà finale, o
perlomeno l’uso garantito, potrebbe risultare, dopotutto, tra le
dipendenze del ministero degli Interni in una delle sue numerose e
non sempre ufficiali articolazioni. Colletti era stato bravo,
discreto, intelligente abbastanza da capire che l’unico modo di non
far sentire la puzza delle sue origini non proprio elevate, il suo
essere un pivello appena arrivato, almeno rispetto a certi banchetti,
era di stare al suo posto, di fare quello che gli si chiedeva di
fare, di non provarci nemmeno a vantare certi contatti. Dopotutto era
uno che non sgomitava troppo, non dava troppo a vedere, e soprattutto
aveva il buon gusto e l’intelligenza di stare zitto quando non
doveva parlare. Insomma: era un affidabile e discreto factotum.
Questa sua efficienza e discrezione lo facevano tenere in buona
considerazione presso certi ambienti. Esattamente quelli che vivono,
si muovono e lavorano e fanno affari in quella che un tempo si
sarebbe chiamata “la zona grigia” tra legalità ed illegalità,
ufficialità ed ufficiosità, politica e criminalità. In pratica
quella che oggi costituisce l’intelligenza diffusa, il vivo
proliferare di differenti centri d’interessi in perenne lotta tra
di loro, la struttura portante del potere attuale in Italia: una
melassa informale che ingloba ed avvolge e digerisce come un blob
qualsiasi aspetto della vita economica, politica e sociale che
ambisca a sollevarsi dalla mera sopravvivenza dei vari tizio caio e
sempronio di turno, o, nel caso del nostro eroe, Paolo Terenzi. Stare
dentro questa melassa non era affatto un gioco, ma dava le sue
soddisfazioni. E ci si poteva cavare un mucchio di soldi. Anzi, ci si
cavava un mucchio di soldi. E non solo.
Marco Colletti quindi porta
all’orecchio il cellulare, con quel filo di controllato disagio che
dopotutto prova ogni volta che risponde a quel numero, un misto di
emozione, adrenalina, speranza ma anche un filo di paura. «Pronto,
buongiorno!», esclama senza neppure sognarsi di dire “Chi è”
come farebbe qualsiasi persona normale rispondendo al proprio
telefono. Breve silenzio… Il filo si tende e s’ingrossa nella
testa di Colletti… «Pronto… buongiorno», ripete leggermente
esitante. «Oggi tu doveva pagare qualcosa vero?» dice calma una
voce dal pesantissimo accento dell’est. Il fiato del direttore
della Investimenti Roma SpA si fa roco, “Come cazzo è
possibile…!?” gli dice una voce nella testa, “Come cazzo hanno
avuto questo numero…!?”, e mentre questi pensieri si formano
nella sua testa ingombra da quello che era un filo di paura ed ora si
sta trasformando in una cima da ormeggio per transatlantici, la voce
al telefono, calma e con una costante nota minacciosa di fondo,
ripete: «Noi avevamo accordo amico, tu questo lo sai vero?».
Colletti galleggia per qualche secondo nel vuoto pneumatico che si è
aperto intorno a lui come una bolla, riesce perfino ad udire il
battito del suo cuore che rallenta, mentre la corda di paura si è
animata, scende dalle orecchie e comincia a serrargli la gola come un
cappio… «Non vuoi parlare, bene, parlo io, nema problema. Noi
abbiamo fatto molto bene favori a te, tutto quello che volevi, noi
precisi. Ora però tu fai furbo, e questo non va bene. Sai dove e sai
come. Questa sera vieni e tutto finisce. Dire va bene!». Colletti
deglutisce un bolo di saliva che sembra fatto di sabbia secca e
vetro, e con una voce che non riesce a capire da dove gli venga
fuori, risponde: «Va bene, a stasera, risolviamo tutto…», non fa
a tempo a terminare del tutto la frase che l’altro, scandendo con
durezza e sempre col solito tono calmo le parole, dice «Spero per
te, amico.», ed attacca, lasciandolo con il telefonino a mezz’aria,
vicino all’orecchio. Il tempo che trascorre tra la chiusura della
comunicazione ed il lento movimento con cui Marco poggia il cellulare
davanti a se sull’ampia scrivania d’acciaio cromato e vetro
brunito, tenendoci una mano sopra quasi per nasconderlo, sembra
un’eternità. Un tempo dilatato in cui gli occhi di Marco si
muovono a guardare quello che lo circonda, valutando solo, per il
momento, la gravità del rischio, la pericolosità della situazione,
e soprattutto le sue reali disponibilità economiche immediate…
Ripercorre la catena degli eventi, i favori chiesti ed ottenuti, le
promesse, i magheggi e gli affarucci meno limpidi. Ed istintivamente,
ancor prima di aver terminato la ricostruzione, con quello che Pascal
avrebbe chiamato esprit de finesse, coglie l’essenza del suo
errore: non è voluto stare al suo posto, e non tanto rispetto ai
suoi santi in paradiso, no, ma con questi cani rabbiosi, questi
delinquenti, questi pezzenti… già, pezzenti che però, chissà
come, avevano il suo numero, quel numero, e quindi, cazzo, tanto
pezzenti non dovevano essere, non potevano essere…
I pezzenti che tanto pezzenti non
dovevano essere erano alcuni cani radagi, o almeno così gli era
sembrato di poterli catalogare, che gli avevano fatto diversi favori,
diciamo così: far sgomberare persone dagli immobili rilevati da
ristrutturare, impedire, per così dire, ad alcuni piccoli
concorrenti di dare troppo fastidio, rendere più malleabili alcuni
proprietari di terreni, ammorbidire le idee troppo rigide di qualche
fornitore o cliente. Lo sporco braccio secolare di un sacro potere di
cui lui era uno degli officianti. Non ricorreva a loro spesso, questo
era vero, ma quando era stato il momento, non avevano mai mancato di
accontentarlo, precisi e puntuali, oltre che efficaci ed efficienti.
Solo che col tempo le loro richieste in termini di soldi erano
aumentate. Da banali pretoriani al suo servizio avevano però preso
consapevolezza del loro ruolo, valutando senza imperizia che i loro
favori, in un paese come l’Italia, per un personaggio come lui,
erano molto preziosi, più di quanto lui stesso credesse. Ripassando
i ricordi – per un uomo nella sua posizione avere una memoria di
ferro è un requisito fondamentale – notava che dai primi contatti
erano via via migliorati sia i loro modi, sia il loro abbigliamento.
Da evidenti manovali del crimine a qualcosa di più presentabile.
Certo, sempre con quell’odore ferino di assassini ripuliti, con
quelle decise rughe attorno agli occhi, le mani con le unghie sempre
troppo corte e le dita troppo tozze, sempre con un italiano
approsimativo, ma più ripuliti. Più in grana. Gli avevano fatto
parecchi favori, sempre ben retribuiti, e mai un problema, ma negli
ultmi tempi Colletti, che anche se era uno che sapeva stare al suo
posto non voleva diventare l’ennesmo qualunque, ma almeno crearsi
una sua autonomia, un suo spazio di manovra, era ricorso a loro in
diverse occasioni, e non solo del tipo problem solving, in altre
parole fare in fretta quello che legalmente avrebbe richiesto tempi
inaccettabili alla dinamica del denaro e del potere, ma anche per
scopi, diciamo così, ricreativi. Poche parole in un garage, se lo
ricordava ancora: «Se serve donne, droga, chiedi pure amico, noi non
siamo albanesi che fa rapina in villa, credi a me. Io mai ho mentito,
signor Colletti…? Noi facciamo buoni affari: tu con noi, noi con
te. Possiamo fare affari più buoni…». Così gli aveva detto il
tipo che pareva essere il capo, uno con due occhi spaventosamente
scuri e bui e profondi e mani che a vederle uscire dalla manica di un
indumento poco più elegante di una maglietta facevano anche più
paura… E lui di affari “più buoni” ne aveva fatti eccome. Al
consigliere regionale col vizietto aveva procurato quel che gli
occorrerva, rosa e purissima. Al giudice con la fregola aveva fatto
scaricare la coscienza attraverso canali più naturali che il
diritto… Ma queste erano cose non enormi, non troppo vistose. Ma
non riusciva a capire come fosse finito nelle loro mani “quel”
numero…In realtà quello che probabilmente era stato un passo un
po’ troppo in là, sebbene sulle prime non avesse avuto la
prontezza di fare quel collegamento, quel passettino falso un tantino
di troppo rispetto alla sua posizione, era stato il ricevimento nella
sua villa a via della Giustiniana, anche perché quella volta erano
venute persone che conosceva solo per interposta persona, attraverso
i suoi santi in paradiso, molti dei quali avevano comunque fatto
capolino, e al seguito erano venuti anche anche nuovi visi e
personaggi all’apparenza dimessi. E lì gli era stato chiesto un
favore da uno dei suoi santi in paradiso, quello di mettere a
disposizione di alcuni di quei signori lo studio appartato, quello
con la parete a vetrate che dava sul parco dove una fila di pini
marittimi cresceva giusto sul ciglio dello scollinamento che
digradava in un prato a perdita d’occhio. Il suo studio in cambio
dell’apertura di un conto off-shore sul quale attraverso una delle
sue molteplici scatole cinesi sarebbero dovute passare alcune
transazioni rispetto alle quali si imponevano esigenze di estrema
riservatezza, come gli era stato fatto capire con uno sguardo
amichevole dietro il quale si ergeva un muro di spietatezza fomale.
Armi, per la precisione, per il supporto a non ben definite unità di
non aveva capito bene cosa. In ogni caso armi, questa era la parola
che gli era rimasta infitta nel cervello. Avrebbe avuto il suo
vantaggio, certamente, su questo gli era stato assicurato che non ci
sarebbero state scorrettezze, a breve sarebbe stato formalizzato il
tutto. Lo aveva tirato dentro ad un affare più grande di lui. Non
era stato scelto perché affidabile. Era stato usato perché non
poteva dire di no. Ed il grazie di uno di quei signori così
silenziosi e defilati, in onore dei quali il suo studio era stato
trasformato in luogo di certi affari, aveva un accento esotico ma per
niente piacevole, così come la consistenza della sua stretta di
mano. Una mano incongrua rispetto all’abbigliamento. Curata certo.
Ma mano da guerra, non da ufficio, mano da mitra, non da penna. Una
mano che lui non poteva saperlo, ma anni ed anni prima aveva stretto
anche quelle dei miliziani dell'UCK…
Tutto questo era accaduto quasi un
anno prima, anno durante il quale con discrezione ma con crescenti
volumi di denaro, l’attività del conto era stata sempre accorta. E
da quel fiume carsico che scorreva nei canali sotterranei del sistema
bancario, per vie più che traverse, anche lui aveva tratto la sua
bella sporta in termini non tanto di denaro, ma di agganci, di
contatti, di commesse. Un mondo leggermente differente da quello in
cui Colletti era uso muoversi. Eppure quella leggera differenza
faceva, a quei livelli e secondo le regole della scala delle
grandezze, una grande differenza. Ed in quella differenza Marco
Colletti aveva commesso, aveva dovuto commettere qualche stupido
errore di cui non riusciva a tracciare il profilo. Almeno non in un
lasso di tempo così breve. Ma una cosa era ora certa. L’unico
canale attraverso il quale “quel” numero era potuto cadere nelle
mani di Jimmi l’albanese – o come diamine si chiamava il tipo che
quando glielo aveva presentato un altro suo amico, dal loden verde
fuori moda quanto i suoi modi ma molto ben inserito dove occorreva
essere inserito – era il canale aperto dopo quell’affare. Un
canale fatto di alcuni viaggi in Montenegro ed in Kosovo, di giri tra
il Liechtenstein e le
isole Vergini, dove le incognite erano molte di più di quelle a cui
era abituato. Dove le mani da stringere erano divenute, sempre più
spesso, mani inquietanti nella loro forza e nell’evidenza della
loro attività più propria: la guerra.
Mani come quelle che l’avevano
impressionato tanto in quel garage. Lo stesso tipo di mani, lo stesso
tipo di uomini. Ecco come cazzo avevano avuto “quel” numero!
Ed ora rimandiamo avanti, mezz’ora
dopo circa, tentando di tenere intatte le interne reciproche
tensioni, gli scenari di vita o di morte, di disperazione e di
angoscia che ciascuno dei due sta sviluppando dentro di sé. Uno che
ha covato l’uovo malefico di questo momento con cure maniacali e
quasi perverse e sente di aver covato la catastrofe della propria
vita, il mostro che lo sta per ingoiare, e l’altro che come un
ballerino abituato a passi precisi e veloci, sente che sta invece
perdendo in brevissimo tempo l’equilibrio per un’errore di ritmo,
di equilibrio, di esatta posizione dei piedi, e sta per cadere giù
da un precipizio, se gli va bene.
Paolo Terenzi in piedi con alle
spalle la porta chiusa, come a dire che indietro non si torna, così
come lo abbiamo lasciato, sul ciglio di un baratro che si è già
aperto in lui e Marco Colletti seduto difronte, Marco Colletti che
non fa neppure finta di alzare la testa per salutarlo e strascica
indolentemente e quasi senza pensare le parole, saturo di impazienza
e bisogno di trovare una soluzione che gli pari il culo rispetto alla
parte che ha omesso di dirsi nella precedente ricostruzione (il
tentativo cioè di crearsi una sua capacità di manovra, ovvero
facendo il furbo su quei passaggi di denaro, ovvero sottraendo,
stornando, diversificando, maneggiando, pensando ancora di avere a
che fare con gli edili romani o i bancari di casa nostra, o con gli
appalti a mazzette e festini… ), o molto più plausibilmente gli
salvi la vita – ed anche questo, così come a Paolo, glielo dice
una parte della sua coscienza che ha già snasato il pericolo
incombente ed inevitabile; solo che nell’imprevedibilità
stupendamente creatrice della vita l’allarme è giusto, certamente,
ed anche il pericolo. Solo che stanno per arrivare nel momento e
dalla persona sbagliati.