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sabato 10 dicembre 2022

DA OGGI CI VEDREMO QUI


Era da tempo che ci pensavo, ma l'ultimo blocco che Facebook mi ha imposto - per un commento di due righe nel quale non compariva neanche l'ombra di un termine volgare o offensivo - mi ha fatto finalmente decidere. Non userò più questo social. Mi ha annoiato, ma soprattutto mi infastidisce. Già anni addietro mi ero preso una più che salubre pausa di circa due anni. Ora la misura è davvero colma.

Sulle ragioni della noia non mi soffermerò, perché sono del tutto personali e io sono uno che si annoia facilmente. Ma su quelle del fastidio, invece, sì, mi soffermerò e ci ragionerò anche. Perché l'apparente assurdità che mi suscita fastidio, da un punto di vista razionale è il mandante di quanto avviene in termini di controllo su questo social. E siccome verum quia absurdum, sul tipo di controllo che serpeggia in e ormai anima Facebook, mi riservo di tornarci su.

Sono incerto se chiudere definitivamente il mio profilo, dopo averlo reso visibile solo a me stesso per il tempo utile a scaricarmi immagini e testi che mi interessano e che non voglio disperdere, o lasciarlo andare alla deriva.

Probabilmente lascerò solo un post, con le indicazioni per trovare questo blog sul quale continuerò a scrivere le mie riflessioni, le mie sciocchezze, i testi che mi piace scrivere. Potendo felicemente disinteressarmi del fatto che questi rispettino o meno i cosiddetti "standard della community", un'espressione che nell'uso greve e mistificatorio di termini anglosassoni nasconde sic et simpliciter una censura dinamica, un controllo delle possibilità stesse di espressione, spacciato per rispetto e correttezza.

Ecco perché lascio Facebook: perché a me piace scrivere, e qui sul mio blog potrò scrivere quello che desidero, nel modo che desidero, con le parole che desidero, senza delatori, censure, controlli e quell'asfissiante atmosfera di "libertà e democrazia" che impera in Facebook, quel clima opprimente di controllo, di sospensioni, di odio a briglia sciolta, di pregiudizi e ignoranza spacciati per correttezza culturale.

A chi piace leggermi, lo farà qui, dove potrà commentare, darmi indicazioni, segnalarmi incontri, libri, film, serie, quello che desidera, anche criticarmi pesantemente. Anzi, lascerò a chi vuole seguirmi la mia email e periodicamente pubblicherò i testi di chi vorrà collaborare al blog. Perché «le parole sono azioni», diceva Ludwig Wittgenstein, e mai come oggi questo vuol dire scegliere, schierarsi, decidere, avere il coraggio intellettuale di prendere posizione. Fosse pure sul come dimostrare vicinanza, apprezzamento, amicizia, volontà di interloquire.

Me ne vado da Facebook non perché sia contro la tecnologia e l'evoluzione dei media - evoluzione che però, badate bene, non vuole dire affatto progresso, un'idea essa stessa balorda e foriera di distruzioni e pregiudizi - o perché sia animato da un deprecabile e nel mio caso improbabile "luddismo informativo", no. Semmai lascio questo social proprio perché trovo che sia ormai più che vecchio e che a fronte di potenzialità tecnologiche enormi, l'uso che ne viene fatto da parte di chi lo gestisce, sia tristemente simile al controllo dei vecchi e tradizionali mezzi di comunicazione di massa.

Abitare il mondo è l'imperativo etico, scientifico e politico di chiunque sia un utopista. Ma abitarlo dentro una gabbia predisposta per dare l'illusione di essere liberi, no. La scelta, allora, deve essere quella di mostrare che il mondo non finisce nel perimetro della gabbia, ma continua anche fuori.

Questo dunque non è per niente un addio. Chi vuole può rimanere in contatto con me, e viceversa io rimarrò in contatto con le persone con le quali desidero continuare ad avere uno scambio. Bisogna vincere l'inerzia delle abitudini, la facilità del ditino sullo shcermo dello smartphone, e sostituirli con l'impegno di ricercare una condivisione, di offrire e usufruire di informazione in modo il meno controllato possibile.

Viviamo sommersi di informazioni, immersi spesso a forza in una corrente potentissima, intensa e percettivamente totalizzante di stimoli. Mi piace pensare che però rimaniamo comunque capaci di scegliere in che modo abitare questo ambiente, e su questo insisto perché sono contrario a qualsiasi determinismo tecnologico. Io ho deciso di abitarlo fuori dal fiume fangoso di Facebook, cercando di spostarmi in un'ansa in cui l'informazione fluisce in modo diverso, in cui le correnti non travolgono tutto con valanghe di materiali, spesso veri e propri smottamenti psico-sociali, di dimensioni enormi, sversamenti di frustrazioni, di odio, lo spurgo della frustrazione sociale. Un'ansa dove come organismo che abita questo ambiente, mi sento decisamente più a mio agio.










sabato 27 novembre 2021

 

LA SAGA DI MENW E LA STORIA DI MICHELE

seconda parte

 

Come avevo promesso, posto il seguito del racconto dell'angelo, che scrissi circa 35 anni fa. Cacciato dal Paradiso per un periodo di rieducazione, Michele finisce in un mondo ancora più strano.

Personaggi ed ambientazione del luogo di esilio dell'angelo sono presi dai Racconti gallesi del Mabinogion e la Saga irlandese di Cu Chulainn, un libro che lessi avidamente da ragazzo, quando assieme a pinte di Guinness mi dilettavo di ascoltare musica celtica.

 Mi affascinava l'idea di un mondo a metà fra quello divino e quello umano, un mondo in via di scomparsa, fatto da esseri dei boschi, di saghe e magie. Un mondo di transizione, per così dire. 




Era una fresca sera di bosco, le stelle si affacciavano, con i loro occhi lucenti, dagli strappi fra le chiome della vegetazione arborea. Aranrot giaceva stanca e felice poggiando la testa sul petto del suo compagno, Lugaid, e distesi sulle contorte danze delle radici d'un albero, osservavano il fluttuare lento e denso della bruma sopra il piccolo lago, sul quale si accendevano centinaia di lucciole; i grilli non sfregavano il loro canto, mille foglie danzavano in magici soffi di vento; decine di occhi verdi, rossi, celesti, rilucevano in silenzio.


La calma regnava nel bosco, ed il tacere avvolgeva ogni cosa. Complici della mesta e maestosa cerimonia, gli animali tacevano, e sui rami delle fronde centinaia di minuscoli gnomi, con i loro smisurati cappelli, e le campanelle fasciate per non suonare, ammutolivano nel loro riposo, un omaggio alla notte. Tutto il sottobosco, punto di pungitopi e carezzato di felci, strisciava basso coi suoi minuti abitanti e bacche e profumi di lamponi e more fragranti di rugiada ed erba fresca.


D'un tratto un fruscio in alto, un balzo all'ingiù dall'oscurità del cielo ed una figura che piomba ed esplode come una cascata in uno squarcio di suoni, un avvitarsi scomposto e vorticoso di ali, piume che si spargono ovunque, una serie di capriole in aria, grida acute e un tonfo sordo e l'acqua accoglie rumorosamente il caduto, e spruzzi d'acqua, animali che fuggono, centinaia d'ali prendono il volo, piccoli passi frettolosi in ogni direzione, la bruma spazzata dalla danza volante, foglie pestate, rami spezzati e poi, lento, l'ondeggiante scendere di un piumaggio in pezzi.


«Poveri noi, cosa sarà mai, mio sposo?» disse piano Aranrot abbracciandolo. «Non lo so, mia sposa, non lo so, ma via, andiamo subito dal vecchio Pwyll, la cerimonia del silenzio è stata violata, dobbiamo tutti correre da lui, alla vecchia quercia del corvo.»

 

Frattanto, mentre tutti fuggivano, il malcapitato avventurato caduto nel laghetto durante una delle più importanti date dei riti magici, gridava disperato: «Deus, cur tantam poenam accipere debeo?! Cur Deus meus?! Ne me relinqueris...!» e continuava, sbatacchiando fragorosamente le ali sullo specchio in cui il cielo andava in frantumi. «Ma parla latino!» disse Llasar «la stessa lingua degli orsi Romani, forse è uno di loro...» «Mio caro» rispose correndo il vecchio gnomo Fer Baeth, con la pipa in una mano «i Romani non cadevano dal cielo, e poi...» trasse una boccata dalla sua pipa «e non avevano ali; se credi ancora che sia un Romano... fai pure, altrimenti continua a correre e... ah, attento al fungo... e veloce!» e sbuffò dal lato delle labbra sottili il fumo della pipa.


L'antica cerimonia del silenzio, nel calendario religioso dei popoli dei boschi, era destinata ad omaggiare il sonno e la notte, in cui, quando gli occhi si chiudono, crescono i germogli, si chiudono i fiori, vengono su i funghi ed ogni cosa, nonostante il silenzio, allunga le propaggini per crescere, e nella foresta si quietano e i spengono gli spiriti del giorno, mentre si levano quelli della notte, della vita nascosta.

 

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«Tutti voi, oh gnomi, elfi, folletti ed abitatori dei boschi, nonché tutti voi, animali, avete osservato quale profanazione è stata perpetrata; tutti voi certo meditate oscure vendette, magie maligne, ed infiniti piccoli prodigi per far impazzire il profanatore» esordì l'anziano Pwyll, mentre lo spiazzo si andava empiendo, «ma vi prego di non farlo, ve lo sconsiglio, ve lo proibisco! Ora...  silenzio popolo del bosco di Powys!!» e dovette quasi urlare «ora, chi ha qualcosa in contrario o da chiedere, faccia pure...» ed attese fumando la sua pipa di radica. «Certo caro vecchio popa: perché non dovremmo vendicare l'affronto, e chi è quello che ancora piange pregando?!» tuonò un abitatore dei boschi,accendendo i suoi occhi verdi. «Vedi, quello è un angelo...» ci fu una pausa, qualcuno rise, altri si guardarono interrogativamente «un angelo è una creatura di sopra il bosco, del cielo, ha ali ed è immortale». «Ma perché non possiamo punirlo?» rispose Celtchair. «Eh, perché, perché!» sbottò Pwyll «qui nel bosco le bacche sono rosse, le radici coperte di filamenti e se vuoi un po' di pace vai alla sorgente del Boann...» «O da Feidelm Noichride, alla quercia maledetta!» urlò qualcuno dal fondo dello spiazzo, e tutti risero. «Sì, andateci pure da quella figlia di Morrigan, e sarete maledetti voi pure; dicevo, tutte queste cose noi le tocchiamo e vediamo, annusiamo e mangiamo, e le sonore acrobazie della fresca acqua udiamo, ma voi, popolo dei boschi, vi siete mai chiesti oltre ciò cosa c'è?». Un silenzio superstizioso e pulsante scese sulla folla, e solo qualche corvo gracchiò «Gra gra, valli, gra, e campi,gra gra e acqua, una grande più del lago, gra!» «Non intendevo questo, ma oltre alle cose, cosa c'è?» Ci fu ancora qualche attimo di silenzio, poi il vecchio Fer Baeth disse «Ascoltai, nascosto fra le erbe, i discorsi di antichi druidi, e dissero di geissa da non infrangere e principalmente dell'Imbas forasnai...» molti mugolarono di paura, qualche gufo volò via spaventato, «ma... credo siano... 'cose', e francamente non ti capisco anzianoo Pwyll, ed ho paura». «Certo, neanche io capisco bene, eppure ricordate sempre le parole del morente Merlino: "Ci fu un tempo di piccoli e grandi dei, e di magie ed incantesimi; ora quel tempo sta per finire, ed una nuova era s'appresta, in cui uno, ed uno immenso e potente, spazzerà dei e dee, e sole, splenderà, unico Dio'; queste parole foriere di presagi disse, e io vi dico, e vi basti... perché più oltre non andrò...» e trasse due profonde boccate dalla sua pipa, carezzandosi la lunga barba, mentre la moltitudine di esseri stava sospesa tra superstizione e timore divino «che da quel sole che noi non vediamo viene consiglio e ordine per quell'angelo che starnazza, affinché sia accolto e curato...» e smise, esausto. «Ma è assurdo: accogliere e curare un profanatore!!» urlò forte Celtchair, «Ma è così che deve essere...» bofonchiò Fer Baeth, ed andandosene, sciolse definitivamente assemblea e cerimonia, mentre un elfo aiutava il capo del bosco a dirigersi alla sua dimora, ormai stremato dalla grandezza delle sue parole.


«Mio sposo, cosa sarà mai di Feidelm Noichride, sola, ripudiata,  costretta a quello che entrambe sappiamo, per tirare avanti?» chiese con sguardo pietoso Aranrot a Lugaid. «Non lo so, mia sposa, ma stanotte ho paura e turerò l'entrata».

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La mattina cinque elfi e tre abitatori dei boschi andarono insieme, al laghetto,per tirare fuori l'angelo, ma strada facendo incontrarono alcuni gnomi seminatori che erano stati fuori tutta la notte a far crescere licheni, germogli,  gemme, e questi dissero loro di non averlo più visto. «Feidelm se lo è portato via» disse il più piccolo «Ed ora?» fece l'elfo a capo della spedizione. Gli otto si guardarono, e mentre gli gnomi sfrusciavano via sotto la vegetazione, passò di lì Lugaid, alquanto agitato. «Fratelli elfi, cugini abitatori dei boschi, avete voi visto il 'cerchio d'argento della mia vita'?» Nelle menti degli interlocutori balenò improvviso un pensiero, volò via, tornò, fu pronunciato: «Feidelm s'è portato via l'angelo, quella specie di cigno, forse che c'entri qualcosa?», «Quella non sai mai cosa  combina!» tagliò corto un elfo «... ma non credo... no caro Lugaid, mettiti in pace, la tua Aranrot sarà in qualche parte del bosco a cogliere more e muschio». La scena, tutta velata di una luce irreale, si scompose: Lugaid,tranquillizzato, tornò sui suoi passi, verso il suo albero, i cinque elfi decisero di andare a fare quattro chiacchiere con i pesci dello stagno, per saperne di più, ed i tre abitatori andarono a bere il sidro alla quercia sul Boann.

 













 


giovedì 11 novembre 2021

LA SAGA DI MENW E LA STORIA DI MICHELE

prima parte

 

Quello che inizio a pubblicare è un raccontino che scrissi quasi 35 anni fa. lo riporto senza modificare nulla, se non qualche virgola qua e là. E lo riporto a puntate, perché comunque è suddiviso in parti, ma anche perché non sarebbe carino appiopparvelo tutto in una volta.

Qualcuno ci vedrà una metafora dell'adolescenza, altri un tentativo mal riuscito. Non lo so. Io iniziai a scriverlo secondo l'unica regola che ho seguito, con costrutto e spesso con diletto, per quasi venticinque anni. Quella cioè di scrivere qualcosa ogni santa sera, ogni santo giorno, fossero pure due righe in croce.

Questa pratica intima e tenace mi ha aiutato moltissimo, me ne rendo conto solo ora, anni ed anni dopo. Averla abbandonata è stato un errore madornale, ed è una dei "peccati" verso me stesso a cui cercherò di porre rimedio.

Il raccontino in sé non so se abbia particolari qualità letterarie - quando l'ho scritto ero sì e no un quindicenne sognatore - ma è l'intento narrativo che mi ha fatto riflettere. Qualche anno fa lo lessi a mia moglie e il suo primo commento, dopo che aveva letto le cose più recenti che avevo scritto - parliamo di una dozzina di anni fa - fu che non sembrava neanche una cosa mia.

In effetti, rileggendolo, mi tornano alla memoria le mie intenzioni: mescolare una vaga idea di religiosità astratta e formalistica con un percorso di crescita che passava per una specie di età magica e poi per il dolore della presa di coscienza di sé (sì, non ero un adolescente normale).

Ad ogni modo. Questo che vi propongo è l'inizio del racconto. La prossima settimana cercherò di postare il seguito.




La docile e beata essenza del suo corpo, un giorno, cambiò. La mestizia, la sottomissione spirituale delle sue ali, vacillarono.

 

Tutto era cominciato dopo un lungo viaggio attraverso l’oceano Pacifico, in una sperduta isola che ospitava un prete visionario. D’un tratto, tornando, s’era accorto di viaggiare ben oltre i limiti, tanto da perdere una piuma che soave ed angelica ridiscese, cullandosi in aria e finendo sulla placida acqua, affogando dolcemente, scomparve. Per questo non era stato richiamato, e per un po’ attribuì ad un “turbamento”, uno di quelli che talvolta colgono anche gli angeli più beati, il fatto. Poi cominciò a preoccuparsi perché avvertiva strani formicolii. La onnisciente onnicomprensiva mente divina lo percepì, ed in un dialogo di spiriti Michele fu consigliato ad andare per un certo periodo di tempo, tanto per ricordarsi della bassezza e perdizione e caducità della natura umana, fra gli elfi dei sottoboschi, fra gli gnomi, e di restarci. Ma non fu semplice. Il consiglio era di tale portata che il giovane angelo si sforzò in ogni modo di reprimere quel suo fiammeggiare improvviso. Era uno degli angeli più belli, più buoni e pii, più celestiali. Era stato fino ad allora in perfetta comunione con la divinità, ed ogni suo volere era stato quello della divinità. Splendeva d’un’aurea luce azzurra pulsante d’Amore, le sue candide ali incantate erano sempre state le più sognate dai vari miracolati, aveva accompagnato la Madre Vergine in molte delle sue frequenti apparizioni, e santi importanti. Una volta aveva suonato la tromba del Giudizio Universale nel sogno d’un anziano cardinale. A causa della cattiva coscienza di quello, lo aveva dovuto portare anche via dal corpo. Poi era accaduto quel desiderio di velocità, poi quello di velocità. Una volta obbedendo all’impulso ribelle, spostò la sua nuvola, s’intrattenne a parlare con un demone messaggero, addirittura s’era messo a fantasticare sdraiato su di un verde prato. Le sue stranezze furono notate, e celestino e Serafino, due suoi carissimi compagni di rosa, lo esortarono a conformarsi al volere della divinità. Prima, però, avrebbe dovuto esporre, personalmente, le cause del suo spostamento, dinnanzi all’assemblea dei celesti presieduta dagli angeli rappresentanti, fra cui il vecchio e glorioso Arcangelo.



Michele, angelo divino, aveva sempre espresso l’ideale più alto di angelicità. Fra tutti, la sua mimesi completa con la volontà ed amore divini era esemplare. La sua lucente spada era l’arma del bene, e nei cieli delle visioni, nei fruscii lievi della preghiera come pure nelle ascesi mistiche, suo era il tocco, sua la genialità. Parlava correntemente tutte le lingue dell’umanità e no, così come gran parte dei dialetti. Era abilissimo nel coadiuvare esorcisti e teologi, ma la sua natura semplice e schietta era più sovente trovarla nei santini dei bambini, fra le labbra della gente in difficoltà, nei pensieri di chi toccava il cielo con un dito. La sua chioma azzurra era fluente ed ammirata, e la sua tunica lucente di ghiaccio scendeva soave come il volo di un iris. Il Consiglio che più volte lo aveva insignito di decorazioni e riconoscimenti, proposto per promozioni nelle gerarchie celesti, per santificazioni tra gli uomani fedeli, si trovava ora ad interrogarlo sul come mai sorgessero in lui codeste spinte estranee alla mente divina. Michele, dunque, al centro di un semicerchio d’angeli con a capo il Venerabile Angelo, in quella serena atmosfera, in cui sentiva uno strano formicolio fastidioso, si accinse ad esporre il suo caso.

 

«Vedete iei celesti, io stesso non saprei. Non richiamo qui il comportamento mio,ossia dell’Altissimo, che sempre ci guida e dirige, che fu e sarà ineccepibile per ciò, non tento di giustificarmi eppure, pur con questo mio sottomettermi non capisco e principalmente non guarisco...» lo interruppe un anziano angelo «Ma Michele, fratello nostro, a chi mai ti saresti dovuto sottomettere? Sai bene come le gerarchie siano, qui, solo formali quanto utili ad un preciso adempimento del volere divino. Ma non c’è chi è sopra e chi è sotto e tutti viviamo in alto sotto l’occhio dell’Onnipotente, e solo Lui nella sua unicità di Padre, Figlio e Spirito Santo ci sovrasta, e Lui è in noi e noi siamo della sua stessa natura, nell’universale concerto della creazione.»

«Venerabile, io so tutto questo, sebbene creda sempre di più di non essere tutto questo… vedete Gran Consiglio, oggi io sono qui dinnanzi a voi, e secondo la Legge, che tutto e tutti domina, dovrei esporvi cosa mi accade; lo stesso nefando Lucifero, nel dì della sua ribellione, alla presenza dello stesso Creatore, fu innanzi a questo Gran Consiglio insieme ad i suoi, ma fu lucido, sapeva il suo desiderio, espose chiaramente le sue idee, per le quali fu gettato dai cieli a conficcarsi giù negli antri oscuri del suo regno, tra l’abbraccio gelido del Còcito, ma si capiva ed aveva coscienza della sua nuova e ribelle natura. Io, padri celesti, non so cosa mi stia accadendo. Se prima avevo gioito e palpitato la mia luce per la gioia innata della comunione con il Sommo Reggitore, e sapevo e so, anche se allora non me ne rendevo conto perché ero, che quella fu, è e sarà l’unica e vera gioia, ora… ora invece sono queste cose perché le ricordo, sebbene di giorno in giorno… mio Dio, perché prima tu compenetravi la natura mia, mentre ora ti invoco!? Dicevo, sebbene di giorno in giorno le vada tristemente infrangendo.»

«Caro fratello Michele – intervenne un angelo più giovane di lui – io mi chino alla tua antica e rispettabile fama di angelo ottimo, ma tutti, anche gli appena creati, conoscono e sono il disegno e la volontà di Dio, come spiegare allora, se non con un peccato di gloria, la tua indecisione,il tuo dubbio...» «Calma piccolo fratello – tuonò grave e profondo l’Arcangelo – noi qui non siamo per giudicare ché la giustizia è divina e alla sua mala interpretazione umana dobbiamo ogni errore, né decidere, ma solo per apprendere, valutare tra loro i vari casi, consultare, proporre, insomma discutere, ma non giudicare, e taci in nome del Divino che ti governa; continua ora fratello mio sofferente».

«Guardate voi stesso mio Altissimo fratello – riprese Michele – cosa vo combinando fra voi, ed anche la soggezione che provo, di cui non conoscevo né sintomi né sensazioni, dinanzi a Voi. Forse il giovane Panfilo è nel giusto, forse no. Vedete Gran Consiglio, io non so più schiarire la mente, farci tornare la luce vera della verità celeste». «Questo accade, talvolta, mio giovane – intervenne l’Angelo dell’Ovest – ma passa; è una normale perturbazione nell’armonia tra la nostra natura divina e materiale, fra il nostro essere e la nostra forma». «E poi – aggiunse l’Angelo dell’Est – capita spesso un tremore, un’incertezza di sé prima di una completa e totale mimesi ed annullamento nel Divino».

«Ora basta – interruppe l’Arcangelo, nuovamente – voi con le vostre opinioni non fate altro che confonderlo. Continua fratello. «Io celesti fratelli capisco,so ed ho provato ciò, ma non è da ciò che mi sembra essere acceso, bensì da ribellioni del mio aspetto, in forme e fogge a me ignote.» «Chiarisciti meglio fratello – parlò Esculapio, da secoli convertito ed assunto fra gli angeli – ci sono molti sintomi fra gli umani, ma fra noi la malattia, l’imperfezione non ci sono; cos’hai mai, dunque?» «Non so – disse con evidente imbarazzo Michele – è come se esso volesse modellarsi in una forma a me estranea: pelurie, strani rigonfiamenti, una strana propaggine, e, cosa di cui per primo mi sono allarmato, fame, cosa di cui ignoravo l’esistenza e la realtà.» «Cos’è “fame”?» chiese un giovane angelo. «È un antichissimo quanto primitivo bisogno di cibarsi del creato, tipico degli esseri viventi animali e vegetali, nonché dei diavoli, di tanto in tanto...» gli rispose una voce. «Proprio così!» rispose Michele. «Un bisogno mai provato, e che pochi giorni fa ha addirittura, e mi vergogno nel dirlo, interrotto, col suo prepotente manifestarsi, la mia ascesi spirituale al Governatore Universale.»

«Possibile – disse un antichissimo angelo reduce della guerra contro i demoni – che esista una potenza tale? Io non credo, dato che tutto è compreso dal Potente, conoscibile e non, reale e non. Mio piccolo, perdona, per quanto tempo hai taciuto la cosa?» «Ho subito un momento come ne passiamo tutti, ma poi, visti i fatti, mi rivolsi immediatamente al Divino...» «Ti rivolgesti a Chi?! - sbottò Panfilo – Il Divino è in tutti noi: è Lui che ci chiama!!» «Calma piccolo – alzò la voce Esculapio – nel giuramento che ognuno di noi compie con l’atto della propria creazione, v’è anche l’esplicita regola di doverci comportare solidali gli uni agli altri… ora, caro fratello Michele, continua.»

«Dicevo, da questi dialoghi col Divino appresi in penosa maniera del mio male.» «Ha dunque un nome questa… come definirla… bizzarria del creato? - riprese l’angelo reduce, che si chiamava Eumaconte. «Non credo sia un nome – rispose Michele – quanto un aggettivo, un qualcosa che determina l’anomalia del mio comportamento.» «In sostanza? - chiese un altro angelo. «In sostanza il Grande Onnipotente mi ha detto che avevo un comportamento… umano, anche se non posso far altro che dedurre che quell’aggettivo sia il “nome” e la causa delle mie pecche, dato che ne ignoro il significato...»

Nel frattempo il Venerabile Arcangelo, come raramente faceva, aggrottò le sopracciglia e si prese, tra il pollice e l’indice della mano destra, il mento; ci fu un sommesso, silenzioso brusio di ali e tuniche fruscianti, poi, autoritaria e decisa, si levò una voce. «Il comportamento umano è qualcosa di indefinibilmente sfuggevole alle nostre menti e che solo la pietà e la Onniscienza di Dio Misericordioso comprendono; in questo Consiglio v’è poco da discutere sull’essenza del problema, o sulla sua ipotetica inesistenza, quanto v’è invece da analizzare come esso si manifesti, ossia le azioni ed i modi di fare che ci diano, in futuro, l’opportunità di capacitarci degli eventi; ora perdonatemi questa mia intrusione, e possa tu, piccolo fratello Michele, tornare nella tua vera essenza e natura, stessa e medesima del volere del Supremo.»

«Caro Arcangelo Michele – rispose l’Arcangelo Gabriele, il Venerabile – quanti secoli che non intervenivi… ! Vedete fratelli, il nostro Arcangelo ha ben esposto quale sia il nostro compito. Ora Michele, vorresti tu esporci quali e quante azioni hai commesso in preda a questo comportamento?» «Non so da dove cominciare e… ecco, la prima volta fu quando dubitai, o meglio, non fui sicuro di dove stavo andando, poi una volta… anzi due, mi fermai a parlare con Dusanghelo, il messaggero demone che portava notizie dall’ottavo girone… » Fra la folla qualcuno, tra cui il gruppo degli appena creati, con a capo Panfilo, ebbe un moto di disapprovazione, poi Esculapio impose il silenzio e Michele continuò «… quindi spostai, e questo lo confesso con rammarico, la mia nuvola...» «Perché con rammarico?» chiese leggermente sorpreso Eutanasio, uno tra gli angeli più contestati per la sua tacita ma operante solidarietà con alcuni suicidi. «Con rammarico perché la posizione che avevo trovato all’inizio era la migliore, poi sono andato via via scadendo nella qualità del mio domicilio.» «Ma è assurdo!» commentò qualcuno.

L’Arcangelo rimase interdetto e l’altro Arcangelo, Michele, si decise a dire le parole fatidiche. «Ma fratelli, perdonate, io stesso non so più bene cosa vado dicendo...» «Appunto.» Fece eco Eumaconte. Quindi l’Arcangelo Michele cominciò a pronunziare laa formula. «I fatti sono chiai, fratelli, ergo: postea Concilium angelicumque divinum questiones consi...» «Ma no! No fratelli, io, vedete, sono sempre stato rispettoso del volere divino con cui mi identificavo, ed ora, ora che sono così turbato, frastornato, vi chiedo solo di non credermi perso… è vero, una volta mi allontanai anche dalla rosa… ma – ed alzò la voce per imporsi sul principio di uno sbotto di grida – credetemi, lo feci nella più completa innocenza. Io tutto questo io vedo e so quanto è grave, ma nell’ora della nostra separazione io vi saluto come angeli veri, come ciò che io non riesco più ad essere...» e smise di parlare, chinando mesto e afflitto il volto sul petto, ubbidiente alla decisione del Creatore.

Riprese di nuovo l’Arcangelo Michele: «Ora che hai anche mostrato ed affermato la tua smarrita angelicità, fratello, non ci resta che pronunziare la formula rituale. Aspetteremo poi il giudizio divino – e quindi procedette alla declamazione della formula – Postea Concilium angelicumque divinum questiones consideravit, ipse ad gratia Dei se committis.» E gli angeli tutti in coro: «Fiat voluntas Eius». E con la voce un esile suono, Michele rispose: «Fiat voluntas Eius».

giovedì 13 giugno 2019

QUI SIAMO A BOTTEGA

La mia immaginazione ha sempre per così dire funzionato in maniera rapsodica, per momenti, per sguardi, ed a dire il vero raramente è riuscita a tradursi in ideazione, in un progetto compiuto da realizzare.
Questa immaginazione si è per anni ed anni applicata ed esercitata, con disciplina, costanza ed impegno – questo lo devo riconoscere a me stesso senza alcuna falsa modestia – al linguaggio poetico, realizzandosi nella scrittura di centinaia e centinaia di poesie, diverse delle quali, e non poche, di un qualche autentico pregio.
Ma ho sempre sentito che il potenziale insito in ciascun singolo momento rapsodico della mia immaginazione avrebbe potuto eccedere, e negli anni più recenti lo ha fatto, permettendomi di scrivere un romanzo e pubblicare un saggio, i limiti del linguaggio poetico. In altre parole io so che questa immaginazione ha la forza di tradursi in una forma più distesa, una forma narrativa o di pensiero.
Ma ciascuno di noi deve fare i conti con i propri limiti, se intende trasformarli in una risorsa, più che in una mancanza. Ed io ho capito, da tempo, che la mia immaginazione è in grado di elaborare certe tematiche, certi particolari sguardi, di mostrare alcuni recessi poco frequentati, insomma non irradia una visione chiara e strutturata che automaticamente costituisce il centro della narrazione, ma mi permette di gettare uno sguardo d'insieme, di concentrarmi sui possibili legami fra i vari punti di vista, trasformando questi punti di vista, ognuno col suo proprio “momento” – l'insieme di caratteristiche condensabili in una sorta di puncum barthesiano, ma di natura narrativa – in nuclei narrativi pensati come bolle di immaginazione. E l'unica maniera di articolare in maniera distesa la narrazione della mia immaginazione è quella di far interagire queste bolle, di metterne in scena i movimenti, le interazioni, gli scontri.
In parole semplici cucio le mie storie come coperte patchwork, utilizzando brani, pezzi, lacerti di cose scritte seguendo singoli impulsi immaginativi. Non credo nelle storie lineari, o meglio, non amo scrivere storie che hanno un preciso percorso. Sento più aderenti alle caratteristiche della mia immaginazione scrivere storie in cui non esistono protagonisti unici, in cui non prevale necessariamente una storia. Mi piace scrivere del brulicare, del moltiplicarsi, del sovrapporsi, in un contesto il più possibile ampio, articolato e narrativamente coerente (diciamo la forma e le dimensioni della coperta, per rimanere nella metafora del patchwork).
Il testo che segue, dal titolo passeggero La riassunzione, è un esempio di questo tipo di operazione. Due dei personaggi enucleati sarebbero finiti nel romanzo che scrissi nel 2013-2014 – Il resto di nulla, avrebbe dovuto essere il titolo. Un terzo, invece, sarebbe rimasto intrappolato sulla soglia dell'esplosione, nei limiti di questo testo, anche se di sé ha improntato altri due personaggi non indifferenti della mia immaginazione, due protagionisti sfigati.
La caratteristica principale di questo testo è di arrestarsi sulla soglia dell'abisso senza metterlo in scena, ma avendo raccontato l'accumulo di un carico di violenza enorme. Il linguaggio per innescare questo meccanismo utilizza lo zoom interiore come strumento di focalizzazione ed acutizzazione, in un crescendo di disagio, paura, violenza, confinate però all'interno dei personaggi (la loro vita interiore e le loro percezioni), a farne crescere la pressione interna, per accumulo, appunto. E di far crescere questa tensione interna ai personaggi fino ad un passo dal baratro.
Penso che valga la pena di essere letto, ma non vi aspettate nessun bello scrivere, frasi tornite, tinte tenui o pretese stilistiche. Qui siamo a bottega.






L’abito l’aveva preso alla Romanina, quel centro commerciale di periferia che anni fa fece tanto scalpore e che ora è un posto da borgatari, il parcheggio di giovani e giovanissimi orfani di piazzette ed altri ameni spiazzi di borgata. Vuoi mettere con il Parco Leonardo? L’evoluzione dei centri commerciali era stata spettacolare: da enormi superfici commerciali a vere e proprie architetture del desiderio e dell'interazione. Ormai ci si andava per mangiare, passeggiare, passare il tempo, vedere un film, comperare un libro… Luoghi da vivere, dove il paesaggio era la merce e qualsiasi scambio avveniva all'ombra dei registratori di cassa. E questa evoluzione, su di un altro registro, era andata di pari passo con la trasformzione del lavoro in una merce come un’altra, con allegato il palloso lavoratore di turno, un fastidioso gadget: il costo di un ammennicolo umano. Ora però eravamo oltre l’epoca in cui tutti saremmo stati felicemente impegnati ad incrementare i nostri debiti compulsando come le tette di una troia gli scaffali delle merci, sbirciando le occasioni dell’ennesimo finanziamento come si spia dal buco della serratura, pieni di voglie per l’ultima novità, per l’offerta, per il prodotto che ci sa valorizzare, pronti a virtualizzare l’acquisto, a scegliere il brand più conforme al nostro stile di vita (o viceversa?). Ora, in piena crisi mondiale, questa linea d'evoluzione non smetteva di squadernare i suoi mirabolanti effetti sulla psicologia delle masse. Che come d’uso è una psicologia tra il criminale ed il paranoide, i due registri mentali preferiti da qualsiasi forma di dittatura. Come in ogni periodo buio, le fandonie della religione di turno acquisiscono un potere enorme, come un incantesimo che s'insinua tra neurone e neurone. E la religione del nostro tempo è il mercato, il consumo, la disumanizzazione: i vagiti feroci della reincarnazione del capitalismo moderno. E Paolo, quell’ometto residuale attaccato come l’edera alla parete bitorzoluta e spisciazzata del suo lavoro a tempo (tic-tac…), in qualità di gadget aveva pensato bene di confezionarsi a dovere per l'occasione, ma quell’abito era uno schifo, sintetico al 100% made in Bangladesh, con la fodera che s’incollava sotto le ascelle, il taglio troppo stretto, il cavallo troppo alto, le maniche troppo corte. Per un credente della globalizzazione, un cilicio in offerta speciale. Dentro a quell’abito si raggrumava, sotto l’effetto del calore, dell’umidità e di un malumore acuto e tagliente, il lento scorrere dei giorni e delle ore, come per il latte quando caglia, o quando qualcuno ti fa venire il latte ai coglioni. L’odore fetente del vomito rappreso.. Solo che al posto del latte e del vomito Paolo aveva un bisogno disperato di essere riassunto, di avere un rinnovo in quel porcoddio di lavoro. Della sua fede nel mercato rimaneva solo la speranza, un articolo di fede per disperati, appunto. Ne aveva bisogno perché l’alternativa era rimanere senza lavoro, essere costretto a tornare a casa dei suoi, sotto lo sguardo affettuoso e tagliente della madre, sotto quello perplesso del padre che ormai lo compativa apertamente. L'alternativa era la sconfitta, e per gli adepti del capitale non c'è situazione più inaccettabile, per quanto credano in un mostro che vive di dolore e sopraffazione. Ce la doveva fare! e se lo ripeteva come un mantra per sfigati, una tecnica motvazionale scarnificata fino alla superficie della scatola cranica, dove sotto sotto si gratta l’osso del cervello.. Ne aveva bisogno per non dover sempre stare a stecchetto, per non doversi far allungare i soldi da sua nonna a trent’anni passati. Ne aveva bisogno perché quella merda di lavoro – il suo come quello di milioni di sfruttati come lui, ma ciascuno nella sua disgrazia è solo e dunque a fare in culo la solidarietà da zecche – era l’unico diaframma fra sé e la disoccupazione, tantopiù ora con 'sta cazzo di deflazione crisi recessione, colle banche pasturate da quell'ometto di plastica, le bande di politici che scialavano in appartamenti, orge e mazzette e le maree d'extracomunitari pronti ad incularti il lavoro al ribasso. Che poi disoccupazione in Italia – il regno degli eufemismi e degli ignoranti – è il nome statistico della povertà. Lui non si sentiva un eufemismo, e per quanto ignorante, comunque ci stava bene nella pellaccia italiota. Certe domande non è che non era disposto a farsele: proprio non ci pensava. Quando ancora aveva voglia e modo di andare allo stadio, un bel forza Juve lo faceva sentire orgoglioso.
Dopo aver passato tutti i gironi della contrattualistica di lavoro contemporanea, come a dire un gioco dell'oca all'inferno, era alla stretta finale, anche se pensare quell'occasione, avrebbe detto un tempo, come approdo finale, bhé, aveva un retrogusto rancido. Aveva avuto fegato il Paolo, il fegato marcio di tutti i lavoratori di questo nuovo millennio. Era uno che veniva da una stirpe di sgobboni, lui. Prima contadini, poi operai inurbati, e poi lui, il prodotto raffinato di due generazioni di bucio di culo e di sacrifici. Il distillato contadino e proletario tipico dell'Italia: il piccolo borghese. E quindi il grande salto, l’Università, la laurea, le belle speranze covate in famiglia. Covate come un passero cova l'uovo di un cuculo... Anni di precariato – ma lui ci credeva, cazzo se ci credeva quando aveva discusso la sua tesi di laurea sulla New Economy! – anni di progressivo smantellamento delle speranze. Oggi guadagnava meno di quanto aveva guadagnato appena laureato, fresco di ideologia, con la sua brava partita iva – aperta per essere ammesso fra i collaboratori di uno studio di consulenza che gli elargiva le briciole – pieno di volontà, desiderio di competere, voglia di darle e nessuna paura di prenderle, manco la vita fosse un ring. Ma ora era alla stretta, ring dell'ultimo round. E lui era malfermo sulle gambe e con la guardia un po’ bassa, per rimanere dentro le corde della metafora pugilistica. Assieme ai fronzoli erano sparite le illusioni, sostituite dagli occhi tumefatti che sono quel che resta al risveglio dalle pie illusioni. 'Sti cazzi delle speranze, delle competenze, del catechismo confindustriale... Era alla fine dell'ennesimo rinnovo consecutivo di un contratto a tempo, con i dovuti stop and go per evitare l'assunzione definitiva, e già questa situazione, vista la baldanza iniziale, era di per sé una mezza debacle psicologica, l'implicita ammissione di un errore dalle dimensioni così enormi da spezzare in due la schiena della sua vita. Dopo anni di declino in cui lo spettro della disoccupazione si allungava su di lui come un’ombra gelata… La sola parola disoccupazione lo raggelava perché rendeva vere e solide le parole di suo padre, un uomo dalle mani che erano la testimonianza di una vita di lavoro vero, quello in cui producevi qualcosa, fossero prosciutti, forme di formaggio o tubi d’acciaio e macchine del gas. Parole dure. Lo dovevano quindi assumere! Sì, lui, Paolo Terenzi, ora augurava a se stesso quella che aveva definito una “posizione contrattualista demotivante”. Grattata via l’ideologa, la furbizia, le scorte di denaro, la dignità personale, l’ammissione di non essere stato capace di saltare sul carro dei vincitori quando era il caso (o di non esserci proprio tagliato, il che era qualcosa di ancora più deprimente), ormai il suo orizzonte prossimo si restringeva a quella fessura, a quel taglio di luce che le sue speranze proiettavano sul suo futuro prossimo. Già, perché di suo, praticamente, aveva solo la disperazione del futuro. Oltre a centotrentaeuro in banca, una macchina scassata che usava col contagocce e che voleva vendere. Ed una voglia matta.
Accade sempre in un modo tale per cui quando ci si ritrova senza un cazzo ci si domanda “Ma come è stato possibile?”. Dal risparmio si passa alla necessità e dalla necessità si prende il volo per le lande grigie della soglia della povertà, quando misuri il peso di un biglietto per andare al cinema sul tuo magro salario, quando vorresti portare un mazzo di fiori alla tua bella, ma costano troppo, ed allora ripieghi su sfigatissimi baci perugina, ché pure quelli mica te li regalano…
Ma Paolo è un duro, ha visto i suoi colleghi esuberati, ridislocati, licenziati come vuoti a perdere, senza neppure il soldino che una volta ti davano quando riportavi le bottiglie di vetro al negoziante. E non ha battuto ciglio. Aggrappato alle sue competenze, aggrappato alla sua fedeltà, aggrappato alla saliva ingoiata, saliva sempre più amara. Ed è rimasto al suo posto, disposto anche ora a recitare le litanie ed i rituali del bravo precario, a leccare, a servire, campione inesausto dell’italica virtù del servilismo. Tutta la merda che c’era da buttare giù, l’aveva deglutita, fedele solo al pensiero di poter almeno ottenere un'assunzione a tempo indeterminato. Aveva fatto sue tutte le nostre meschine virtù patriottarde. Disposto cioè anche a barattare la sua dignità con un contratto che ne svilisse il profilo, che lo riducesse al classico impiegato che tanto aveva disprezzato, ai tempi delle belle camicie blu elettrico col nodone, i tempi dell’autoimprenditorialità. I tempi quando davanti alla macchinetta del caffè si magnificava il genio berlusconiano, lo schiaffo in faccia al popolo parassita e pezzente, in nome della libertà d’impresa, dei self-made man. Le bordate a pallettoni contro i sindacati, quella zavorra fatta solo per tutelare gli scansafatiche, quelli che oggi giustamente si dovevano tartassare, i fannulloni!. Bei tempi, tempi in cui non ti rendevi conto di essere un’avanguardia, sì, il battaglione degli immortali di un Serse di cartapesta, anzi, di carta stampata e televisioni, l’avanguardia che apriva la strada allo sfacelo. La strada verso il tuo proprio culo. Che invece avrebbe dovuto essere parato meglio, difeso, protetto. Com'era normale, schifosamente normale che dovesse essere. Ed invece no! Non bisognava avere paura del cambiamento. Solo che il cambiamento aveva ora la piacevolezza di una fodera di qualità scadente, confezionata da mani di ancor più sfigati lavoratori asiatici e che surriscaldata gli si incollava tra le gambe in un trionfo di scroto urticato, di sudore acido. Aveva pure l’alito pesante e una barba fatta maledettamente male.
E oggi Paolo sente solo che quella merda di vestito lo fa sentire un fallito, seduto su quella poltroncina sintetica, accanto alla pianta di plastica nel micro atrio davanti l'ufficio di Marco Colletti, il titolare, il capo, il boss. Sente che anche il centro commerciale dove ha comperato la sua uniforme da soldatino fa schifo e che lui, anche con tutta la paura del mondo, se tornasse indietro rifarebbe tutto, sì, perché l’alternativa sarebbe essere una zecca, un pezzo di merda comunista, essere uno di quei merdosi filoislamici, imboscarsi nel sindacato – e come poi che manco gli era riuscito di conoscerli i sindacalisti? – insomma negare se stesso. No. Impossibile rimangiarsi le proprie convinzioni sulle quali aveva costruito la sua vita, la sua personale rivolta contro un padre che lanciava bestemmie al tempo presente dal fondo della sua impotenza, che continuava a glorificare i tempi in cui era stato una tuta blu, un operaio comunista, ed anche contro gli amici del quartiere che prima lo avevano isolato e poi decisamente mandato a fare in culo. Buttarsi via per la causa, questo sì, anche con rabbia, anche con delusione, con l’intuito per la catastrofe tipico dei perdenti, ma mai tornare indietro. Anche se questo aveva significato rendersi conto delle scelte sbagliate, ma obbligate, verso il nuovo. Ed il nuovo aveva il nome dell'attuale crisi. Il nuovo aveva vinto. Solo che lui che aveva votato, aveva urlato, aveva leccato, lui che aveva spinto, sgomitato, predicato... adesso che aveva vinto si sentiva alla frutta. Anzi, al conto. E non voleva pensare a come poterlo pagare.
L’incontro col titolare – “per la sua riassunzione a tempo indeterminato”, si recitava come una preghiera in testa – era imminente, e Paolo fremeva. Si sentiva bruciare a dispetto delle asettiche luci al neon in sala d'attesa, del dispenser d'acqua, del semplice fatto che avrebbe potuto tranquillamente andare un minuto al bagno a rinfrescarsi. Come le braci che si riattizzano col vento, quel colloquio gli diceva che aveva fatto bene a tirare dritto ed a passare senza una lacrima in quel tritacarne di licenziamenti che era stata l'azienda negli ultimi due anni. Aveva spacciato quell’incontro a genitori ed amici come una formalità, una stretta di mano che sugellava finalmente l’ingresso nell’istituto, la sua realizzzione professionale. Magra, ma cazzo, l’avrebbe agguantata, mica come quei drogati dell'Università, quei parassiti dediti a succhiare soldi a chi produceva. Aveva sondato discretamente che aria tirava, e discretamente gli avevano fatto capire di stare tranquillo, che non doveva agitarsi. Low profile, e Paolo tranquillo ci stava, andava in filiale sereno, sgobbava come il solito, aiutava, si prestava, copriva i turni; gli ci mancava la branda per dormire nel suo ufficietto. Solita prostituzione lavorativa, niente di eccezionale. D’altra parte consolidare la propria posizione significava anche questo, significava prostituirsi, o con terminologia più gentile essere motivati, credere nel lavoro di squadra (mio dio, quante volte aveva recitato quest’altro articolo di fede?)... ed i pensieri neri, quelli senza nome e senza viso, i pensieri del sottosuolo, iniziano a fuggire dalle fogne del suo cervello e gli si aggrovigliano dentro come uno sciame di mosconi, un brulicare di scarafaggi.

Entra Serena, la signorina Arienti, segretaria personale di Colletti, una sventola di donna. Lo guarda come sempre con un misto di freddezza e sufficienza, un'espressione che un tempo lo aveva gasato, eccitato – poche seghe s'era sparato pensando a lei! – «Terenzi, si accomodi, il dottor Colletti l'aspetta». E senza una parola, la bocca asciutta, la gola secca e sudato da far schifo, Paolo si alza, con la costante e fastidiosa sensazione della fodera sintetica che gli si appiccica tra le gambe. Senza alcun motivo apparente, e su questa parola, nella sua mente, si concentrano tutti gli sforzi per “avere un pensiero positivo”, sente di non dover cedere all'irrazionale. Sfilando il corridoio sulla destra, a pochi passi dalla porta oltre la quale si decide di lui – la fugace e rapidissima succesione dei pensieri e delle immagini relative ad un suo futuro come dipendente dello studio a tempo indeterminato lo fa arrivare anche ad immaginarsi di mettere una mano sulla spalla di suo padre e ridere insieme – avverte come una fitta dentro il cranio. Una fitta che si traduce in un buco dentro di lui. Paura? Ha come l'impressione che nugoli di tafani impazziti ne escano fuori: un brusio enorme che gli cresce nelle orecchie, come l’alluvione che s’ingolfa nei sotterranei ed inizia a risalire attraverso fognature, condotti e tubature. I topi scappani dai recessi, il fetore sale…
La Arienti bussa leggermente alla porta. Dall'altra parte si sente un “avanti prego” smorzato ed insofferente. Milioni di piccole ali che ronzano. Un fremito costante di sottofondo che si diffonde dentro la sua scatola cranica.
Arianna apre la porta e facendo cenno a Paolo di entrare s'inchina leggermente protendendo la testa in avanti. Involontariamente gli occhi di Paolo cadono nella scollatura di lei. E nota per la prima volta da quando era lì, che non porta il reggiseno ed ha due belle tette con i capezzoli carnosi e un po’ scuri. Il ronzìo si gonfia e s’inferocisce. Vorrebbe infilare una mano in quel decolté per palpare la consistenza delle sue aspettative. Quelle di una vita che non sia sopravvivere, ma mordere con avidità. Entra nell’ufficio mentre la segretaria del direttore gli socchiude la porta alle spalle, mandandolo mentalmente a fare in culo. Uno delle decine di ometti senza palle che passano per l’ufficio di quell’uomo. Arianna Arienti è una di quelle donne che ha interpretato la lotta di tutti contro tutti che è oggi il mondo in cui viviamo, in un modo molto semplice: stare sempre dalla parte di chi ha il potere. E rimanerci attaccata quanto più a lungo, con ogni mezzo, al di là del bene e del male, in una versione feroce e spietata del motto nicciano. Non sa però che se l’amoralità è una categoria politica prima ancora che morale, il passo successivo è che la violenza – la quale di per sé è strumentale quando viene esercitata secondo un fine ed un progetto (categoria del politico), o è fine a sé stessa e dunque assertrice di autoritarismo e violenza come cardini centrali del potere (categoria del diritto) – quando vengono rase al suolo le illusioni che costituiscono il multipalcoscenico della vita cosiddetta civile (il famoso disagio della civiltà), assume la forma di un desiderio assoluto, è la terra ed il mare ed il cielo senza fine che stanno oltre questo estremo e fragile dominio “umano”, è il grido genetico della selezione naturale, vita o morte, la componente elicoidale della nostra esistenza: attacca, scappa, difenditi. Combatti o muori. Nen lo sa, ma di lì a poco ne vivrà fino in fondo l’accecante verità.
«Buon giorno dott. Colletti». Si potrebbe dire che sia la sua bocca da sola ad esclmare con un entusiasmo automatico ed asettico queste parole, mentre Paolo rimane impalato, in piedi con le spalle alla porta, con lo sguardo che vorrebbe essere vivace, ed invece cova il terrore. E sotto il terrore il ronzio aumenta, facendogli vibrare il fondo degli occhi come un crescente bradisismo. Ha appena chiuso la porta ma senza quasi rendersene conto ha già perso il controllo di una parte di sé, per l’esattezza quella che ha capito la catastrofe imminente con l’olfatto tipico delle bestie, della bestia che siamo, e tenta di fuggire, ma non può, chiusa nel perimetro biologico di un corpo ancora controllato dagli strati frontali della corteccia cerebrale, quei trascurabili diecimila anni di evoluzione recenti. L’animalità però strepita, sciama via, scappa. E si è già resa conto, però, che non ci sono vie di fuga…
«Buon giorno a lei Paolo...», gli fa di rimando l'uomo che rimane assorto e seduto dietro la sua scrivania. La figura del suo capo gli ha sempre rammentato, alla lontana, le statue degli imperatori: una persona a suo modo piena d’autorità, di calma e forza. Almeno al primo impatto. Poi però quando venivano messi a fuoco i dettagli emergeva una personalità di cartapesta: dall’abito sartoriale ai gemelli d’oro bianco, l’aria azzimata ma allo stesso tempo plasmata dal sudore delle palestre per rampanti che sono saliti da poco sul dorso dei cinquanta, l’abbronzatura eccessiva che sapeva tanto di lampada (certo, magari in un esclusivo solarium dei Parioli), le meches… oggi questi dettagli sembrano a Paolo grotteschi nella loro mostruosa evidenza. Un marchio d’infamia e di rapina. Alle spalle di Colletti, come un fondale metaforico, le vetrate dell’ufficio si aprono sulla campagna romana, là dove i tentacoli della periferia non sono ancora del tutto arrivati con le loro metastasi di cemento e cantieri, là dove lui, quell’individuo che ora chissà come mai emana un’odore di preda, non è ancora arrivato coi suoi traffici. Quelli ai quali Paolo sta per affidare il suo futuro, che in una frazione di secondo, nel baluginio della luce sui vetri, si dispone nella massima apertura possibile, ovvero diviene incerto. L’incipit di tutto quello che, tempo qualche altro minuto, sta per accadere, però, lo dà quel «Buon giorno a lei Paolo...» impastato con quel tono a metà tra la sufficienza e l'indolenza in cui anche un micragnoso buongiorno, alle orecchie di paurosi e ricattabili, suona come un'elemosina di gentilezza. Quel gesto sonoro di elemosinare un buongiorno che si nutre solo dell’emissione vocale e di nessuna partecipazione, foss’anche quella dell’affettazione, colpisce l’animo di Paolo come un sordo e profondo gong. Inizio primo ed ultimo round. Le onde sonore di quel colpo si diffondono in lui come quelle che si allargano sotto il pelo dell'acqua, in lui già attraversato dai ronzii di calabroni e tafani che l’ippocampo non è più riuscito a serrare nelle sue capienti e buie stive e che hanno attivato l’amigdala che sta diffondendo il suo messaggio da cervello rettile nel sistema nervoso centrale, con lo stesso effetto di un’onda di terremoto in fondo al mare. Al largo della sua coscienza si forma un’onda anomala, che in un breve arco di tempo s’infrangerà sulla sua vita ed in quell’ufficio con la violenza di uno tsunami.

Qui però occorre fare qualche passo indietro, non molti, diciamo venti, trenta minuti prima, proprio mentre il dott. Colletti (in realtà ragioniere, ma in cima al gruzzolo non indifferente che aveva raggranellato con le sue molteplici, frenetiche e mai del tutto trasparenti attività nell’ambito della compravendita immobiliare e della consulenza legale, si era potuto dare una vernice di rispettabilità sotto vari aspetti) sta per rispondere al cellulare, quello, per inciso, sul quale riceve solo le telefonate importanti. Un numero più che riservato. Lo avevano solo i suoi contatti in paradiso, come diceva lui scherzando. Su quel telefono passavano le comunicazioni che davano linfa al suo business. Esiste un vario ed articolato mondo, fatto di personaggi di seconda o addirittura terza e quarta fila, che ruota attorno ed attraverso la politica, gli affari. A volte i personaggi in questione non sono neppure nelle file più defilate: semplicemente sono ombre, passi discreti che scorrono altrove mentre il politico di punta fa la sua conferenza stampa, parole dette lontano da orecchie e cimici indiscrete, dentro saloni affrescati in palazzi di proprietà della curia, o in ville appartate, oppure in qualche anonimo e ben curato appartamento la cui proprietà finale, o perlomeno l’uso garantito, potrebbe risultare, dopotutto, tra le dipendenze del ministero degli Interni in una delle sue numerose e non sempre ufficiali articolazioni. Colletti era stato bravo, discreto, intelligente abbastanza da capire che l’unico modo di non far sentire la puzza delle sue origini non proprio elevate, il suo essere un pivello appena arrivato, almeno rispetto a certi banchetti, era di stare al suo posto, di fare quello che gli si chiedeva di fare, di non provarci nemmeno a vantare certi contatti. Dopotutto era uno che non sgomitava troppo, non dava troppo a vedere, e soprattutto aveva il buon gusto e l’intelligenza di stare zitto quando non doveva parlare. Insomma: era un affidabile e discreto factotum. Questa sua efficienza e discrezione lo facevano tenere in buona considerazione presso certi ambienti. Esattamente quelli che vivono, si muovono e lavorano e fanno affari in quella che un tempo si sarebbe chiamata “la zona grigia” tra legalità ed illegalità, ufficialità ed ufficiosità, politica e criminalità. In pratica quella che oggi costituisce l’intelligenza diffusa, il vivo proliferare di differenti centri d’interessi in perenne lotta tra di loro, la struttura portante del potere attuale in Italia: una melassa informale che ingloba ed avvolge e digerisce come un blob qualsiasi aspetto della vita economica, politica e sociale che ambisca a sollevarsi dalla mera sopravvivenza dei vari tizio caio e sempronio di turno, o, nel caso del nostro eroe, Paolo Terenzi. Stare dentro questa melassa non era affatto un gioco, ma dava le sue soddisfazioni. E ci si poteva cavare un mucchio di soldi. Anzi, ci si cavava un mucchio di soldi. E non solo.
Marco Colletti quindi porta all’orecchio il cellulare, con quel filo di controllato disagio che dopotutto prova ogni volta che risponde a quel numero, un misto di emozione, adrenalina, speranza ma anche un filo di paura. «Pronto, buongiorno!», esclama senza neppure sognarsi di dire “Chi è” come farebbe qualsiasi persona normale rispondendo al proprio telefono. Breve silenzio… Il filo si tende e s’ingrossa nella testa di Colletti… «Pronto… buongiorno», ripete leggermente esitante. «Oggi tu doveva pagare qualcosa vero?» dice calma una voce dal pesantissimo accento dell’est. Il fiato del direttore della Investimenti Roma SpA si fa roco, “Come cazzo è possibile…!?” gli dice una voce nella testa, “Come cazzo hanno avuto questo numero…!?”, e mentre questi pensieri si formano nella sua testa ingombra da quello che era un filo di paura ed ora si sta trasformando in una cima da ormeggio per transatlantici, la voce al telefono, calma e con una costante nota minacciosa di fondo, ripete: «Noi avevamo accordo amico, tu questo lo sai vero?». Colletti galleggia per qualche secondo nel vuoto pneumatico che si è aperto intorno a lui come una bolla, riesce perfino ad udire il battito del suo cuore che rallenta, mentre la corda di paura si è animata, scende dalle orecchie e comincia a serrargli la gola come un cappio… «Non vuoi parlare, bene, parlo io, nema problema. Noi abbiamo fatto molto bene favori a te, tutto quello che volevi, noi precisi. Ora però tu fai furbo, e questo non va bene. Sai dove e sai come. Questa sera vieni e tutto finisce. Dire va bene!». Colletti deglutisce un bolo di saliva che sembra fatto di sabbia secca e vetro, e con una voce che non riesce a capire da dove gli venga fuori, risponde: «Va bene, a stasera, risolviamo tutto…», non fa a tempo a terminare del tutto la frase che l’altro, scandendo con durezza e sempre col solito tono calmo le parole, dice «Spero per te, amico.», ed attacca, lasciandolo con il telefonino a mezz’aria, vicino all’orecchio. Il tempo che trascorre tra la chiusura della comunicazione ed il lento movimento con cui Marco poggia il cellulare davanti a se sull’ampia scrivania d’acciaio cromato e vetro brunito, tenendoci una mano sopra quasi per nasconderlo, sembra un’eternità. Un tempo dilatato in cui gli occhi di Marco si muovono a guardare quello che lo circonda, valutando solo, per il momento, la gravità del rischio, la pericolosità della situazione, e soprattutto le sue reali disponibilità economiche immediate… Ripercorre la catena degli eventi, i favori chiesti ed ottenuti, le promesse, i magheggi e gli affarucci meno limpidi. Ed istintivamente, ancor prima di aver terminato la ricostruzione, con quello che Pascal avrebbe chiamato esprit de finesse, coglie l’essenza del suo errore: non è voluto stare al suo posto, e non tanto rispetto ai suoi santi in paradiso, no, ma con questi cani rabbiosi, questi delinquenti, questi pezzenti… già, pezzenti che però, chissà come, avevano il suo numero, quel numero, e quindi, cazzo, tanto pezzenti non dovevano essere, non potevano essere…
I pezzenti che tanto pezzenti non dovevano essere erano alcuni cani radagi, o almeno così gli era sembrato di poterli catalogare, che gli avevano fatto diversi favori, diciamo così: far sgomberare persone dagli immobili rilevati da ristrutturare, impedire, per così dire, ad alcuni piccoli concorrenti di dare troppo fastidio, rendere più malleabili alcuni proprietari di terreni, ammorbidire le idee troppo rigide di qualche fornitore o cliente. Lo sporco braccio secolare di un sacro potere di cui lui era uno degli officianti. Non ricorreva a loro spesso, questo era vero, ma quando era stato il momento, non avevano mai mancato di accontentarlo, precisi e puntuali, oltre che efficaci ed efficienti. Solo che col tempo le loro richieste in termini di soldi erano aumentate. Da banali pretoriani al suo servizio avevano però preso consapevolezza del loro ruolo, valutando senza imperizia che i loro favori, in un paese come l’Italia, per un personaggio come lui, erano molto preziosi, più di quanto lui stesso credesse. Ripassando i ricordi – per un uomo nella sua posizione avere una memoria di ferro è un requisito fondamentale – notava che dai primi contatti erano via via migliorati sia i loro modi, sia il loro abbigliamento. Da evidenti manovali del crimine a qualcosa di più presentabile. Certo, sempre con quell’odore ferino di assassini ripuliti, con quelle decise rughe attorno agli occhi, le mani con le unghie sempre troppo corte e le dita troppo tozze, sempre con un italiano approsimativo, ma più ripuliti. Più in grana. Gli avevano fatto parecchi favori, sempre ben retribuiti, e mai un problema, ma negli ultmi tempi Colletti, che anche se era uno che sapeva stare al suo posto non voleva diventare l’ennesmo qualunque, ma almeno crearsi una sua autonomia, un suo spazio di manovra, era ricorso a loro in diverse occasioni, e non solo del tipo problem solving, in altre parole fare in fretta quello che legalmente avrebbe richiesto tempi inaccettabili alla dinamica del denaro e del potere, ma anche per scopi, diciamo così, ricreativi. Poche parole in un garage, se lo ricordava ancora: «Se serve donne, droga, chiedi pure amico, noi non siamo albanesi che fa rapina in villa, credi a me. Io mai ho mentito, signor Colletti…? Noi facciamo buoni affari: tu con noi, noi con te. Possiamo fare affari più buoni…». Così gli aveva detto il tipo che pareva essere il capo, uno con due occhi spaventosamente scuri e bui e profondi e mani che a vederle uscire dalla manica di un indumento poco più elegante di una maglietta facevano anche più paura… E lui di affari “più buoni” ne aveva fatti eccome. Al consigliere regionale col vizietto aveva procurato quel che gli occorrerva, rosa e purissima. Al giudice con la fregola aveva fatto scaricare la coscienza attraverso canali più naturali che il diritto… Ma queste erano cose non enormi, non troppo vistose. Ma non riusciva a capire come fosse finito nelle loro mani “quel” numero…In realtà quello che probabilmente era stato un passo un po’ troppo in là, sebbene sulle prime non avesse avuto la prontezza di fare quel collegamento, quel passettino falso un tantino di troppo rispetto alla sua posizione, era stato il ricevimento nella sua villa a via della Giustiniana, anche perché quella volta erano venute persone che conosceva solo per interposta persona, attraverso i suoi santi in paradiso, molti dei quali avevano comunque fatto capolino, e al seguito erano venuti anche anche nuovi visi e personaggi all’apparenza dimessi. E lì gli era stato chiesto un favore da uno dei suoi santi in paradiso, quello di mettere a disposizione di alcuni di quei signori lo studio appartato, quello con la parete a vetrate che dava sul parco dove una fila di pini marittimi cresceva giusto sul ciglio dello scollinamento che digradava in un prato a perdita d’occhio. Il suo studio in cambio dell’apertura di un conto off-shore sul quale attraverso una delle sue molteplici scatole cinesi sarebbero dovute passare alcune transazioni rispetto alle quali si imponevano esigenze di estrema riservatezza, come gli era stato fatto capire con uno sguardo amichevole dietro il quale si ergeva un muro di spietatezza fomale. Armi, per la precisione, per il supporto a non ben definite unità di non aveva capito bene cosa. In ogni caso armi, questa era la parola che gli era rimasta infitta nel cervello. Avrebbe avuto il suo vantaggio, certamente, su questo gli era stato assicurato che non ci sarebbero state scorrettezze, a breve sarebbe stato formalizzato il tutto. Lo aveva tirato dentro ad un affare più grande di lui. Non era stato scelto perché affidabile. Era stato usato perché non poteva dire di no. Ed il grazie di uno di quei signori così silenziosi e defilati, in onore dei quali il suo studio era stato trasformato in luogo di certi affari, aveva un accento esotico ma per niente piacevole, così come la consistenza della sua stretta di mano. Una mano incongrua rispetto all’abbigliamento. Curata certo. Ma mano da guerra, non da ufficio, mano da mitra, non da penna. Una mano che lui non poteva saperlo, ma anni ed anni prima aveva stretto anche quelle dei miliziani dell'UCK…
Tutto questo era accaduto quasi un anno prima, anno durante il quale con discrezione ma con crescenti volumi di denaro, l’attività del conto era stata sempre accorta. E da quel fiume carsico che scorreva nei canali sotterranei del sistema bancario, per vie più che traverse, anche lui aveva tratto la sua bella sporta in termini non tanto di denaro, ma di agganci, di contatti, di commesse. Un mondo leggermente differente da quello in cui Colletti era uso muoversi. Eppure quella leggera differenza faceva, a quei livelli e secondo le regole della scala delle grandezze, una grande differenza. Ed in quella differenza Marco Colletti aveva commesso, aveva dovuto commettere qualche stupido errore di cui non riusciva a tracciare il profilo. Almeno non in un lasso di tempo così breve. Ma una cosa era ora certa. L’unico canale attraverso il quale “quel” numero era potuto cadere nelle mani di Jimmi l’albanese – o come diamine si chiamava il tipo che quando glielo aveva presentato un altro suo amico, dal loden verde fuori moda quanto i suoi modi ma molto ben inserito dove occorreva essere inserito – era il canale aperto dopo quell’affare. Un canale fatto di alcuni viaggi in Montenegro ed in Kosovo, di giri tra il Liechtenstein e le isole Vergini, dove le incognite erano molte di più di quelle a cui era abituato. Dove le mani da stringere erano divenute, sempre più spesso, mani inquietanti nella loro forza e nell’evidenza della loro attività più propria: la guerra.
Mani come quelle che l’avevano impressionato tanto in quel garage. Lo stesso tipo di mani, lo stesso tipo di uomini. Ecco come cazzo avevano avuto “quel” numero!

Ed ora rimandiamo avanti, mezz’ora dopo circa, tentando di tenere intatte le interne reciproche tensioni, gli scenari di vita o di morte, di disperazione e di angoscia che ciascuno dei due sta sviluppando dentro di sé. Uno che ha covato l’uovo malefico di questo momento con cure maniacali e quasi perverse e sente di aver covato la catastrofe della propria vita, il mostro che lo sta per ingoiare, e l’altro che come un ballerino abituato a passi precisi e veloci, sente che sta invece perdendo in brevissimo tempo l’equilibrio per un’errore di ritmo, di equilibrio, di esatta posizione dei piedi, e sta per cadere giù da un precipizio, se gli va bene.
Paolo Terenzi in piedi con alle spalle la porta chiusa, come a dire che indietro non si torna, così come lo abbiamo lasciato, sul ciglio di un baratro che si è già aperto in lui e Marco Colletti seduto difronte, Marco Colletti che non fa neppure finta di alzare la testa per salutarlo e strascica indolentemente e quasi senza pensare le parole, saturo di impazienza e bisogno di trovare una soluzione che gli pari il culo rispetto alla parte che ha omesso di dirsi nella precedente ricostruzione (il tentativo cioè di crearsi una sua capacità di manovra, ovvero facendo il furbo su quei passaggi di denaro, ovvero sottraendo, stornando, diversificando, maneggiando, pensando ancora di avere a che fare con gli edili romani o i bancari di casa nostra, o con gli appalti a mazzette e festini… ), o molto più plausibilmente gli salvi la vita – ed anche questo, così come a Paolo, glielo dice una parte della sua coscienza che ha già snasato il pericolo incombente ed inevitabile; solo che nell’imprevedibilità stupendamente creatrice della vita l’allarme è giusto, certamente, ed anche il pericolo. Solo che stanno per arrivare nel momento e dalla persona sbagliati.

sabato 16 marzo 2019

LA RAPPRESENTAZIONE DI UN SOGNO


I sogni sono sempre stati per me un'inesauribile miniera d'immaginazione, un terreno fertile per la fantasia e mi hanno mostrato idee che ho molto spesso utilizzato nelle cose che ho scritto. Raramente però, da tutti i tentativi intrapresi, è fuoriuscito un testo per me soddisfacente, e se questo può apparire come un insuccesso, ha invece lasciato in me, sempre, il desiderio di raccontare.

Il brano che segue potrebbe costituire l'inizio di un romanzo, ma anche di per sé è un esempio di questi miei tentativi, non del tutto riusciti. Ma allo stesso tempo, fra tutti, à quello che per certi aspetti mostra in maniera esaustiva la mia intenzione di "mettere in scena" un sogno, di rappresentarlo. E lo fa con un linguaggio specifico, in cui ho cercato di trasformare la scrittura in una sorta di allucinazione onirica. La seconda parte, invece, ha un registro del tutto differente e serve esattamente a fare da contrasto. Oltre che a costituire l'innesco di una storia a seguire.

L'ho riletto stasera dopo anni, e nonostante non realizzi in pieno quel mio annoso desiderio di raccontare ed in qualche modo far rivivere uno dei miei sogni, credo non sia privo di una qualche efficacia sull'immaginazione.

Ha le dimensioni di un breve racconto.


 









Passa le mani davanti a sé e deve farsi forza per non credere di stare impazzendo. Osserva quella scia luminescente che accompagna i movimenti delle sue mani come la superficie di una bolla di sapone ed in lui continua a lievitare uno stupore d’incredulità e panico crescenti.

Ha corso a perdifiato fin lì, sentendo il cuore che scoppiava, i polmoni riarsi, fuggendo come solo si fugge da un imminente pericolo di vita. E quando ha visto quella bella spianata verde subito oltre la sommità della collina, col prato mosso dal vento, con quella luce tenera ed accogliente che tanto contrastava con la minaccia dalla quale ha iniziato a fuggire non ricorda più neanche lui quanto tempo prima, scappando da un incubo di palazzi e corridoi e stanze e scale e poi strade intasate d’automobili, parcheggi abbandonati, distese d’immondizia, ha sentito che lì c’era la salvezza. S’è slanciato con tutte le forze che le gambe ancora conservano giù per l’inizio di quel pendio e lì s’è manifestato l’incredibile: questo qualcosa che non si può spiegare e che però l’ha fermato, rimbalzandolo indietro come se si fosse scagliato su di un muro di gomma.

Gli occhi gli dicono ancora ora che oltre la sommità digradante di quella collina c’è una vasta spianata verde costeggiata d’alberi, l’udito gli restituisce il canto degli uccelli che proviene da lì e il murmureggiare delle acque che da qualche parte scorrono fra i tronchi di quel bosco, l’olfatto gliene fa avvertire nitido l’odore di foglie e corteccia, quella frescura tipica. Contro ogni evidenza, però, la realtà assurda è che dopo pochi passi dal suo slancio ha cozzato contro qualcosa d’invisibile ed è rimbalzato indietro, per altro senza dolore. Sul momento ha creduto d’inciampare e senza guardarsi indietro s’è di nuovo slanciato in avanti, in preda a quella paura che morde e non ci fa sentire altro che il suo morso. Ed una seconda volta è stato respinto indietro. S’è voltato, più spaventato dal fatto che queste due cadute avessero fatto divorare al mostro tutta la distanza che era riuscito ad accumulare fuggendo, ma di quello non c’è più traccia, ed allora l’epifania di qualcosa d’ancora più inspiegabile gli si è accesa in testa. S’è rialzato ed è lentamente avanzato fin quando non ha visto il suo naso e le mani sprofondare un poco nell’aria davanti a lui, s’è ritratto con orrore ed ha visto per la prima volta quella scia iridescente, come d’acqua saponata.

Ora è in piedi davanti a questo limite, spinge avanti le mani, vede affondare la punta delle dita in un’invisibilità baluginante, le scuote da una parte all’altra, e mentre con gli occhi vede il vento muovere i fili d’erba qualche metro avanti, le sue braccia non riescono ad andare oltre questo limite. Si alza, si abbassa, fa qualche passo di lato, non c’è nulla da fare, non si passa. In qualsiasi modo tenti, non riesce in nessuna maniera ad avanzare. Prova ad arrampicarsi su questo muro d’invisibilità, ma non appena fa forza sui piedi per tirarsi su, ecco che si ritrova di nuovo a terra, come un battito di ciglia ed anche meno, senza riuscire a percepire cosa accada veramente. Sembra come in qualche vecchio film di fantascienza, ma questa spiegazione sbilenca ed ironica non fa che segnalare di nuovo un dato incontrovertibile: se questa è la realtà, qualcosa nella sua testa non funziona più. Se invece la sua mente funziona, questa non è la realtà, per lo meno non quella che conosce. Si siede sopraffatto.

Erano in quella stanza e la sua minuta fidanzata cinese gli diceva qualcosa, lui stava guardando dalla finestra giù di sotto, di sbieco verso quell’enorme spiazzo che un tempo doveva essere stato un parcheggio ed oggi era una distesa sconfinata di cemento dove crescevano qua e là, tra montagne di ferraglia e legname accatastati alla rinfusa, ciuffi d’erba grigiastra. Mentre il flusso delle parole di lei, dolci ed allo stesso tempo inarrestabili, si’ngolfava senza soluzione di continuità nella baia del suo orecchio, come una corrente che non trovi sbocco – la sentiva che sotto la lacca delle unghie, i capelli stirati che sembravano neri e lucidi come quarzi di grafite, il trucco impeccabile e gli occhi fermi e decisi, sotto quella corazza estetica il cuore le grondava lacrime – arrivò uno di quegli enormi autotreni, veri e propri mostri d’acciaio. I rimorchi che trainavano erano a volte contrari ad ogni legge della fisica: alti e stretti, sversavano con un movimento allucinato il loro immancabile carico di detriti – mobili, sanitari, automobili, una congerie di oggetti che alludevano ogni volta con una malinconia stinta alla vita di un tempo. Il mezzo stava proprio in quel momento facendo una di quelle manovre sul limitare esterno della spianata: fermo, aveva iniziato ad inclinare quell’impossibile contenitore che si portava dietro con un movimento che in una situazione normale avrebbe fatto rovesciare su di un fianco l’enorme trasporto. Ma lì non accadeva nulla, l’assurdo rimorchio si era inclinato con un clinamen del tutto coerente, lì, in quel mondo straniato. A quel punto però lei gli aveva poggiato una mano su di una spalla: un richiamo, un appello, una vera e propria implorazione, a ben guardare nell’accorta e sorvegliata prossemica di una donna del suo rango. Lui si era voltato, ancora ora ricorda il movimento del collo come l’aver preso una direzione irrevocabile, e le aveva rivolto un sorriso smorto. Aveva alzato di tre quarti il piccolo mazzo di nodi di seta che gli era stato donato come simbolo della sua unione, forte e delicata appunto, alla famiglia che le dava in sposa la ragazza, e con un’espressione dalla quale traspariva un disgusto antico, il senso secolare di un’insoddisfazione, di una smania, di una pretesa senza oggetto che aveva sfibrato in secoli di guerre la sua razza bianca come la morte, le aveva detto: «Tutto qui?» agitando a mezz’aria quel minuto aggrovigliarsi di nodi di seta, dove su di una striscia nera, colore simbolo dell’amore che tutto accoglie, brillava appena un minuscolo diamante. «Tutto qui?» ripeté lui, che stava per sposare la nipote del più potente signore delle merci di quel piccolo quartiere di quella sconfinata megalopoli che univa in una conurbazione unica tutta la costa della Cina, o almeno così sembrava dall’ultimo censimento, avvenuto diverse generazioni prima. Non esisteva più, in effetti, un passato chiaro, una successione razionale di settimane e mesi e anni per nessuno di loro emersi a quei momenti da un presente senza capo né coda, ma soprattutto senza un concreto scorrere del tempo che fosse arrivato ad impantanarsi lì, in quel preciso scorrere nel quale loro vivevano, quel presente senza fine percorso da un bradisismo onirico.

Lei aveva silenziosamente ritratto dalla sua spalla la mano con una delicatezza nella quale si concentrava una forza smisurata rispetto al suo aspetto minuto, alla sua figura avvolta in quell’abito tradizionale che la rendeva così simile ad una delicata bambola di ceramica. E a quel punto, nella spianata, molto più vicino, quasi la scena avvenisse proprio davanti la finestra dagli infissi gelidi di un metallo stazzonato d’umidità e corrosione, era arrivato un altro autotreno, questa volta di dimensioni davvero colossali. Si portava dietro una vasca di metallo nel quale giaceva una montagna indistinta di oggetti. Li riversò in una delle aree libere dello spiazzo senza limite, con una facilità che aveva del mostruoso. E mentre questa scena prendeva forma in quella geometria allucinata su cui affacciava la loro camera, nella sua mentre prendeva forma l’assurdo e l’impossibile: gettare in faccia al vecchio balordo quel mazzolino di nodi con quella pietra ridicola, così simile ai milioni e milioni di pietre sintetiche che si potevano trovare ovunque, finanche nei distributori automatici. E lo avrebbe fatto davanti a tutti. Quella pietra offensiva, le dimensioni umilianti di quel mazzo di seta rituale, tutto parlava del disprezzo verso di lui. Un affronto che per quanto fosse un bianco andava davvero troppo al di là, sconfinando in una derisione che però coinvolgeva ogni residuo di umanità, incluso l’amore che c’era stato, non rammentava più bene quando, però, fra lui e la donna che ora gli fissava le spalle sprofondata in una rassegnazione di pece. E quella donna era comunque la nipote, questo non poteva sfuggire a nessuno. Una vibrazione più potente, a quel punto, gli attraversò la mente, un’interferenza, una distorsione come quella che aveva percepito anni addietro fuoriuscire da quel cono di cartone con dietro una calamita, attaccato con poveri fili di rame ad un apparecchio antico dove girando una manopola, un tempo, si erano selezionate voci e musiche. Ne era fuoriuscito un crepitio e poi un sinuoso avvolgimento del suono, gonfio e distorto di nulla. Ed ora, mentre cercava di dare una forma a quel pensiero, di comunicarlo in qualche modo a lei che si stava asciugando di dolore, si sentiva come deformato, distorto. Nella spirale estraniante di quel suono gli era sembrato che ogni cosa scivolasse via come dallo scolo di un lavandino: quella stanza, lo spettacolo della spianata, la sua fidanzata, lui, lo spazio stesso tra gli angoli di quella stanza appena percepita e spoglia.

Senza poter capire come, si era quindi ritrovato con il mazzo di fiocchi di seta alzato a mezz’aria, in una sala agghindata a festa, i tavoli carichi di stecche di sigarette, piatti vuoti e cappelli, le finestre assenti e le luci al neon che raggelavano con un lucore vibrante e freddo, intenso ed inconsistente. Una sala piena di vecchi balordi, capibanda, delinquenti con le bocche spalancate nella giaculatoria oscena di una gioia fatta di denti marci, sudditanza e spirito gregario. E voltandosi appena un poco sulla sinistra c’era il boss, quell’anziana bestia, intenso di una fosforescenza malvagia, appartato ma al centro di ogni ragnatela di potere tessuta in quello spazio. Il nonno oltraggioso della sua fidanzata, quella graziosa creatura che aveva amato, ed ora che non rappresentava altro che un triste calco nel cuore avrebbe dovuto fare sua come sposa attraverso quella cerimonia oltraggiosa e bizzarra. Si stava rivolgendo alla folla di vegliardi, ma le sue parole erano per quel vecchiaccio da incubo. «Onoro la vostra generosità, lo splendore che manifestate – ed aveva agitato il mazzolino come fosse una cosa frusta e di poco conto – e la prodigalità di cui ci onorate …». Dentro ogni parola si agitava una fiamma, al pari di un gioco pirotecnico fatto di luci, ma che nel cuore portava fiamme e distruzione. Ed il fumo di quell’astio antico era arrivato alle narici di drago di quell’uomo, un incrocio fra una visione d’insetto feroce e la rappresentazione stereotipata di uno dei miliardi di Lao-Tze di plastica che inondavano il pianeta: il naso leggermente arcuato, i capelli fini, lo sguardo cieco, un sorrisetto senza tempo come la crudeltà umana. E mentre quelle parole danzavano il balletto d’una riconoscenza che non era altro che la forma allucinata di un'offesa bella e buona, di un attacco frontale e senza appello, la sofferenza che la ragazza aveva provato era evaporata del tutto, lasciando solo taglienti cristalli d’odio – quel sentimento netto e dalle forme inalterate. E di nuovo quel vibrare fondo, quell’alterazione ulteriore che aveva offuscato le coordinate esatte della realtà così come i nostri sensi ce la restituiscono, o costruiscono. C’era stato uno sfilacciamento, quasi che le facce, le forme ed i suoni si fossero scollati dal fondo in un tripudio di fili di colla e d’illusione. E di colpo s’era voltato, più dentro di sé, però, o almeno così gli era parso, che fuori.
Era uscito da quella sala come in trance, con alle spalle le voci bercianti e felici di tutti quegli uomini che acclamavano la generosità del loro capo, di quel vecchio sanguinario: il nonno della sua fidanzata. Lo scorrere dei secondi era sembrato arenarsi in una sequenza ardua, faticosa, in cui la lancetta dell’orologio non riusciva più a sospingersi avanti. Lei era rimasta lì in piedi accanto al profilo tagliente dell’anziano capofamiglia, a quei capelli bianchi e fini sotto i quali riluceva un cranio lucido e cosparso di nei chiari, con lo sguardo assente e le mani conserte in grembo, immobile. In quel carillon di festa surreale che rallentava la sua musica meccanica, lui invece aveva attraversato i corridoi adornati a festa, con le coccarde colorate, gli striscioni, i festoni, quel trionfo kitsch di colori e forme, per sbattersi dentro il primo ascensore che lo aveva restituito al ventre gelido e di cemento di quegli enormi edifici intorno ai quali proliferava senza soluzione di continuità una desolazione stridente, angosciante. Un cielo d’un grigio uniforme spegneva la linea dell’orizzonte, aprendo le pareti della vista ad un ruzzolare di cartacce, polvere ed insidiose nuvole di smog che lambivano gli spigoli degli edifici con carezze acide gravide di tumori. Il tono monotono della discesa gli avvolgeva il capo in un asciugamano caldo, gli ovattava la percezione: l’ascensore impiegò un tempo che sembrò dilatarsi a dismisura non solo dentro l’altezza dell’edificio attraversata da quella cavità di metallo, condotte e congegni idraulici, ma fin dentro i suoi pensieri, quasi precipitasse in un altro tempo, oltre che nello spazio. Alle sue spalle la gioia friggeva ancora servile attorno al cuore marcio del patriarca e della sua nipotina di ceramica e carne, negli occhi della quale prendevano già forma calde lacrime di dolore, il distillato avvelenato dell’amore: un incubo d’odio senza forma. Impossibile calcolare, in quel teatro onirico che ormai sembrava aver preso il posto della sua vita, il tempo esatto che quella comitiva di vecchi delinquenti pieni di unghie del mignolo ritorte, stecchini incastrati fra i denti e tinture di capelli, avrebbe impiegato per realizzare che quell’uomo venuto da fuori se l’era data a gambe subito dopo aver pronunciato parole di rispetto, certo, di riverenza, anche. Ma così strane da sembrare quasi un’eco distorta di ben altri pensieri. Eppure avevano applaudito, avevano strillato, avevano dato fiato a tutto il loro repertorio di auguri sguaiati e benedizioni da criminali. E non era però sfuggito loro il viso translucido della fidanzata, lo sguardo in tralice, il pallore luminoso che sembravano emanare le sue guance.

Poco prima che l’ascensore, in quella sua discesa senza fine, raggiungesse il piano terra e le porte si aprissero, lui percepì chiaro, come lo scatto di una serratura, che nel cervello del vecchio era scattato il meccanismo della comprensione. Ed a metterlo in moto erano state le lacrime della nipote che nel silenzio più totale, nell’immobilità più attonita che aveva ghermito la sala come un rapace inaspettato, erano colate diritte senza sbafi dal ciglio degli occhi giù per le gote, stillando fino in terra un dolore che in bocca al vecchio prese immediatamente il sapore, la forma il colore ed il suono della vendetta più bestiale: «Acchiappate quel bastardo e portatelo qui! Subito!» Al suono tagliente e chiocco delle sue parole i corpi dei vegliardi erano sembrati sgusciare veloci e sinuosi come serpenti fra i tavoli, ciascuno diretto dove sapeva, a dirigere con quell’unico scopo la sua particolare sezione di incubi e torture, omicidi e stupri, affari inconfessabili e semplice assoluta violenza. Un brulicare di giacche color crema, occhiali scuri e scarpe di vernice s’era animato tutto attorno costellato dallo scarrellare di decine di pistole, dal baluginare repentino di lame e pugni d’acciaio, dall’agitazione feroce e determinata che coglie la muta quando si lancia dietro alla preda, per inseguirla e stanarla.

Con capriole all’indietro che avevano inghiottito qualsiasi passato lo stesse braccando, la scena alle sue spalle era precipitata fuori dalla sua fuga, oltre ogni raggiungibile immaginazione, in un bestiale calpestio impotente. Tutto l’orrore che aveva proiettato quell’ombra gracchiante nel retrobottega della sua coscienza, quello stanzino stantio dove brulicano gli scarafaggi, era stato assorbito dalla spugnosa realtà che pareva assorbire in un lento ansimare silenzioso ogni parvenza di oggettività. Sfilate di vetrine sfasciate, serrande mezze alzate, carcasse di autobus ferme sul ciglio della strada, torme di baraccati che vivevano accampati dentro i palazzi come dentro a grotte spoglie, senza elettricità, senza acqua corrente, senza riscaldamento, in quel colloso grigiore freddo che si espandeva di continuo, e lui correva, disperato portatore, con quella sua disperazione, di una delle rare sensazioni ancora in grado di essere definite con chiarezza. Dietro di lui i tentacoli del vecchio si erano modificati. La furia e la violenza, portate sulla punta delle scarpe dei suoi scagnozzi, avevano finito per raggrumarsi come una sporcizia sanguinolenta, una poltiglia di carne e muscoli. E se la loro ricerca, così come la corsa di lui, aveva finito per specchiarsi su quella superficie ingrigita che era il mondo circostante – avevano interrogato sdentati dementi dediti ad inalare colle secche, accattoni di cinque anni, balbuzienti impiegatucci tremebondi che correvano nei loro loculi, avevano torchiato e spremuto quell’inane umanità che sopravviveva a se stessa senza cavarne che alito fetido e terrore – l’ansimare rabbioso dei loro cuori di bestie si era condensato come un male umido, una brina d’infamia. Scolando e gorgogliando in quella distorsione che percorre ogni cosa, ogni suono, ogni immagine come in una veglia allucinata, la minaccia concreta di una pallottola che gli avrebbe aperto il cranio come un melograno, d’un pestaggio che l’avrebbe ridotto ad uno straccio tumefatto d’ossa rotte, s’era trasformata, aveva scavalcato l’orizzonte del tangibile andando ad abortirsi in una dimensione più oscura. Dopo una certa durata, di respiro in affanno, gli scagnozzi del vecchio avevano ceduto all’evidenza della cecità di qualsiasi caccia avessero insistito a portare avanti in quella delirante opacità, in quel brulichìo di rifrazioni, di tempo asmatico, d’un ingolfarsi dello spazio in una vischiosità ed una diffrazione senza soluzione di continuità. Ma le stille del loro sangue marcio avevano secréto un globo d’orrore, una palla irregolare di malvagità. E dove quelli avevano dovuto lasciare, essi stessi in tutta la loro umana ferocia impotenti verso quell’incubo offuscato fatto realtà, quella invece aveva non solo capito, ma annusato, stanato, individuato ed identificato il fuggisco. Perché le apparteneva come ogni carnefice appartiene alla sua vittima, come ogni incubo appartiene al suo sognatore con un’intimità stretta e profonda, inaccessibile alla lucida follia della ragione. Quella forma di vita oscena aveva occhi che non vedevano, ma traguardavano, e pur senza mostrare una forma, ne assumeva una ad ogni occorenza ed attraversava qualsiasi cosa senza alcuna umana preoccupazione, senza problemi, dubbi, pensieri, dritta come un siluro onirico sparato dal centro oscuro della psiche, laddove nasciamo assieme al nostro demone e da ancora più giù, dove siamo generati come mostri. E così, senza un trascorrere sensato, aveva immediatamente puntato la traiettoria spaziale di lui, lo aveva appuntato nello spazio come s’infilza con uno spillo una farfalla. Lui che fuggiva senza speranza non poteva saperlo, ma ad un tratto la sua corsa si era fatta pastosa, la grana dei suoi pensieri più grossolana, i movimenti s’erano come arenati dentro un’invisibile melassa al rallentatore. Ed intorno a lui l’usuale allucinazione aveva assunto forme ad ogni istante più improbabili. Aveva svoltato in un vicolo fra due di quegli enormi grattacieli fatiscenti per ritrovarsi d’improvviso aggrappato al corrimano arrugginito di una scala male illuminata da lampade fioche, affannato a salire scalini sbreccati ed unti cosparsi di cartacce e lattine schiacciate. Ed al tonfo normale del cuore aveva reagito voltandosi, senza poter vedere nulla, ma percependo distintamente l’entità incombente che aveva iniziato ad ingoiare come parte di un legame la distanza fra di loro. Aveva aperto una porta, attraversato un lurido appartamento dove una donna avvolta in cenci stava allattando al seno asciutto e cadente un baco ammuffito, e saltando sul bordo di una vasca da bagno arrugginita era volato fuori da una finestra, con un’agilità pari solo all’assoluta inutilità che ormai aveva pervaso tutte le sue mosse, i movimenti ad ogni istante più lenti ed allo stesso tempo più acrobatici, pieni di tutta la forza che poteva imprimere loro ed allo stesso tempo come vuoti, cavi d’ogni efficacia.

Qualsiasi suono gli giungesse alle orecchie era in qualche modo sincopato, gonfio d’eco e distorto. E qualsiasi traballante rapporto tra questo universo sonoro infernale ed i suoi gesti, le sue movenze e l’interazione fra le cose aveva perso completamente di sensatezza, in un arbitrio auditivo micidiale e sfrenato. Era a questo punto che qualsiasi pur leggera reminescenza di quello che fino a qualche minuto prima era stato un recente passato era andata totalmente in frantumi, con un’esplosione interna al suo cervello come quella di un enorme globo di cristallo che precipiti dall’alto. In ogni frammento di memoria, quel collante che fa sembrare plausibile qualsiasi congerie di cosiddette realtà ci offrano i sensi, le immagini che gli erano rimaste appiccicate dentro come una patina oleosa erano saltate via taglienti, simili a schegge di selce. Il taglio degli occhi della sua fidanzata, la distesa interminabile di edifici e l’inestinguibile nube cancerosa che fagocitava il paesaggio visto quella volta dal 235 piano, con la curvatura terrestre come un’ultima carezza su quello scempio ormai senza tempo né cura, la musica di un carillon in un taxi, le esplosioni davanti la canna del suo fucile mitragliatore nell’oscurità di un parcheggio sotterraneo di diversi chilomentri quadri dove erano entrati per liquidare torme di subumani, la schiuma giallastra che il mare insisteva a sbattere sui moli di cemento armato come la chioma d’un cadavere… tutto era schizzato sulle pareti del cranio trapassandolo ed uscendo. Gli era evaporata d’un tratto qualsisi consapevolezza di avere avuto una vita. In quel vuoto interno s’era installata solo una mancanza che palpitava di puro terrore. A quel punto solo ed eslcusivamente un ronzio costante gli aveva trapanato i timpani e sotto quello, come un segnale prossimo a spegnersi, il tonfo animale del suo cuore. Ma era tutto un viaggio lungo, stridente. Ogni forza che poteva essere tirata fuori dalle più intime fibre carnali del suo corpo esauriva la sua carica esprimendo il massimo dell’agilità e della potenza. Era un animale che fuggiva come solo un animale può fuggire, con l’unico obiettivo di riuscirci. Ma in quel cavo che gli era deflagrato dentro il cranio, a dispetto d’ogni irrazionalità, d’ogni incubo possibile nel quale quanto lo circondava si andava trasformando, rimaneva una spina, una lama di consapevolezza che gli diceva che era perduto e non ce l’avrebbe mai potuta fare, perché in qualche modo non poteva salvarsi. Poteva sfuggire, scappare, ma salvarsi no. L’entità lo sapeva ed ora come un’ala, ora come una zampa, una sfera muscolosa di sangue e denti, ora come un’ombra, un passaggio intravisto, una presenza inquietante, più precisamente come tutto quanto di orribile gli apparteneva, lo aveva, lo raggiungeva, lo braccava in una prossimità mai definitiva, ad una sempre minore distanza che però non si colmava. Il parossismo di quell’avvicinamento interminabile era sorgente di un panico bianco ed assoluto. Di lì in poi una successione di luoghi incongrua, una sequenza perturbante nella quale aveva corso come all’interno di una mente devastata, oltre ogni irragionevole e malata fantasia. Sotto i suoi piedi aveva calpestato strade che si allungavano all’orizzonte perforando perfino le barriere al di sotto delle autostrade secolari erette su piloni di cui si intuiva appena, di là dalla nebbia di smog, la fine. E poi le gambe avevano falciato lo spazio come forbici, mentre scartando come un coniglio s’era infilato direttamente nel tunnel di una delle tante metropolitane abbandonate che scavavano il sottosuolo come vene vuote, infestate di torme di topi, di rifiuti, di accampamenti subumani, per poi slanciarsi di nuovo fuori, via, sempre correndo, correndo lungo canali di scolo cementificati in cui scorrevano rigagnoli verdastri dall’odore d’acido. E via via, per quanto sembrasse impossibile anche in quel momento ormai fermo, anche in quel mondo assurdo, gli edifici si erano fatti radi, l’orizzonte si era liberato, ad una successione di edifici diroccati, d’ululati di cani randagi e di nastri d’asfalto che sfociavano su sterrati appena segnati, avevano cominciato a subentrare cespugli polverosi, qualche duna di sabbia spruzzata di erbacce, perfino radi alberelli rachitici. L’aria si era come lentamente denudata. Spurgato, in quella corsa disumana, d’ogni stilla di pensiero, la sua inseguitrice intima in qualche modo lo aveva ormai già divorato senza che il suo corpo ne fosse stato sfiorato, succhiandogli via ogni parvenza d’umanità, lasciandolo in quell’incubo di animalità braccata. Il suo incubo intimo non lo aveva perso un momento, ingurgitando dentro il male dal quale era nato ogni sua scintilla di speranza, straziandone con le zanne la stessa sensazione di poter avere ancora una vita qualsiasi, fosse pure un’eternità d’oscurità e soffocamento. Una volta che lo aveva spinto fuori da se stesso attraverso quell’itinerario allucinato e folle, allora aveva finito per appartenergli del tutto e senza che lui se ne rendesse conto lo aveva lasciato scappare, questa volta dal nulla. Ed il nulla aveva inghiottito benevolo ogni cosa. C’era stata come una tempesta di polline, un vero e proprio tornado di soffioni che aveva offuscato tutto provenendo non si sa bene da dove, bensì da ogni parte, confondendo il basso con l’alto, ciò che era davanti con ciò che era dietro ed ogni lato con ogni altro, smorzando la sua sensazione di correre in quella di procedere a caso, non si sa bene in quale direzione. Poi attorno alla sua fuga si era disteso il banale paesaggio di una campagna anonima. Alberi, erba, siepi, scollinamenti. Ed i colori, cone resuscitati da quella malattia della retina che dillà aveva reso ogni cosa una sfumatura di grigio e nero, erano di nuovo sgorgati da ogni cosa nella loro intensità naturale. Ma lui aveva continuato a correre, perché quel giusto terrore che lo aveva preso lo doveva spingere fino al limite ultimo, sulla superficie del proprio specchio ed oltre.


SECONDA PARTE

Quando apre gli occhi, quasi come se la sera prima non li avesse chiusi, non pensa più nulla. Si scopre, si alza, rimane a sedere nudo sul bordo del letto. Si schiarisce la gola, afferra il pacchetto di sigarette sul comodino, se ne accende una ed aspira forte. Un gesto ormai usuale in quei giorni. La pelle del corpo è umida di sudore. La punta della sigaretta emette un bagliore rossastro d’incendio. Fuori c’è il silenzio della domenica mattina. Nella penombra della stanza attraversata dai raggi del sole il fumo azzurrino si diffonde lento. Aspira una boccata via l’altra. Socchiude gli occhi, sbadiglia. Non rifà il letto da molti giorni e le pieghe delle lenzuola somigliano sempre di più a quelle del suo viso. Quei tagli profondi che da un momento all’altro, nella sala dell’obitorio, si sono aperti sul suo viso come voragini. Si trova in quello che con un eufemismo sciapo la cultura contemporanea definisce “un momento particolare”, o con una concessione appena più accennata alla realtà, “un momento doloroso”. Con la sigaretta fra le labbra si alza e nudo com’è va in cucina per prepararsi il caffè. L’unico rumore udibile è quello della pelle dei suoi piedi sul pavimento. La luce filtra nella semioscurità di casa attraverso le persiane chiuse. Le pareti, il corridoio, le stanze: sembrano le cifre di un abbandono, una nave spiaggiata, il rebus risolto di una fine. I libri sparpagliati ovunque come una specie di vegetazione selvatica ed infestante. Quando arriva in cucina l’unico rumore che arriva dall’esterno è l’ansimare laborioso del camione dell’immondizia. Lui intanto afferra la macchinetta per il caffè. La sequenza dei gesti che compone quel rito mattutino è come un geroglifico: lo sa riprodurre, ma non ne conosce più il significato. Quando accende il gas rimane lì in piedi. La sigaretta che continua a fumare, il rumore dei cassonetti che vengono sversati, il caldo che da fuori ghermisce le pareti dell’appartamento. Sul tavolino, aperto e col posacenere poggiato sulle pagine a tenere il segno, Una solitudine troppo rumorosa. Nel lavabo il piatto e la padella ancora da lavare. La moka inizia a gorgogliare, uno sbuffo di fumo sale dal beccuccio, carico d’aroma. Con due dita afferra il mozzicone e lo getta nel lavandino. Una goccia di sudore gli cola dai capelli sulla fronte. Spegne il gas. Le immagini del sogno gli fluttuano nitide nella mente rasata d’ogni pensiero. Afferra una delle due tazzine dallo scolapiatti. Rasare i pensieri è stato un lavoro duro, come cancellare dai muri della mente gli affreschi di un’epoca, tutte le immagini del teatro della memoria, le scenografie dei momenti passati. È stata una cruda necessità. Si versa il caffè, rimane con la tazzina a mezz’aria, annusando quel profumo che era stato domestico ed ora è stato declassato ad abitudine. Beve in piedi chiudendo gli occhi. Anche il sapore del caffè va tenuto a bada, perché tutto ciò che gli sollecita i sensi diviene automaicamente ricordo. In quei momenti l’ingorgo delle cose che avrebbe voluto dirle, tutto ciò che normalmente si rimanda ad un momento più appropriato, sequestrati dal falansterio della vita quotidiana, gli si secca sulle labbra come una crosta di sale. E lui fantastica di non dover più parlare, di potersi sottrarre a quella produzione di suoni che gli è divenuta aliena, quasi che tutto ciò che avrebbe voluto dirle e tutto ciò che potrebbe ancora dire non abbia più la forza di staccarglisi da dentro, di esprimersi, di venire articolato, masticato, espulso, liberato. Spinge la lingua sul palato, ingolla l’ultimo sorso di caffè quasi con rabbia. Le domeniche sono i giorni peggiori. Specialmente la mattina. Da qualche parte squilla il telefono. Sa già che deve rispondere, perché cadere in quei buchi di silenzio è pericoloso e la percezione del rischio e delle sue conseguenze lo sospinge, quasi una spinta alle spalle. Così poggia la tazzina ed ancora confuso dietro quel rimuginìo intimo s’avventura alla ricerca dell’apparecchio. Chi lo chiama sa. Chi lo chiama lascia squillare, ma non è insistenza, non è invadenza. Quando trova il telefono risponde senza neanche dire pronto. Ti ho svegliato? No. Come va? Meglio. Ti serve qualcosa? No, grazie. …Che fai oggi? Non lo so. Vuoi che passo, magari porto da mangiare qualcosa. Forse esco. Fai bene, non rinchiuderti in casa. Ed a questo punto le sue energie per portare avanti la conversazione si arenano. Normalmente possediamo una quantità quasi sempre eccedente di informazioni da scambiarci, di pleonasmi condivisi, ed in questo consiste spesso la gran parte di una conversazione, il piacere di sentirsi, appunto. Il silenzio invade invece questo scambio di battute. D’accordo, se hai bisogno di qualcosa, chiama. Certo. Ciao. Ciao. Ecco, è finita, anche questa è fatta. Il compito è stato assolto. Rimette il telefono dov’era, poi, quasi avesse dimenticato qualcosa, si affretta in camera da letto, preleva il pacchetto di sigarette, ripassa in cucina e prende il posacenere usato come segnalibro. Le pagine si richiudono su stesse, ma non del tutto. Va a sedersi sulla poltrona nel salone, prende il telecomando ed accende la televisione. Non ha mai guardato così tanta televisione in vita sua come in questi ultimi tempi. Aiuta moltissimo. Per tacitare la mente c’è chi si rivolge alle droghe, chi all’alcol od alle religioni. Lui accende il televisore e lascia che il profluvio di immagini, chiacchiere, musiche, pubblicità, serie televisive, notiziari gli invadano la scatola cranica, gli piallino diligentemente la percezione della realtà, scavino un fossato fra i suoi sensi ed il mondo che lo circonda. Come strumento per stordirsi è perfetto.